Casi emblematici
di Aldo A. Mola
“Eja, eja, eja, Alalà!” fu a lungo il motto
anche del torinese Giacomo Treves, personalità emblematica dell'aggrovigliata
storia d'Italia dall'età emanuelino-giolittiana alla seconda guerra mondiale.
Come la generalità degli ebrei dell'Ottocento, egli vide nell'unificazione
italiana l'emancipazione definitiva del suo popolo da vessazioni ancora
imperversanti in tutta l'Europa continentale, dalla penisola iberica all'impero
di Russia, a inizio Novecento teatro di pogrom (del resto anche Stalin
perseguitò gli ebrei, molti cui esponenti fece assassinare, da Kamenev a
Trotzky).
Nell'antico regno di Sardegna, gli israeliti
ebbero la piena parità civile e politica con i Regi Decreti di Carlo Alberto
(29 marzo 1848) e del Luogotenente Eugenio (19 giugno). Il secondo precisò che
“la differenza di culto non forma eccezione al godimento dei diritti civili e
politici e all'ammissibilità alle cariche civili e militari”. Era il Piemonte
di David Levi, Isacco Artom e poi di Salvatore Ottolenghi.
Gabriele D’Annunzio con i capi del Movimento segreto Fiumano, Mario D’Osmo e Giacomo Treves (a destra), Fiume, s.d. (Archivio Storico del Grande Oriente d’Italia) |
Nato a Torino nel 1882, diplomato ragioniere
al “Sommeiller” (lo stesso di Vittorio Valletta, Giuseppe Saragat e Giuseppe
Pella, come orgogliosamente ricordava il suo preside Gaetano Fiorentino, poeta
satirico e 33° grado del Rito scozzese), nel 1914-1915 Treves fu tra i fautori dell'intervento
dell'Italia nella grande guerra, per coronare il Risorgimento e sradicare
l'oligarchia reazionaria asburgica. Per galleggiare al potere, questa
ingigantiva il mito del complotto socialista-massonico-giudaico abbozzato da
Pio IX (per il quale la massoneria era “sinagoga di Satana”) e poi divulgato
dal francese Léo Taxil, prezzolato dai “servizi” del suo paese, la Francia che
degradò Alfred Dreyfus con l'accusa di tradimento e lo deportò nell'Isola del
Diavolo.
Italiano di profondo sentire patriottico,
iniziato massone nella loggia “Ausonia” di Torino (matricola 42.909), il 17
dicembre 1918 Treves dette vita alla loggia “Guglielmo Oberdan” a Trieste, con
recapito postale nel proprio ufficio. Il gran maestro del Grande Oriente
d'Italia, Ernesto Nathan, aveva cercato di frenarlo, ma Treves aveva una
visione strategico-poetica del tempo venturo: liberazione d'Europa non solo da
vincoli diplomatici, militari, politici ma da quanto rappresentava il passato
remoto, i ceppi dei bigotti. Il 20 dicembre 1918 egli invitò in loggia un
oratore d'eccezione per commemorare Guglielmo Oberdan: Benito Mussolini,
cresciuto nel convitto di Forlimpopoli diretto da Valfredo Carducci, fratello
minore di Giosuè, anticlericale tutto d'un pezzo. Treves gli propose di affermare
i “latini diritti dell'uomo, sulla rovina del diritto divino imperiale”. Nella
circolare ai “fratelli” ordinò: “Nessuno deve mancare”.
Fu Giacomo Treves a ordire la “marcia di
Ronchi” di Gabriele d'Annunzio l'11-12 settembre 1919 guidata da sette Granatieri
di Sardegna, tutti “iniziati”. Non se ne trova cenno nel recente libro “Fiume.
L'avventura che cambiò l'Italia” di Pier Luigi Vercesi (ed. Neri Pozza).
L'ebreo torinese fece parte del Comitato segreto con Piero Pieri e Mario
d'Osmo, poi forte del lasciapassare del Comandante che li autorizzava a
“entrare e a uscire per i nostri posti di sbarramento in ogni ora e con
qualunque mezzo”. Il 19 settembre, una settimana dopo la “marcia”, d'Annunzio
gli espresse imperitura riconoscenza. Il difficile, però, doveva venire.
