Forte della sua lunga
esperienza di ufficiale di stato maggiore e di una visione più aperta delle
necessità del conflitto, Diaz riorganizzò il Comando supremo, valorizzando
il ruolo del sottocapo Badoglio e del generale addetto Scipione Scipioni
(1867-1940), riordinando il lavoro degli uffici ed attribuendo ad ognuno di
essi responsabilità definite e concrete; tutto ciò senza clamore né scosse,
conservando anzi quasi tutti i collaboratori di Cadorna e favorendo la nascita
di un clima di squadra nel rispetto dei diversi compiti. Il nuovo Comando
Supremo curò particolarmente lo sviluppo dei servizi informativi e potenziò il
ruolo degli ufficiali di collegamento, che dovevano dargli notizie dirette
sulla situazione dei vari fronti, senza però scavalcare i comandi d’armata, con
cui furono curati rapporti molto stretti, in modo da superare distacchi e
incomprensioni. Particolarmente felice fu la collaborazione con Badoglio
(dell’altro sottocapo, Giardino, il Diaz si era elegantemente liberato
promuovendolo a comandare l’armata del Grappa), che si occupò soprattutto delle
operazioni e del coordinamento tra gli uffici del Comando supremo, alleggerendo
il Diaz di buona parte del lavoro di routine e conquistandone la piena fiducia
(tanto che, come è noto, Armando Diaz ottenne per lui un trattamento di
assoluto privilegio dalla ministeriale commissione d’inchiesta sul ripiegamento
al Piave, che dovette rinunciare ad approfondire l’esame della sua condotta a
Caporetto).
Ciò non significa che
egli abdicasse alle sue responsabilità di comandante in capo, ma che, come
richiedeva la complessità della guerra, sapeva valorizzare l’opera dei suoi
collaboratori, delegando loro importanti compiti esecutivi, di preparazione e
di controllo, riservandosi però la decisione finale e l’intervento personale
nelle situazioni di emergenza.
Più che a Napoleone,
modello inconfessato di tutti i comandanti della grande guerra, il Nostro può
essere avvicinato a Dwight David Eisenhower (1890-1969), un altro comandante
capace di affrontare la complessità della guerra moderna appoggiandosi sul
lavoro del suo stato maggiore.
Sin dall’inizio del
suo comando si era proposto di curare di persona i rapporti con il Re, il
governo e il mondo politico; a ciò lo predisponeva la sua lunga esperienza
prebellica e la sua convinzione della necessità di una collaborazione di tutte
le energie disponibili. Con il Re, il Nostro ebbe contatti frequentissimi: si
recava da lui a pranzo due volte la settimana e gli faceva visita anche più
spesso quando c’erano novità.
Con Vittorio Emanuele
Orlando si incontrava tre o quattro volte al mese, al Comando Supremo o a Roma,
con lunghi colloqui che assicuravano unità d’azione nella difficile situazione.
Il Diaz aveva accolto
senza obiezioni la costituzione di un Comitato di guerra di sette ministri, in
cui i capi di stato maggiore dell’esercito e della marina avevano soltanto voto
consultivo; e riceveva, o andava a trovare nei suoi viaggi a Roma, ministri e
uomini politici influenti [in particolare Francesco Saverio Nitti (1868-1953),
Ministro del Tesoro, che veniva dal suo stesso ambiente napoletano e molto si
dava da fare per appoggiarlo], senza intromettersi nei contrasti interni alla
maggioranza governativa, ma per illustrare le esigenze dell’esercito e il suo
operato. Tutta questa disponibilità non implicava una eccessiva arrendevolezza
alle istanze politiche: egli non discuteva il primato del governo e la
necessità di un’ampia e continua collaborazione, anche per migliorare
l’immagine del Comando Supremo dinanzi al mondo politico ed al paese, ma non
accettava ingerenze nel suo campo di responsabilità, con un’interpretazione più
elastica, ma non meno netta di quella di Cadorna, sulla distinzione di sfere
tra potere politico e potere militare; come è noto, nel settembre 1918, egli
respinse energicamente gli inviti di Orlando ad attaccare l’esercito
austro-ungarico di cui si profilava la crisi, rivendicando a sé soltanto, la
condotta delle operazioni, tanto da tenere inizialmente il governo all’oscuro
della preparazione dell’offensiva cui si era infine deciso.
