NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

domenica 7 gennaio 2018

Armando Diaz (1861-1928) Il Duca della Vittoria - III parte


Al riguardo cito volentieri due giudizi sul nostro, uno del generale Cavallero: “un’ opera quotidiana ed accorta sotto la guida di una mente sempre in equilibrio e sempre presente a sé stessa”. L’altro è del Sonnino: “Diaz è un uomo che ragiona e con cui si può ragionare”. 
Non aveva l’inflessibile volontà offensiva e la personalità dominante di Luigi Cadorna, ma la sua prudente e serena fermezza, la sua comprensione della terribilità della guerra, quindi il suo interessamento autentico per le condizioni di vita delle truppe e la valorizzazione anche pubblica dei suoi subordinati, infine la sua capacità di collaborare con le forze politiche e di costruirsi un’immagine popolare senza cedimenti demagogici, ne fecero l’uomo giusto al posto giusto nella fase finale di una guerra pressoché logorante.
Più della vittoriosa resistenza del novembre-dicembre 1917, in cui il Comando supremo ebbe limitate possibilità di incidere sul combattimenti, va riconosciuto al Nostro il merito di aver condotto l’esercito nelle migliori condizioni possibili alla battaglia decisiva del giugno 1918, che diresse con una combinazione di energia e prudenza (soprattutto nell’impiego delle riserve), riportando una delle maggiori vittorie difensive dell’intero conflitto.
Fu indubbiamente lento a cogliere la precipitosa evoluzione della situazione internazionale nel settembre 1918, quando un’offensiva italiana diventava così necessaria da un punto di vista generale (l’Austria-Ungheria aveva avviato negoziazioni segrete per la sua resa) da giustificare rischi anche grossi in campo militare; ma poté recuperare con la battaglia di Vittorio Veneto, lanciata quasi all’ultimo momento utile contro un nemico sull'orlo del collasso, ma ancora temibile, e risoltasi nel clamoroso successo di cui la guerra italiana aveva legittimo bisogno.
Successo consacrato nel famoso “Bollettino della Vittoria”, steso come di consueto dal colonnello Domenico Siciliani (1879-1938), e dal Diaz aggiustato, corretto, integrato e sottoscritto.
Il Generale Armando Diaz rimase a capo dell’esercito per un anno ancora dopo l’armistizio. Non fu un anno facile, per i grossi problemi concreti che si ponevano (la prima ricostruzione dei territori liberati, le occupazioni sulle Alpi e sull'Adriatico, la smobilitazione di quattro milioni di uomini) e più ancora perché la fine dello stato di guerra vedeva lo scatenamento di violente polemiche sull'esercito e dentro l’esercito.
Nella primavera 1919 il Diaz seguì Vittorio Emanuele Orlando alla Conferenza di Parigi, appoggiandone la politica espansionistica senza condividerla fino in fondo, perché una forte presenza italiana sulla sponda orientale dell’Adriatico non comportava difficoltà militari nell'immediato dopoguerra, quando gli Iugoslavi non disponevano ancora di forze organizzate di qualche consistenza (e quindi l’arresto della smobilitazione voluto dal governo in primavera mirava soltanto a impressionare l’opinione pubblica con una dimostrazione di forza), ma a lungo andare avrebbe rappresentato per l’esercito un peso insostenibile. Accolse quindi con favore la costituzione in giugno del governo del Nitti con un programma di normalizzazione, designò personalmente il nuovo ministro della Guerra generale Alberico Albricci (1864-1936) e collaborò pienamente alla smobilitazione dell’esercito condotta quasi a termine nell'estate.
Le violentissime polemiche provocate tra luglio e settembre dalla pubblicazione dell’inchiesta ministeriale su Caporetto non potevano piacergli, per il loro carattere di critica radicale e di rifiuto della guerra italiana, ma non lo toccavano personalmente, perché le accuse si indirizzavano unilateralmente contro Cadorna e la sua gestione della guerra.
Il dibattito fu chiuso in settembre con la riconciliazione di tutte le forze nazionali, concordi nel chiudere il processo al passato per meglio fronteggiare il tempestoso presente; e il collocamento a riposo di Cadorna, deciso dal governo non senza il consenso del Diaz, assunse il significato di una condanna non giudiziaria, ma politica e morale dell’ex “generalissimo”.
