Al riguardo cito
volentieri due giudizi sul nostro, uno del generale Cavallero: “un’ opera quotidiana ed accorta sotto la
guida di una mente sempre in equilibrio e sempre presente a sé stessa”.
L’altro è del Sonnino: “Diaz è un uomo
che ragiona e con cui si può ragionare”.
Non aveva
l’inflessibile volontà offensiva e la personalità dominante di Luigi Cadorna,
ma la sua prudente e serena fermezza, la sua comprensione della terribilità
della guerra, quindi il suo interessamento autentico per le condizioni di vita
delle truppe e la valorizzazione anche pubblica dei suoi subordinati, infine la
sua capacità di collaborare con le forze politiche e di costruirsi un’immagine
popolare senza cedimenti demagogici, ne fecero l’uomo giusto al posto giusto
nella fase finale di una guerra pressoché logorante.
Più della vittoriosa
resistenza del novembre-dicembre 1917, in cui il Comando supremo ebbe limitate
possibilità di incidere sul combattimenti, va riconosciuto al Nostro il merito
di aver condotto l’esercito nelle migliori condizioni possibili alla battaglia
decisiva del giugno 1918, che diresse con una combinazione di energia e
prudenza (soprattutto nell’impiego delle riserve), riportando una delle
maggiori vittorie difensive dell’intero conflitto.
Fu indubbiamente
lento a cogliere la precipitosa evoluzione della situazione internazionale nel
settembre 1918, quando un’offensiva italiana diventava così necessaria da un
punto di vista generale (l’Austria-Ungheria aveva avviato negoziazioni segrete
per la sua resa) da giustificare rischi anche grossi in campo militare; ma poté
recuperare con la battaglia di Vittorio Veneto, lanciata quasi all’ultimo
momento utile contro un nemico sull'orlo del collasso, ma ancora temibile, e
risoltasi nel clamoroso successo di cui la guerra italiana aveva legittimo
bisogno.
Successo consacrato
nel famoso “Bollettino della Vittoria”,
steso come di consueto dal colonnello Domenico Siciliani (1879-1938), e dal
Diaz aggiustato, corretto, integrato e sottoscritto.
Il Generale Armando
Diaz rimase a capo dell’esercito per un anno ancora dopo l’armistizio. Non fu
un anno facile, per i grossi problemi concreti che si ponevano (la prima
ricostruzione dei territori liberati, le occupazioni sulle Alpi e sull'Adriatico, la smobilitazione di quattro milioni di uomini) e più ancora
perché la fine dello stato di guerra vedeva lo scatenamento di violente
polemiche sull'esercito e dentro l’esercito.
Nella primavera 1919
il Diaz seguì Vittorio Emanuele Orlando alla Conferenza di Parigi,
appoggiandone la politica espansionistica senza condividerla fino in fondo,
perché una forte presenza italiana sulla sponda orientale dell’Adriatico non
comportava difficoltà militari nell'immediato dopoguerra, quando gli Iugoslavi
non disponevano ancora di forze organizzate di qualche consistenza (e quindi
l’arresto della smobilitazione voluto dal governo in primavera mirava soltanto
a impressionare l’opinione pubblica con una dimostrazione di forza), ma a lungo
andare avrebbe rappresentato per l’esercito un peso insostenibile. Accolse
quindi con favore la costituzione in giugno del governo del Nitti con un
programma di normalizzazione, designò personalmente il nuovo ministro della
Guerra generale Alberico Albricci (1864-1936) e collaborò pienamente alla
smobilitazione dell’esercito condotta quasi a termine nell'estate.
Le violentissime
polemiche provocate tra luglio e settembre dalla pubblicazione dell’inchiesta
ministeriale su Caporetto non potevano piacergli, per il loro carattere di
critica radicale e di rifiuto della guerra italiana, ma non lo toccavano
personalmente, perché le accuse si indirizzavano unilateralmente contro Cadorna
e la sua gestione della guerra.
Il dibattito fu
chiuso in settembre con la riconciliazione di tutte le forze nazionali,
concordi nel chiudere il processo al passato per meglio fronteggiare il
tempestoso presente; e il collocamento a riposo di Cadorna, deciso dal governo
non senza il consenso del Diaz, assunse il significato di una condanna non giudiziaria,
ma politica e morale dell’ex “generalissimo”.