Anche con gli alleati
franco-britannici ebbe buoni rapporti: non era sensibile come Cadorna alla
necessità di una condotta unitaria della guerra di coalizione e rifiutò sempre
di sferrare offensive senza altro obiettivo che l’alleggerimento indiretto del
fronte francese, ma seppe dare un’impressione positiva di sicurezza e volontà
di collaborazione e stabilire proficui contatti a livello degli Stati Maggiori.
L’altro grande e
indiscusso merito del Diaz comandante in capo fu il suo fattivo interesse per
le condizioni dei soldati.
In questo non era
solo, perché nel 1918 era convinzione diffusa che il collasso di Caporetto
fosse in gran parte dovuto alla stanchezza fisica e morale dei combattenti, che
molto avevano dato e poco ricevuto; e infatti si moltiplicarono le iniziative
per il miglioramento del regime di vita dei soldati e per una propaganda
articolata ed efficace. Un impulso decisivo, necessario per vincere le
resistenze burocratiche a tutti i livelli, venne però dal Diaz medesimo, il
quale fece quanto era in suo potere per assicurare ai soldati un vitto curato e
regolare, turni sicuri di riposo effettivo e di licenze, un maggior rispetto
della vita e della salute anche in trincea (quindi alloggiamenti meno
trascurati, qualche tentativo di igiene, un freno poi allo stillicidio di
piccole e sanguinose azioni di scarso costrutto) e un’assistenza morale e
politica non limitata alla pur benemerita attività dei cappellani.
I risultati non
furono dappertutto uguali (la tradizione agiografica certamente ne sopravaluta
l’effetto), ma furono avvertiti dalle truppe e accolti con favore.
Merito minore, ma non
trascurabile, fu di saper evitare facili successi pubblicitari con
l’ostentazione del suo interesse per i soldati: i suoi nuovi compiti gli
impedivano di ispezionare personalmente le trincee e di interrogare i soldati,
se non in via eccezionale, e il suo innato rispetto per l’ordinamento gerarchico
dell’esercito lo indusse a limitarsi a dare le direttive generali che gli
competevano, senza mettersi in mostra dinanzi ai giornalisti.
Del resto tutto il
suo stile di comando fu sobrio, come attestano i suoi proclami alle truppe.
Gli agiografi di
Luigi Cadorna hanno posto in rilievo che fu l’accorciamento del fronte italiano
(praticamente dimezzato con la ritirata sul Piave) a permettere al Diaz di
assicurare alle truppe quei periodi di vero riposo e di costituire quelle
riserve a disposizione del Comando Supremo che negli anni precedenti erano
state vietate dall’assillante esigenza di impiegare tutte le forze disponibili
per guarnire il lunghissimo fronte.
Parimenti è stato
fatto osservare che due altri vantaggi di cui il Nostro fruì, ossia la forte produzione
dell’industria bellica nazionale e le crescenti difficoltà dell’Impero
austro-ungarico, erano il frutto dei lungimiranti sforzi del suo predecessore.
Sono fatti
indiscutibili (né li avrebbe negati il Diaz, che credeva fermamente nella propria
fortuna, con qualche concessione alla scaramanzia), così come è vero che nel
1918 il tempo lavorava ormai per gli eserciti dell’Intesa; ma bisogna anche
ricordare che dopo Caporetto la posizione strategica dell’esercito italiano era
molto più delicata (mancava lo spazio per un’ulteriore ritirata, soprattutto
perché molti temevano le possibili reazioni interne); ed è un fatto che la
ripresa del paese e delle truppe fu assai più lenta e contrastata di quanto non
voglia la leggenda patriottica, che vede Caporetto come un “colpo di sprone” al cavallo di razza in
difficoltà.
Inoltre
scarseggiavano ormai le riserve di uomini, cui Cadorna aveva potuto attingere
con relativa larghezza: il Diaz non avrebbe potuto affrontare una battaglia di
logoramento, perché la sua unica riserva era la classe del 1900, chiamata alle
armi nel 1918, ma destinata a entrare in linea soltanto nella primavera del
1919.