Il Diaz non poteva approvare l’avventura fiumana di Gabriele d’Annunzio (1863-1938), che metteva in crisi la tradizione di obbedienza e di apoliticità dell’esercito a lui affidato, in difesa di un espansionismo adriatico in cui non credeva; appoggiò quindi la linea di Nitti ed inviò a fronteggiare la spedizione il suo braccio destro Badoglio, ma non si espose di persona, così come non partecipò, allora e in seguito, alle polemiche sull'amnistia che nel settembre 1919, che cancellò la gran parte dei processi di guerra, varata con il suo consenso e sotto il suo controllo (ingiustamente nota come amnistia ai disertori). Andava maturando la sua decisione di lasciare il comando dell’esercito, non perché Nitti volesse liberarsi di una personalità autorevole o Badoglio manovrasse per scalzare il suo capo (come fu detto senza elementi concreti di prova), ma perché la posizione di Capo di Stato Maggiore dell’esercito in tempo di pace era troppo inferiore a quella di comandante in capo in tempo di guerra e troppo esposta a condizionamenti e polemiche interne e esterne per giovare al suo prestigio di vincitore del Piave e di Vittorio Veneto.
Influivano anche le sue condizioni di salute (sul Carso aveva contratto una bronchite cronica che lo avrebbe progressivamente condotto alla morte per enfisema polmonare a 66 anni) e il suo umano desiderio di fruire degli onori e degli agi della sua posizione; ma erano anche emozioni e esigenze collettive e spontanee dell’opinione pubblica a spingerlo ad assumere il ruolo di simbolo della vittoria al di sopra delle parti.
In occasione dell’entrata in vigore dell’ordinamento provvisorio dell’esercito varato dal ministro Albricci, lasciò la carica di Capo di Stato Maggiore dell’esercito a Badoglio e assunse quella di nuova creazione di ispettore generale dell’esercito di carattere essenzialmente onorifico.
Nell’aprile 1920 un nuovo ordinamento provvisorio dell’esercito, improntato a economie di gestione e riduzione di organici, soppresse la carica di ispettore generale.

Il generale Armando Diaz si ritrovò di fatto pensionato, anche se, per salvaguardarne la posizione, il governo gli riconobbe la corresponsione a vita del trattamento economico di cui godeva, nonché l’indennità di carica spettante al Capo di Stato Maggiore dell’esercito, a titolo di riconoscenza nazionale.
Non rimase a lungo senza una carica di prestigio: avallò infatti la riforma dell’alto comando dell’esercito, promossa dai più illustri generali in odio alla posizione di preminenza di Badoglio, che nel febbraio 1921 trasferì i poteri del Capo di Stato Maggiore a un organo collegiale di nuova creazione, il Consiglio dell’esercito, di cui il Diaz assunse la vicepresidenza e la direzione effettiva (presidente era il ministro della Guerra, unico civile in mezzo ai generali della “vittoria”).
Il Consiglio dell’esercito non diede buona prova: riuscì infatti a bloccare tutti i tentativi di ristrutturare l’esercito sulla base delle istanze del movimento ex combattentistico, ma non ad assumerne l’effettiva responsabilità, determinando un sostanziale immobilismo, però il prestigio del Diaz non ne fu scalfito e, nell’autunno 1921, compì una trionfale missione di propaganda negli Stati Uniti.
Il suo tenore di vita rimase assai semplice: un appartamento in affitto a Roma ed un piccolo ufficio al ministero della Guerra, la bella villa a Napoli donatagli dalla cittadinanza nel 1919 e una casa in affitto a Capri per le vacanze estive.
Non prese parte attiva alle lotte politiche del 1920-22, né appoggiò pubblicamente il crescente successo del movimento fascista.
