«Agli ex re di Casa Savoia, alle loro consorti
e ai loro discendenti maschi sono vietati l'ingresso e il soggiorno nel territorio
nazionale». Cosi dispone la carta costituzionale della repubblica democratica
italiana, ma non eran trascorse ventiquattr’ore da che l’on. De Nicola, assistito
dagli on. De Gasperi e Terracini, aveva con la sua firma posto in vigore la severa
disposizione, che l'ombra del vecchio Re penetrava inavvertita in territorio nazionale,
l’ombra del vecchio piccolo Re che per quasi mezzo secolo aveva regnato sulle
belle terre ora vietategli, e l’avevano mandato a morire in un ospedale africano,
e il figlio non era arrivato in tempo a dirgli addio, così com’egli, giovane, non
aveva potuto dire addio al padre. Penetrava inavvertita, non più silenziosa di quando,
corpo, una sola volta in quarantaquattro anni aveva levata alta la voce, e
tutti sentirono in essa quella della patria: fu a Peschiera, in una palazzina ora
ridotta ad abitazione privata, e la sala dove venne decisa, per volontà del Re,
la resistenza sul Piave, oggi è una anticamera, e la lapide è nascosta dietro una
tenda, segno dei rispetto e della prudenza dell’inquilino. Chi s’avvede della presenza
del vecchio Re che, elusa la pur strettissima vigilanza degli zelanti difensori
della repubblica, torna nella sua Italia, e la ripercorre, silenzioso come in vita,
col passo leggero delle ombre, e la sua meta e il Grappa dove, pure, un posticino,
in quel cimitero, non dovrebb’essergli negato dai vivi quando i morti,
riconosciuto il loro Re, volentieri si stringerebbero fra loro per fargli un
po’ di spazio, tanto piccolo è il Re, e averlo vicino per sempre, ravvolto in
quella bandiera che sul Grappa non ha perduto e non perderà mai lo stemma?
Colpevole della rovina d’Italia il Re di Tripoli,
di Peschiera, di Vittorio Veneto?
I fanti non vogliono crederlo, e sarebbero
onoratissimi di averlo accanto, felicissimi di riparlare un po' con lui, sotto
la terra nella quale il sangue s’è trasformato in erba e fiori, di quelle
giornate che la gente, a quanto sembra, ha fatto presto a dimenticare, non è
vero Maestà?
Rimanga qui con noi, Maestà, questo è il
suo regno, questa è la sua bandiera, questi i suoi sudditi, guardi quanti, e
tutti fedeli, nessuno la rinnega, e abbiamo la nostra banda che in barba alle
leggi della repubblica suona in questi silenzi la Marcia reale. Rimanga con
noi, Maestà.
Sua meta è il Grappa. Col passo leggero
delle ombre il vecchio re passa per il vuoto Quirinale, e nella piazza solitaria,
immobile in mesto atteggiamento, un cittadino in cravatta nera guarda il balcone.
Interrogato, dirà d’essere in lutto per una zia. Ma il vecchio Re apprezza la
fedeltà pur ammantata di tanta prudenza un piccolo pensiero gli basta, sa bene,nella
sua antica saggezza, ch’è già molto quando degli applausi di un’intera nazione
rimane una cravatta nera in una piazza solitaria; e passa oltre, e sente un suono
noto provenir dalle tasche d’un giovane cittadino riuscito a metter le mani
sulla celebre collezione numismatica, e sorriderebbe se avesse mai sorriso
durante la lunga vita; e musiche e luminarie, ecco, lo attirano, c’è una festa
privata a Palazzo Giustiniani, mentre il popolo sovrano dorme l’on. De Nicola
brinda alla nuova Costituzione, brindano gli illustri personaggi che lo
attorniano. Ardono i doppieri, impalati nei corridoi i corazzieri sognano il
Re. Passa l’on. De Nicola, corazzieri prescntat’arm!, non possono: divorati dalle
tarme, al più piccolo movimento cadrebbero in polvere. C’è anche il Conte
Sforza, anch’esso è divorato dalle tarme, morto anch’esso, più del Re, oh l’odore
di naftalina, è la sua voce o quella d’un vecchio grammofono a tromba che dice:
«In qualità di membro del governo repubblicano, non posso fare dichiarazioni
sulla morte di Vittorio Emanuele III»? Ardono i doppieri, un’altra voce morta
detta un telegramma : «Invio le espressioni del cordoglio mio personale e della
Nazione per la morte dell'uomo che, nel più alto posto, partecipò per un cinquantennio
alla vita d’Italia». Anche tu partecipavi, vero on. De Nicola? Quanti colpevoli