In ogni caso ci
sembra priva di senso la contrapposizione polemica tra la strategia offensiva
di Cadorna e quella difensiva del Diaz: assai più che dalla personalità dei
comandanti in capo, l’andamento della guerra era deciso dal concorso di molte e
diverse circostanze (a cominciare dal comportamento del nemico); ed infatti
l’asprezza dei contrasti personali non aveva impedito ad Antonio Salandra
(1853-1931), a Giorgio Sidney Sonnino (1847-1922) e ad Paolo Boselli
(1838-1932) di condividere e appoggiare
l’impostazione offensivistica di Cadorna, mentre Orlando e il Diaz, dopo dieci mesi
di piena collaborazione, si divisero nel settembre 1918 sull’opportunità
dell’offensiva autunnale.
In sintesi, la scelta
di una strategia difensiva era sostanzialmente obbligata fino al settembre
1918.
Merito del Nostro fu
di condurla con intelligente fermezza e di approfittare del rallentamento delle
operazioni e della disponibilità di nuovi mezzi per riorganizzare l’esercito.
Fu certamente
positiva la proclamazione dell’inscindibilità della divisione, pedina base
della condotta del combattimento (così come il battaglione ad un livello inferiore);
semmai la decisione giungeva in ritardo (negli altri eserciti era stata fatta
nel 1915) e non fu sviluppata fino ad arrivare alla divisione ternaria (cioè su
tre reggimenti di fanteria, anziché sui quattro che la rendevano assai
pesante).
Positive furono anche
la redistribuzione dell’esercito in sei armate di medie proporzioni e
l’emanazione di nuove norme per le operazioni, che sulla base della dura
esperienza prevedevano soltanto battaglie adeguatamente preparate e
condannavano le azioni locali senza mezzi sufficienti e le costose offensive
dimostrative (anche se poi Armando Diaz
permise che, il 24 ottobre 1918, il generale Giardino lanciasse la sua
4ª armata in improvvisati attacchi contro le munite posizioni austriache del
Grappa, risoltisi in un massacro di fanterie, e privo di risultati concreti).
Complessivamente
insufficienti invece gli sforzi per un migliore addestramento delle truppe,
anche perché all’efficienza degli ufficiali superiori forgiatisi nella guerra
corrispondeva uno scadimento della media dei quadri inferiori, troppo giovani e
inesperti.
Deludente infine
l’esperienza del corpo d’armata d’assalto, che cercava di replicare su grande
scala, senza un adeguato potenziamento dei mezzi offensivi, l’eccellente
rendimento negli assalti brevi della nuova specialità degli arditi.
Quanto al governo dei
quadri, la contrapposizione tradizionale tra i siluramenti indiscriminati del
generale Cadorna e la gestione umana e ragionevole del generale Diaz non sembra
felice.
Indubbiamente il
primo non aveva avuto la mano leggera e nei molti esoneri da lui effettuati o
avallati (217 generali, 255 colonnelli, altri 400 ufficiali superiori) si
contano non pochi abusi o errori; ma l’eliminazione dei tanti ufficiali
incapaci di adeguarsi alle durissime esigenze del conflitto era una necessità
innegabile ed i suoi effetti furono in sostanza positivi, tanto che il Diaz
ereditò alti comandi (generali e colonnelli) complessivamente all’altezza della
situazione, senza alcun dubbio più capaci di quelli del 1915 e non inferiori a
quelli francesi o inglesi.
Non ha quindi senso
confrontare quantitativamente gli esoneri nei diversi periodi della guerra,
perché avevano luogo in condizioni sempre diverse. In ogni caso gli esoneri di
alti comandanti disposti direttamente dal Diaz o da lui avallati non furono
pochi, anche se meglio accolti dall’opinione pubblica.
In realtà la sua
immagine tradizionale di comandante paterno e comprensivo è vera solo a metà:
il suo fattivo interessamento per le condizioni di vita dei soldati, ad
esempio, non implicava alcun allentamento della disciplina, né la sua
consapevolezza della stanchezza delle truppe e della pesantezza dei sacrifici
loro imposti comportava alcuna tolleranza verso gesti di protesta o rivolta.
Nell’ultimo anno di
guerra i tribunali militari continuarono a lavorare con il ritmo e i metodi dei
tempi di Cadorna (mancano però statistiche disaggregate), anche se non furono
reiterati gli inviti ufficiali a repressioni.
Un giudizio
complessivo dell’operato del generale Armando Diaz come comandante in capo è
certamente positivo.
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