NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

domenica 7 gennaio 2018

Giacomo Treves ebreo massone dannunziano patriota

Casi emblematici

di Aldo A. Mola

“Eja, eja, eja, Alalà!” fu a lungo il motto anche del torinese Giacomo Treves, personalità emblematica dell'aggrovigliata storia d'Italia dall'età emanuelino-giolittiana alla seconda guerra mondiale. Come la generalità degli ebrei dell'Ottocento, egli vide nell'unificazione italiana l'emancipazione definitiva del suo popolo da vessazioni ancora imperversanti in tutta l'Europa continentale, dalla penisola iberica all'impero di Russia, a inizio Novecento teatro di pogrom (del resto anche Stalin perseguitò gli ebrei, molti cui esponenti fece assassinare, da Kamenev a Trotzky).
Nell'antico regno di Sardegna, gli israeliti ebbero la piena parità civile e politica con i Regi Decreti di Carlo Alberto (29 marzo 1848) e del Luogotenente Eugenio (19 giugno). Il secondo precisò che “la differenza di culto non forma eccezione al godimento dei diritti civili e politici e all'ammissibilità alle cariche civili e militari”. Era il Piemonte di David Levi, Isacco Artom e poi di Salvatore Ottolenghi.
Gabriele D’Annunzio con i capi del Movimento segreto Fiumano,
Mario D’Osmo e Giacomo Treves (a destra), Fiume, s.d. (Archivio Storico del Grande Oriente d’Italia)
Nato a Torino nel 1882, diplomato ragioniere al “Sommeiller” (lo stesso di Vittorio Valletta, Giuseppe Saragat e Giuseppe Pella, come orgogliosamente ricordava il suo preside Gaetano Fiorentino, poeta satirico e 33° grado del Rito scozzese), nel 1914-1915 Treves fu tra i fautori dell'intervento dell'Italia nella grande guerra, per coronare il Risorgimento e sradicare l'oligarchia reazionaria asburgica. Per galleggiare al potere, questa ingigantiva il mito del complotto socialista-massonico-giudaico abbozzato da Pio IX (per il quale la massoneria era “sinagoga di Satana”) e poi divulgato dal francese Léo Taxil, prezzolato dai “servizi” del suo paese, la Francia che degradò Alfred Dreyfus con l'accusa di tradimento e lo deportò nell'Isola del Diavolo.
Italiano di profondo sentire patriottico, iniziato massone nella loggia “Ausonia” di Torino (matricola 42.909), il 17 dicembre 1918 Treves dette vita alla loggia “Guglielmo Oberdan” a Trieste, con recapito postale nel proprio ufficio. Il gran maestro del Grande Oriente d'Italia, Ernesto Nathan, aveva cercato di frenarlo, ma Treves aveva una visione strategico-poetica del tempo venturo: liberazione d'Europa non solo da vincoli diplomatici, militari, politici ma da quanto rappresentava il passato remoto, i ceppi dei bigotti. Il 20 dicembre 1918 egli invitò in loggia un oratore d'eccezione per commemorare Guglielmo Oberdan: Benito Mussolini, cresciuto nel convitto di Forlimpopoli diretto da Valfredo Carducci, fratello minore di Giosuè, anticlericale tutto d'un pezzo. Treves gli propose di affermare i “latini diritti dell'uomo, sulla rovina del diritto divino imperiale”. Nella circolare ai “fratelli” ordinò: “Nessuno deve mancare”.
Fu Giacomo Treves a ordire la “marcia di Ronchi” di Gabriele d'Annunzio l'11-12 settembre 1919 guidata da sette Granatieri di Sardegna, tutti “iniziati”. Non se ne trova cenno nel recente libro “Fiume. L'avventura che cambiò l'Italia” di Pier Luigi Vercesi (ed. Neri Pozza). L'ebreo torinese fece parte del Comitato segreto con Piero Pieri e Mario d'Osmo, poi forte del lasciapassare del Comandante che li autorizzava a “entrare e a uscire per i nostri posti di sbarramento in ogni ora e con qualunque mezzo”. Il 19 settembre, una settimana dopo la “marcia”, d'Annunzio gli espresse imperitura riconoscenza. Il difficile, però, doveva venire.