Nel maggio 1915 l'Italia era entrata in
guerra contro l'impero austro-ungarico non solo per raggiungere i confini
naturali ma per dominare l'Adriatico e liberarsi per sempre dall'assedio
marittimo (sia “tedesco” sia franco-inglese, e prima che vi arrivassero gli
Stati Uniti d'America) al quale era condannata dall'indifendibilità della sua
costa orientale. Roma doveva necessariamente dominare Fiume, Zara, le isole
della costa orientale e almeno Valona e Argirocastro, a continuazione e sviluppo
della politica estera di Francesco Crispi e di Giovanni Giolitti che nel 1911,
senza alcun preavviso ad alleati e a rivali, non aveva esitato a dichiarare
guerra all'impero turco per la sovranità italiana sulla Libia e a occupare Rodi
e il Dodecaneso, malgrado l'ostilità di Londra e Parigi.
L'accordo di Londra del 26 aprile 1915 non
prevedeva la cessione di Fiume all'Italia. D'Annunzio andò a impadronirsene
dinnanzi a un'Europa sbigottita e impotente. Presto, tuttavia, vi si sentì
stretto. L'inverno incipiente recò difficoltà estreme. In suo soccorso andò
anzitutto il presidente della Croce Rossa Italiana, Giovanni Ciraolo, massone.
Il Grande Oriente d'Italia, con molte venature mazziniane ma leale verso
Vittorio Emanuele III, appoggiò l'“impresa”. Altrettanto fece la Gran Loggia
d'Italia, che contava nel suo Supremo Consiglio Paolo Thaon di Revel, Duca del
mare e fidatissimo del Re. Quando però d'Annunzio pensò di organizzare una
“marcia su Roma”, il Gran maestro Torrigiani lo sconfessò e intimò ruvidamente
a Treves di richiamarlo all'ordine. Anziché laboratorio politico Fiume stava
divenendo teatro di visionari. Vi accorse anche Cicerin, su mandato di Lenin.
L'Italia aveva bisogno urgente di pacificazione interna per far valere le sue
ragioni verso le Grandi Potenze mentre si stavano tirando le somme dei Trattati
di pace: operazione lunga, intricata e foriera di nuovi conflitti, come poi si
vide con il “revisionismo” e dieci anni di convulse rettifiche dei confini sino
al fatale biennio1938-1939. Il progetto dannunziano di uno sbarco sulla costa
adriatica con meta Roma avrebbe suscitato le masse socialiste e cattoliche e
imposto al governo la repressione militare. L'Esercito che aveva sbaragliato
l'Austria non si sarebbe fatto mettere in scacco da legionari armati di pugnali
e spesso gonfi di stimolanti.
D'Annunzio, che a Treves scriveva su carta
intestata “Ardisco e non ordisco”, capì e ripiegò le vele. Dopo lunghe
vicissitudini si affidò al massone anarco-sindacalista Alceste De Ambris per la
stesura della Carta del Carnaro, la cui copia Treves ebbe dalle mani del
Vate-Reggente. Lì c'era tutto: libertà, divorzio, emancipazione femminile,
immaginazione al potere (la vera, non quella dei “sessantottini” frustrati),
una visione dell'uomo realizzabile in una villa romana nei secoli della
decadenza dell'Impero, quando ancora era possibile tenere a distanza i barbari,
le masse, quelle stesse “folle” di cui il Comandante sentiva bisogno per
pronunciare le sue celebri orazioni, che erano anzitutto pubbliche confessioni
di sé a sé stesso, monologhi da sacra rappresentazione.
Il 31 ottobre 1919 il gran Maestro Torrigiani
esortò Treves a mettere d'Annunzio in guardia dalle “arti tenaci di squilibrati
e monomaniaci”, come il “fratello” Edoardo Frosini, “commesso di commercio in
cere da scarpe, autodidatta penetrato nei grandi studi spiritualistici per una
forma di demenza razionante”. Il 29 aggiunse: “Sappiamo (e sa il Governo) che
si sono ordite le fila della rivolta nell'Esercito, o, per essere esatti,
specialmente nell'Esercito (…) La Democrazia n'è preoccupata e nelle sue forze
più serie risolutamente avversa. Avversa è e deve essere la Massoneria”. Treves
ne fu deluso.