nella splendida sala di Palazzo Giustiniani! Come il Re, più del Re, ma i Re
debbono espiare per butti, questo è il loro tragico mestiere. Ecco l’on. Bonomi,
l’on. Orlando, l’on. Nitti, l’on. Gasparotto: la sfilata dei morti davanti ai corazzieri
immobili continua. Ci fu uno solo, ma non è tra questi morti, è un’ombra come
il Re, che in mezzo al gregge osò un giorno parlare da uomo, ma o non poté o
non volle aiutare il Re che pur l’aveva
chiamato al Quirinale, e le splendide sciabole dei corazzieri avevano onorato
la sua giacchetta; poi tutti si ritirarono prudenti togliendo al Re costituzionale
il mezzo di valersi della Costituzione, colpevoli, se il Re fu colpevole, quanto lui, ma non sono in esilio, brindano a
Palazzo Giustiniani nella bella sala splendidamente illuminata dai doppieri, e
il Conte Sforza, l'ancor elegante Conte Sforza di cui le tarme hanno rispettato
il viso e le mani, trae dall’interno del vuoto abito nero la voce per
dichiarare che in qualità di ministro del governo repubblicano non può fare
dichiarazioni sulla scomparsa di Vittorio Emanuele III, morto in esilio,
all’ospedale, e il figlio Umberto ha dovuto allungare d’un giorno il viaggio per rivederlo: agli ex Re di Casa
Savoia, alle loro consorti e ai loro discendenti maschi sono vietati l’ingresso
e il soggiorno nel territorio nazionale. Ha dovuto fare un lungo giro questo
Savoia che non sembra un ex Re, ma ancora un Principe Ereditario, per non
allarmare una repubblica che se fosse più forte, oh, per abbreviargli il
viaggio, permetterebbe il passaggio a un figlio che corre al letto di morte di suo
padre; e Umberto non avrebbe toccato il territorio nazionale, ne avrebbe solo
trascorso il cielo, ma anche quel rapido volo sarebbe stato cagione di timore alla
repubblica non in condizione, ancora, d'esser generosa.
Corazzieri, presentat’arm! Si vada pure in
polvere, ma si saluti il Re per l'ultima volta, il vecchio Re che s'allontana
discreto per non turbare la festa, e compatisce : sa quanta ombra dia un re
agli uomini smaniosi del potere, quanto loro pesi una superiore autorità che li
costringa ad agire per il bene della nazione e li obblighi alla dignità nei
confronti dello straniero. Ufficiali in borghese (poiché il ministro della guerra vi consiglia
di uscire non in divisa reputandola forse una provocazione per alcuni e un
ricordo per altri), salutate il Re per l'ultima volta; italiani che abbiate
conservato ancora tanto di dignità da divider col vostro Re la responsabilità
degli eventi, monarchici palesi e segreti, combattenti che in nome del Re e non di Pacciardi o di Togliatti vi rifiutaste di riconoscere la repubblica di
Mussolini e affrontaste nei lagher la fame e la morte, uomini politici eletti
coi voti di dieci milioni di monarchici, e anche lei, signor Guglielmo Emanuel,
direttore di quel Corriere che cerca di farsi perdonare al pomeriggio quel che
scrive la mattina, e assai più zelante dei quasi cavallereschi giornali di sinistra non ha saputo risparmiar un inutile oltraggio alla
memoria di un Re d’Italia che aveva appena chiuso gli occhi in terra straniera,
«aiutate il Re per l'ultima volta; si, lo saluti anche lei, signor Emanuel,
vecchio monarchico cui la repubblica chiede solo rispetto al nuovo Stato e non
oltraggi al Re, specchio perfetto d’una borghesia pavida che andando di questo
passo finirà con l’affogare nella propria paura.
Il Re non si ferma a Peschiera: la lapide è
dietro una tenda, e per riposare non c’è che una cassapanca, lui che ha il suo
posto sul Grappa, in un bel letto di soffice terra fiorita preparatogli dai
suoi soldati, dai suoi morti che non lo rinnegano, e chiedono ai vivi se nella
disposizione del nuovo Statuto non si possa fare un'eccezione per il piccolo e
leggero corpo di un Re che sbagliò, forse, a non morire lassù, nei bei giorni
di gloria, e di quel gran monte che gloriosamente difese tutto, altro non
chiede se non quanto spazio comprenderebbero le braccia d’un bambino, tanto il
suo corpo è piccolo e leggero.
Mosca
Onore al Re! W il Re!
RispondiEliminaW Casa Savoia!