Nel maggio 1915 l'Italia era entrata in guerra contro l'impero austro-ungarico non solo per raggiungere i confini naturali ma per dominare l'Adriatico e liberarsi per sempre dall'assedio marittimo (sia “tedesco” sia franco-inglese, e prima che vi arrivassero gli Stati Uniti d'America) al quale era condannata dall'indifendibilità della sua costa orientale. Roma doveva necessariamente dominare Fiume, Zara, le isole della costa orientale e almeno Valona e Argirocastro, a continuazione e sviluppo della politica estera di Francesco Crispi e di Giovanni Giolitti che nel 1911, senza alcun preavviso ad alleati e a rivali, non aveva esitato a dichiarare guerra all'impero turco per la sovranità italiana sulla Libia e a occupare Rodi e il Dodecaneso, malgrado l'ostilità di Londra e Parigi.
L'accordo di Londra del 26 aprile 1915 non prevedeva la cessione di Fiume all'Italia. D'Annunzio andò a impadronirsene dinnanzi a un'Europa sbigottita e impotente. Presto, tuttavia, vi si sentì stretto. L'inverno incipiente recò difficoltà estreme. In suo soccorso andò anzitutto il presidente della Croce Rossa Italiana, Giovanni Ciraolo, massone. Il Grande Oriente d'Italia, con molte venature mazziniane ma leale verso Vittorio Emanuele III, appoggiò l'“impresa”. Altrettanto fece la Gran Loggia d'Italia, che contava nel suo Supremo Consiglio Paolo Thaon di Revel, Duca del mare e fidatissimo del Re. Quando però d'Annunzio pensò di organizzare una “marcia su Roma”, il Gran maestro Torrigiani lo sconfessò e intimò ruvidamente a Treves di richiamarlo all'ordine. Anziché laboratorio politico Fiume stava divenendo teatro di visionari. Vi accorse anche Cicerin, su mandato di Lenin. L'Italia aveva bisogno urgente di pacificazione interna per far valere le sue ragioni verso le Grandi Potenze mentre si stavano tirando le somme dei Trattati di pace: operazione lunga, intricata e foriera di nuovi conflitti, come poi si vide con il “revisionismo” e dieci anni di convulse rettifiche dei confini sino al fatale biennio1938-1939. Il progetto dannunziano di uno sbarco sulla costa adriatica con meta Roma avrebbe suscitato le masse socialiste e cattoliche e imposto al governo la repressione militare. L'Esercito che aveva sbaragliato l'Austria non si sarebbe fatto mettere in scacco da legionari armati di pugnali e spesso gonfi di stimolanti.
D'Annunzio, che a Treves scriveva su carta intestata “Ardisco e non ordisco”, capì e ripiegò le vele. Dopo lunghe vicissitudini si affidò al massone anarco-sindacalista Alceste De Ambris per la stesura della Carta del Carnaro, la cui copia Treves ebbe dalle mani del Vate-Reggente. Lì c'era tutto: libertà, divorzio, emancipazione femminile, immaginazione al potere (la vera, non quella dei “sessantottini” frustrati), una visione dell'uomo realizzabile in una villa romana nei secoli della decadenza dell'Impero, quando ancora era possibile tenere a distanza i barbari, le masse, quelle stesse “folle” di cui il Comandante sentiva bisogno per pronunciare le sue celebri orazioni, che erano anzitutto pubbliche confessioni di sé a sé stesso, monologhi da sacra rappresentazione.
Il 31 ottobre 1919 il gran Maestro Torrigiani esortò Treves a mettere d'Annunzio in guardia dalle “arti tenaci di squilibrati e monomaniaci”, come il “fratello” Edoardo Frosini, “commesso di commercio in cere da scarpe, autodidatta penetrato nei grandi studi spiritualistici per una forma di demenza razionante”. Il 29 aggiunse: “Sappiamo (e sa il Governo) che si sono ordite le fila della rivolta nell'Esercito, o, per essere esatti, specialmente nell'Esercito (…) La Democrazia n'è preoccupata e nelle sue forze più serie risolutamente avversa. Avversa è e deve essere la Massoneria”. Treves ne fu deluso.