Un anno dopo la Marcia di Ronchi venne
stampato a Torino “Alalà” “per la notte di Ronchi e per l'alba del Carnaro” con
l'annuncio: “L'Indipendenza di Fiume”, firmato da De Ambris. L'Album comprese
scritti di una lunga serie di nobildonne e l'elenco dei “sottoscrittori per la
causa”, “pro fiume e Dalmazia”. Tra i tanti vi comparvero Emilia Momigliano Tedeschi,
Vittoria Viviani, il generale Angelo Chiarle, Luciano e Ida Coen, Leone e Alina
Sinigaglia, Enrico Togliatti e la loggia “Propaganda Massonica” di Torino, che
versò 70 lire contro le 1000 della marchesa Ester Medici del Vascello.
Altrettanto avvenne a Genova e in molte altre città, grandi e piccole. Da
Arturo Toscanini a Filippo Tommaso Marinetti tanti campioni dell'arte e della
vita culturale vibravano per Fiume Italiana. L'impresa ebbe il sostegno delle
contesse Sofia di Bricherasio e Sofia Della Chiesa di Cervignasco, poi stratega
delle organizzazioni fasciste femminili radicate nella tradizione
risorgimentale, libera da
condizionamenti bigotti, come doveva essere ed è l'educazione fisica femminile,
propugnata dai “fratelli” Michele Coppino e Francesco De Sanctis.
Il 29 novembre 1922 Torrigiani chiese a
Treves carte per illustrare “quanto l'Ordine fece per Fiume (...) debbo
difendermi dai nazionalisti. Raccontami e documentami più che poi”. Treves si
fece mettere il bavaglio da d'Annunzio e non gli mandò nulla. L'anno dopo
organizzò la crociera della “Nave Italia” che (sull'esempio di quella due anni
prima organizzata da Giulio Aristide Sartorio e Leonardo Bistolfi) recò in
America Latina il meglio della produzione italiana: vetrina galleggiante del genio
italico. Come tanti correligionari, Treves fu e rimase un sincero Patriota.
Commendatore della Corona d'Italia, vide in Mussolini il bastione contro
l'avanzata del clericalismo dopo i Trattati del Laterano fra Stato e chiesa
cattolica. Non per caso nel 1938 circa diecimila ebrei italiani su 40.000 erano
iscritti ai fasci (circa il 25%).
Treves passò all'Oriente Eterno l'8 novembre
1947. Alla guida della Massoneria Unificata Italiana, riconosciuta dagli USA,
in quel momento era Domenico Maiocco, nativo di Cuorgnè. Secondo Gabriellino
Cruyllas d'Annunzio era stato designato al vertice dell'Ordine da Placido
Martini, il gran maestro martire, catturato dai nazisti, torturato a via Tasso
e assassinato alle Ardeatine il 24 marzo 1944. Gabriellino, figlio del Vate,
era stato iniziato alla Gran Loggia nella stessa officina di Nino Valeri,
futuro storico e all'epoca esperto di diritti cinematografici, dannunziano a
sua volta, esponente di un mondo inquieto, di esperimenti artistici e
culturali, che procedette per segmenti, con strappi e inversioni a “u”.
Alla tragedia del 1938, segnata dalle leggi
razziali, l'Italia arrivò tredici anni dopo il forzato autoscioglimento delle
Comunità massoniche, che non trovarono solidarietà in voci amiche. Nello stesso
1938 il Rotary in Italia fu costretto a sciogliersi. Solo allora alcuni
capirono che la libertà non si perde un poco alla volta, ma tutto d'un tratto,
spesso senza neppure percepirlo. L'asservimento viene dopo e diviene abituale.
Nel 1919-1938 a scommettere sul Vate e sul duce furono tanti che se ne
pentirono quando risultò tardi. È la lezione che ci insegna la storia vera
d'Italia: da studiare, non da risolvere in linciaggi ideologici che non
concedono i “termini a difesa” e assomigliano al macabro processo inscenato da
papa Stefano VI al cadavere del predecessore, papa Formoso, dissepolto
dall'avello a San Giovanni in Laterano, condannato e gettato a Tevere. Era il
remoto remoto 896 dopo Cristo...
Aldo A. Mola
Editoriale del Giornale del
Piemonte e della Liguria di oggi,
domenica 7 gennaio 2018
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