All’inizio dell’ottobre 1922, mentre la crisi politica precipitava, il presidente del Consiglio, Luigi Facta (1861-1930), lo convocò con Badoglio per essere informato dell’orientamento dell’esercito e rassicurato sulla sua obbedienza in caso di gravi disordini. “Diaz e Badoglio - telegrafò Facta al Re il 7 ottobreassicurano che esercito, malgrado innegabili simpatie verso fascisti, farà suo dovere qualora dovesse difendere Roma”; il che significava che il Diaz, pur rivendicando l’unità e l’obbedienza dell’esercito, aveva consigliato una soluzione politica della crisi e non la repressione dello squadrismo fascista (che sembra invece Badoglio si dicesse pronto a dirigere).
Secondo testimonianze lacunose, ma nella sostanza attendibili, nella notte tra il 27 e il 28 ottobre il Diaz ribadì questo atteggiamento direttamente al Re (non sappiamo se per telefono da Firenze dove si trovava o con una corsa notturna a Roma in automobile), sconsigliando la proclamazione dello stato d’assedio con la nota frase: “l’esercito farà il suo dovere, però sarebbe bene non metterlo alla prova”. Subito dopo accettò di entrare nel primo governo Mussolini come ministro della Guerra [con l’ammiraglio  Paolo Thaon di Revel (1859-1948) come Ministro della Marina]: un avallo fondamentale per il governo fascista dinanzi all’opinione pubblica nazionale e internazionale, nonché una garanzia per la monarchia e per l’esercito, come fu sottolineato nelle prime uscite pubbliche del governo, in cui Mussolini cedette al Diaz il primo posto e i maggiori applausi.
La principale preoccupazione del Diaz, come ministro della Guerra, nei primi diciotto mesi del Governo Mussolini, fu il riordinamento dell’esercito, in modo da porre fine alla confusa situazione creata dal sovrapporsi della smobilitazione, dei tentativi di riforma e modernizzazione e della resistenza passiva delle alte gerarchie.
Il nuovo ordinamento dell’esercito, che il Diaz varò nel gennaio 1923 con una celerità permessa dai pieni poteri ottenuti dal governo Mussolini e poi tradusse in atto nel giro di un anno, rappresentava un sostanziale ritorno all’anteguerra.
L’ordinamento del Diaz ebbe indubbiamente il merito di porre fine ad una situazione di incertezze e di dare soddisfazione alle aspirazioni degli ufficiali in servizio; non seppe però tenere sufficiente conto delle esperienze del conflitto e delle aspirazioni degli ambienti di ex combattenti, che auspicavano un maggiore coinvolgimento del paese nella preparazione bellica, e invece conservò organici troppo ampi per le disponibilità finanziarie, tanto che al giorno 1 aprile 1924 l’esercito contava solo 125.000 uomini, con compagnie di 69 uomini assorbiti per tre quarti da servizi e presidi caratteristici di un esercito di caserma.
Altre decisioni del Diaz come Ministro della Guerra meritano di essere ricordate.
Innanzi tutto l’avallo concesso alla costituzione della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, che raccolse tradizioni e uomini dello squadrismo per la difesa del governo fascista con una dipendenza personale da Mussolini, rompendo il monopolio della forza armata e il ruolo di tutore dell’ordine che l’esercito aveva tradizionalmente avuto e difeso.
Secondo ogni evidenza, il Diaz accettò la Milizia come un prezzo da pagare al fascismo e manovrò per diminuirne il ruolo militare, rifiutando l’equiparazione dei suoi ufficiali a quelli dell’esercito e l’impiego bellico dei suoi reparti; negli anni seguenti la Milizia avrebbe perso peso politico e militare, pur continuando a esercitare un’influenza negativa sulla preparazione bellica nazionale.
Concesse inoltre a Mussolini una drastica riduzione del bilancio dell’esercito per favorire il conseguimento del pareggio anche a scapito dell’efficienza dell’ordinamento da lui varato; e non si oppose alla costituzione di un’aeronautica indipendente, che pure nasceva non da una meditata scelta di politica militare, bensì dalla ricerca di successi propagandistici del regime fascista.
All’inizio del 1924 il Diaz maturò la decisione di lasciare il governo, perché pensava di avere ormai portato a termine il riordinamento dell’esercito e perché il lavoro d’ufficio (cui si era dedicato con la consueta efficacia) diventava pesante per la sua salute.