Un anno dopo la Marcia di Ronchi venne stampato a Torino “Alalà” “per la notte di Ronchi e per l'alba del Carnaro” con l'annuncio: “L'Indipendenza di Fiume”, firmato da De Ambris. L'Album comprese scritti di una lunga serie di nobildonne e l'elenco dei “sottoscrittori per la causa”, “pro fiume e Dalmazia”. Tra i tanti vi comparvero Emilia Momigliano Tedeschi, Vittoria Viviani, il generale Angelo Chiarle, Luciano e Ida Coen, Leone e Alina Sinigaglia, Enrico Togliatti e la loggia “Propaganda Massonica” di Torino, che versò 70 lire contro le 1000 della marchesa Ester Medici del Vascello. Altrettanto avvenne a Genova e in molte altre città, grandi e piccole. Da Arturo Toscanini a Filippo Tommaso Marinetti tanti campioni dell'arte e della vita culturale vibravano per Fiume Italiana. L'impresa ebbe il sostegno delle contesse Sofia di Bricherasio e Sofia Della Chiesa di Cervignasco, poi stratega delle organizzazioni fasciste femminili radicate nella tradizione risorgimentale,  libera da condizionamenti bigotti, come doveva essere ed è l'educazione fisica femminile, propugnata dai “fratelli” Michele Coppino e Francesco De Sanctis.
Il 29 novembre 1922 Torrigiani chiese a Treves carte per illustrare “quanto l'Ordine fece per Fiume (...) debbo difendermi dai nazionalisti. Raccontami e documentami più che poi”. Treves si fece mettere il bavaglio da d'Annunzio e non gli mandò nulla. L'anno dopo organizzò la crociera della “Nave Italia” che (sull'esempio di quella due anni prima organizzata da Giulio Aristide Sartorio e Leonardo Bistolfi) recò in America Latina il meglio della produzione italiana: vetrina galleggiante del genio italico. Come tanti correligionari, Treves fu e rimase un sincero Patriota. Commendatore della Corona d'Italia, vide in Mussolini il bastione contro l'avanzata del clericalismo dopo i Trattati del Laterano fra Stato e chiesa cattolica. Non per caso nel 1938 circa diecimila ebrei italiani su 40.000 erano iscritti ai fasci (circa il 25%).
Treves passò all'Oriente Eterno l'8 novembre 1947. Alla guida della Massoneria Unificata Italiana, riconosciuta dagli USA, in quel momento era Domenico Maiocco, nativo di Cuorgnè. Secondo Gabriellino Cruyllas d'Annunzio era stato designato al vertice dell'Ordine da Placido Martini, il gran maestro martire, catturato dai nazisti, torturato a via Tasso e assassinato alle Ardeatine il 24 marzo 1944. Gabriellino, figlio del Vate, era stato iniziato alla Gran Loggia nella stessa officina di Nino Valeri, futuro storico e all'epoca esperto di diritti cinematografici, dannunziano a sua volta, esponente di un mondo inquieto, di esperimenti artistici e culturali, che procedette per segmenti, con strappi e inversioni a “u”.
Alla tragedia del 1938, segnata dalle leggi razziali, l'Italia arrivò tredici anni dopo il forzato autoscioglimento delle Comunità massoniche, che non trovarono solidarietà in voci amiche. Nello stesso 1938 il Rotary in Italia fu costretto a sciogliersi. Solo allora alcuni capirono che la libertà non si perde un poco alla volta, ma tutto d'un tratto, spesso senza neppure percepirlo. L'asservimento viene dopo e diviene abituale. Nel 1919-1938 a scommettere sul Vate e sul duce furono tanti che se ne pentirono quando risultò tardi. È la lezione che ci insegna la storia vera d'Italia: da studiare, non da risolvere in linciaggi ideologici che non concedono i “termini a difesa” e assomigliano al macabro processo inscenato da papa Stefano VI al cadavere del predecessore, papa Formoso, dissepolto dall'avello a San Giovanni in Laterano, condannato e gettato a Tevere. Era il remoto remoto 896 dopo Cristo...


Aldo A. Mola


Editoriale del Giornale del Piemonte e della Liguria  di oggi, domenica 7 gennaio 2018

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