Il Diaz non poteva
approvare l’avventura fiumana di Gabriele d’Annunzio (1863-1938), che metteva
in crisi la tradizione di obbedienza e di apoliticità dell’esercito a lui
affidato, in difesa di un espansionismo adriatico in cui non credeva; appoggiò
quindi la linea di Nitti ed inviò a fronteggiare la spedizione il suo braccio
destro Badoglio, ma non si espose di persona, così come non partecipò, allora e
in seguito, alle polemiche sull'amnistia che nel settembre 1919, che cancellò
la gran parte dei processi di guerra, varata con il suo consenso e sotto il suo
controllo (ingiustamente nota come amnistia ai disertori). Andava maturando la
sua decisione di lasciare il comando dell’esercito, non perché Nitti volesse
liberarsi di una personalità autorevole o Badoglio manovrasse per scalzare il
suo capo (come fu detto senza elementi concreti di prova), ma perché la
posizione di Capo di Stato Maggiore dell’esercito in tempo di pace era troppo
inferiore a quella di comandante in capo in tempo di guerra e troppo esposta a
condizionamenti e polemiche interne e esterne per giovare al suo prestigio di
vincitore del Piave e di Vittorio Veneto.
Influivano anche le
sue condizioni di salute (sul Carso aveva contratto una bronchite cronica che
lo avrebbe progressivamente condotto alla morte per enfisema polmonare a 66
anni) e il suo umano desiderio di fruire degli onori e degli agi della sua
posizione; ma erano anche emozioni e esigenze collettive e spontanee
dell’opinione pubblica a spingerlo ad assumere il ruolo di simbolo della
vittoria al di sopra delle parti.
In occasione
dell’entrata in vigore dell’ordinamento provvisorio dell’esercito varato dal
ministro Albricci, lasciò la carica di Capo di Stato Maggiore dell’esercito a
Badoglio e assunse quella di nuova creazione di ispettore generale
dell’esercito di carattere essenzialmente onorifico.
Nell’aprile 1920 un
nuovo ordinamento provvisorio dell’esercito, improntato a economie di gestione
e riduzione di organici, soppresse la carica di ispettore generale.
Il generale Armando
Diaz si ritrovò di fatto pensionato, anche se, per salvaguardarne la posizione,
il governo gli riconobbe la corresponsione a vita del trattamento economico di
cui godeva, nonché l’indennità di carica spettante al Capo di Stato Maggiore
dell’esercito, a titolo di riconoscenza nazionale.
Non rimase a lungo
senza una carica di prestigio: avallò infatti la riforma dell’alto comando
dell’esercito, promossa dai più illustri generali in odio alla posizione di
preminenza di Badoglio, che nel febbraio 1921 trasferì i poteri del Capo di
Stato Maggiore a un organo collegiale di nuova creazione, il Consiglio
dell’esercito, di cui il Diaz assunse la vicepresidenza e la direzione
effettiva (presidente era il ministro della Guerra, unico civile in mezzo ai
generali della “vittoria”).
Il Consiglio
dell’esercito non diede buona prova: riuscì infatti a bloccare tutti i
tentativi di ristrutturare l’esercito sulla base delle istanze del movimento ex
combattentistico, ma non ad assumerne l’effettiva responsabilità, determinando
un sostanziale immobilismo, però il prestigio del Diaz non ne fu scalfito e,
nell’autunno 1921, compì una trionfale missione di propaganda negli Stati
Uniti.
Il suo tenore di vita
rimase assai semplice: un appartamento in affitto a Roma ed un piccolo ufficio
al ministero della Guerra, la bella villa a Napoli donatagli dalla cittadinanza
nel 1919 e una casa in affitto a Capri per le vacanze estive.
Non prese parte
attiva alle lotte politiche del 1920-22, né appoggiò pubblicamente il crescente
successo del movimento fascista.
All’inizio
dell’ottobre 1922, mentre la crisi politica precipitava, il presidente del
Consiglio, Luigi Facta (1861-1930), lo convocò con Badoglio per essere
informato dell’orientamento dell’esercito e rassicurato sulla sua obbedienza in
caso di gravi disordini. “Diaz e Badoglio
“- telegrafò Facta al Re il 7
ottobre – “assicurano che esercito, malgrado innegabili simpatie verso fascisti,
farà suo dovere qualora dovesse difendere Roma”; il che significava che il
Diaz, pur rivendicando l’unità e l’obbedienza dell’esercito, aveva consigliato
una soluzione politica della crisi e non la repressione dello squadrismo
fascista (che sembra invece Badoglio si dicesse pronto a dirigere).