Rinviò le dimissioni a dopo le elezioni di aprile per non indebolire il governo, poi il 30 aprile 1924 lasciò il ministero della Guerra al generale Antonio Di Giorgio (1867-1932), scelto con il suo consenso. Fu subito nominato vicepresidente del comitato deliberativo della Commissione suprema di difesa. con compiti vasti quanto indeterminati (e in definitiva non mai esercitati) di impulso e coordinamento della preparazione bellica nazionale e tenne questa carica fino alla morte.
Negli anni seguenti il Diaz continuò a dividere il suo tempo tra l’ufficio romano, la villa di Napoli e le vacanze a Capri.
Nella primavera 1925 si schierò con gli altri “generali della vittoria” nella battaglia senatoriale contro il riordinamento dell’esercito proposto dal suo successore Di Giorgio, risoltasi con il ritiro del provvedimento e le dimissioni del ministro. Poi diradò i suoi impegni per il lento aggravarsi della bronchite cronica contratta sul Carso.
Il generale Armando Diaz fu creato Senatore del Regno il 24 febbraio 1918 ai sensi della categoria 14 dell’art. 33 dello Statuto Albertino  e la sua creazione fu convalidata il giorno 1 marzo.
Ad un anno esatto dalla “Vittoria” fu insignito anche dell’Ordine Supremo della Santissima Annunziata, quale creazione n. 747 dalla fondazione dell’ordine medesimo. Quindi con R. D. “motu proprio” del 24 dicembre 1921 e RR. LL. PP. del giorno 11 febbraio 1923 (riconosciuto poi con D. M. 21 novembre 1940), Armando Diaz ebbe anche il titolo di Duca della Vittoria, nonchè il 4 novembre 1924 quello di Maresciallo d’Italia.
Morì a Roma il 29 febbraio 1928.
I tre protagonisti della Vittoria Italiana nella I Guerra Mondiale, il Nostro, il Grande Ammiraglio Paolo Thaon di Revel, Duca del Mare, ed il Presidente del Consiglio dei Ministri, l’insigne giurista Vittorio Emanuele Orlando, sono tutti sepolti nella chiesa romana di Santa Maria degli Angeli e dei Martiri alla piazza dell’Esedra.
Concludo con il  ricordo della friulana Maria Bergamas (1867-1952), il cui figlio volontario irredento Antonio Bergamas che aveva disertato dall'esercito austriaco per unirsi a quello italiano ed era caduto in combattimento senza che il suo corpo fosse ritrovato.
A lei toccò il compito di scegliere il Milite Ignoto.
La solenne cerimonia ebbe luogo il 28 ottobre 1921, nella Basilica Romana di Aquileia, e Maria scelse il corpo di un soldato tra le undici  salme di caduti non identificabili, raccolti in diverse aree del fronte. La donna venne posta di fronte a undici bare allineate, e dopo essere passata davanti alle prime, non riuscì a proseguire nella ricognizione, e, gridando il nome del figlio, si accasciò al suolo davanti a una bara, che venne scelta.
La bara prescelta fu collocata sull'affusto di un cannone e, accompagnata da reduci decorati con la Medaglia d'oro al Valore Militare e più volte feriti, fu deposta in un carro ferroviario appositamente disegnato.
Le Sacre spoglie prescelte vennero portate a Roma con uno speciale convoglio ferroviario sul quale era visibile il feretro che nelle principali stazioni ferroviarie ricevette gli onori dei picchetti militari in armi e delle popolazioni commosse.
Il 4 novembre 1921, terzo anniversario della Vittoria, alla presenza del Re Vittorio Emanuele III, la bara, portata a spalla da dodici decorati di Medaglia d’Oro al Valor Militare ed accompagnata dalle bandiere di guerra dei 355 Reggimenti che avevano partecipato al conflitto, venne deposta  nella cripta ai piedi della statua della Dea Roma dell’Altare della Patria in Roma.
Al Milite Ignoto fu conferita la Medaglia d’Oro al Valor Militare con la seguente motivazione:

Degno figlio di una stirpe prode e di una millenaria civiltà, resistette inflessibile nelle trincee più contese, prodigò il suo coraggio nelle più cruente battaglie e cadde combattendo senz'altro premio sperare che la vittoria e la grandezza della patria”.

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