Secondo testimonianze
lacunose, ma nella sostanza attendibili, nella notte tra il 27 e il 28 ottobre
il Diaz ribadì questo atteggiamento direttamente al Re (non sappiamo se per
telefono da Firenze dove si trovava o con una corsa notturna a Roma in
automobile), sconsigliando la proclamazione dello stato d’assedio con la nota
frase: “l’esercito farà il suo dovere,
però sarebbe bene non metterlo alla prova”. Subito dopo accettò di entrare
nel primo governo Mussolini come ministro della Guerra [con l’ammiraglio Paolo Thaon di Revel (1859-1948) come
Ministro della Marina]: un avallo fondamentale per il governo fascista dinanzi
all’opinione pubblica nazionale e internazionale, nonché una garanzia per la
monarchia e per l’esercito, come fu sottolineato nelle prime uscite pubbliche
del governo, in cui Mussolini cedette al Diaz il primo posto e i maggiori
applausi.
La principale
preoccupazione del Diaz, come ministro della Guerra, nei primi diciotto mesi
del Governo Mussolini, fu il riordinamento dell’esercito, in modo da porre fine
alla confusa situazione creata dal sovrapporsi della smobilitazione, dei
tentativi di riforma e modernizzazione e della resistenza passiva delle alte
gerarchie.
Il nuovo ordinamento
dell’esercito, che il Diaz varò nel gennaio 1923 con una celerità permessa dai
pieni poteri ottenuti dal governo Mussolini e poi tradusse in atto nel giro di
un anno, rappresentava un sostanziale ritorno all’anteguerra.
L’ordinamento del
Diaz ebbe indubbiamente il merito di porre fine ad una situazione di incertezze
e di dare soddisfazione alle aspirazioni degli ufficiali in servizio; non seppe
però tenere sufficiente conto delle esperienze del conflitto e delle
aspirazioni degli ambienti di ex combattenti, che auspicavano un maggiore
coinvolgimento del paese nella preparazione bellica, e invece conservò organici
troppo ampi per le disponibilità finanziarie, tanto che al giorno 1 aprile 1924
l’esercito contava solo 125.000 uomini, con compagnie di 69 uomini assorbiti
per tre quarti da servizi e presidi caratteristici di un esercito di caserma.
Altre decisioni del
Diaz come Ministro della Guerra meritano di essere ricordate.
Innanzi tutto
l’avallo concesso alla costituzione della Milizia Volontaria per la Sicurezza
Nazionale, che raccolse tradizioni e uomini dello squadrismo per la difesa del
governo fascista con una dipendenza personale da Mussolini, rompendo il
monopolio della forza armata e il ruolo di tutore dell’ordine che l’esercito
aveva tradizionalmente avuto e difeso.
Secondo ogni
evidenza, il Diaz accettò la Milizia come un prezzo da pagare al fascismo e
manovrò per diminuirne il ruolo militare, rifiutando l’equiparazione dei suoi
ufficiali a quelli dell’esercito e l’impiego bellico dei suoi reparti; negli
anni seguenti la Milizia avrebbe perso peso politico e militare, pur
continuando a esercitare un’influenza negativa sulla preparazione bellica
nazionale.
Concesse inoltre a
Mussolini una drastica riduzione del bilancio dell’esercito per favorire il
conseguimento del pareggio anche a scapito dell’efficienza dell’ordinamento da
lui varato; e non si oppose alla costituzione di un’aeronautica indipendente,
che pure nasceva non da una meditata scelta di politica militare, bensì dalla
ricerca di successi propagandistici del regime fascista.
All’inizio del 1924
il Diaz maturò la decisione di lasciare il governo, perché pensava di avere
ormai portato a termine il riordinamento dell’esercito e perché il lavoro
d’ufficio (cui si era dedicato con la consueta efficacia) diventava pesante per
la sua salute.
Rinviò le dimissioni
a dopo le elezioni di aprile per non indebolire il governo, poi il 30 aprile
1924 lasciò il ministero della Guerra al generale Antonio Di Giorgio
(1867-1932), scelto con il suo consenso. Fu subito nominato vicepresidente del
comitato deliberativo della Commissione suprema di difesa. con compiti vasti
quanto indeterminati (e in definitiva non mai esercitati) di impulso e
coordinamento della preparazione bellica nazionale e tenne questa carica fino
alla morte.
Negli anni seguenti
il Diaz continuò a dividere il suo tempo tra l’ufficio romano, la villa di
Napoli e le vacanze a Capri.
Nella primavera 1925
si schierò con gli altri “generali della
vittoria” nella battaglia senatoriale contro il riordinamento dell’esercito
proposto dal suo successore Di Giorgio, risoltasi con il ritiro del
provvedimento e le dimissioni del ministro. Poi diradò i suoi impegni per il
lento aggravarsi della bronchite cronica contratta sul Carso.
Il generale Armando
Diaz fu creato Senatore del Regno il 24 febbraio 1918 ai sensi della categoria
14 dell’art. 33 dello Statuto Albertino
e la sua creazione fu convalidata il giorno 1 marzo.
Ad un anno esatto
dalla “Vittoria” fu insignito anche
dell’Ordine Supremo della Santissima Annunziata, quale creazione n. 747 dalla
fondazione dell’ordine medesimo. Quindi con R. D. “motu proprio” del 24 dicembre 1921 e RR. LL. PP. del giorno 11
febbraio 1923 (riconosciuto poi con D. M. 21 novembre 1940), Armando Diaz ebbe
anche il titolo di Duca della Vittoria, nonchè il 4 novembre 1924 quello di
Maresciallo d’Italia.
Morì a Roma il 29
febbraio 1928.
I tre protagonisti della Vittoria Italiana
nella I Guerra Mondiale, il Nostro, il Grande Ammiraglio Paolo Thaon di Revel,
Duca del Mare, ed il Presidente del Consiglio dei Ministri, l’insigne giurista
Vittorio Emanuele Orlando, sono tutti sepolti nella chiesa romana di Santa
Maria degli Angeli e dei Martiri alla piazza dell’Esedra.
Concludo con il ricordo della friulana Maria Bergamas
(1867-1952), il cui figlio volontario irredento Antonio Bergamas che aveva
disertato dall'esercito austriaco per unirsi a quello italiano ed era caduto in
combattimento senza che il suo corpo fosse ritrovato.
A lei toccò il compito di scegliere il Milite
Ignoto.
La solenne cerimonia ebbe luogo il 28 ottobre
1921, nella Basilica Romana di Aquileia, e Maria scelse il corpo di un soldato
tra le undici salme di caduti non
identificabili, raccolti in diverse aree del fronte. La donna venne posta di
fronte a undici bare allineate, e dopo essere passata davanti alle prime, non
riuscì a proseguire nella ricognizione, e, gridando il nome del figlio, si
accasciò al suolo davanti a una bara, che venne scelta.
La bara prescelta fu collocata sull'affusto
di un cannone e, accompagnata da reduci decorati con la Medaglia d'oro al
Valore Militare e più volte feriti, fu deposta in un carro ferroviario
appositamente disegnato.
Le Sacre spoglie
prescelte vennero portate a Roma con uno speciale convoglio ferroviario sul
quale era visibile il feretro che nelle principali stazioni ferroviarie ricevette
gli onori dei picchetti militari in armi e delle popolazioni commosse.
Il 4 novembre 1921,
terzo anniversario della Vittoria, alla presenza del Re Vittorio Emanuele III,
la bara, portata a spalla da dodici decorati di Medaglia d’Oro al Valor
Militare ed accompagnata dalle bandiere di guerra dei 355 Reggimenti che
avevano partecipato al conflitto, venne deposta
nella cripta ai piedi della statua della Dea Roma dell’Altare della
Patria in Roma.
Al Milite Ignoto fu
conferita la Medaglia d’Oro al Valor Militare con la seguente motivazione:
“Degno figlio
di una stirpe prode e di una millenaria civiltà, resistette inflessibile nelle
trincee più contese, prodigò il suo coraggio nelle più cruente battaglie e
cadde combattendo senz'altro premio sperare che la vittoria e la grandezza
della patria”.
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