Il mancato rispetto della sentenza che
aveva dichiarato la incostituzionalità della legge elettorale di Camera e
Senato
Alla vigilia della conclusione della legislatura, la XVII della repubblica,
i giornali sono impegnati a riassumere, secondo le diverse impostazioni
ideologiche, quel che è stato fatto e quel che rimane del dibattito politico.
Nessuno tuttavia ricorda che nel 2014, a poco meno di un anno dall’apertura dei
lavori delle Assemblee legislative, la Corte costituzionale con la sentenza n.
1 del 13 gennaio (Presidente Silvestri, relatore Tesauro)
ha affermato la contrarietà alla legge fondamentale dello Stato della normativa
elettorale sulla base della quale deputati e senatori erano stati
eletti. Infatti, ha spiegato la Corte, “il sistema elettorale, pur
costituendo espressione dell’ampia discrezionalità legislativa, non è esente da
controllo, essendo sempre censurabile in sede di giudizio di costituzionalità
quando risulti manifestamente irragionevole”. Come l’attribuzione del premio di
maggioranza “in difetto del presupposto di una soglia minima di voti o di
seggi”,un meccanismo premiale “foriero di una eccessiva sovra-rappresentazione
della lista di maggioranza relativa, in quanto consente ad una lista che abbia
ottenuto un numero di voti anche relativamente esiguo di acquisire la
maggioranza assoluta dei seggi”. Ciò che può realizzare “in concreto una
distorsione fra voti espressi ed attribuzione di seggi che… nella specie assume
una misura tale da comprometterne la compatibilità con il principio di
eguaglianza del voto”.
Le disposizioni censurate – ha ricordato la Corte – “sono dirette ad
agevolare la formazione di una adeguata maggioranza parlamentare, allo scopo di
garantire la stabilità del governo del Paese e di rendere più rapido il
processo decisionale, ciò che costituisce senz’altro un obiettivo
costituzionalmente legittimo”, ma viziato dalla ricordata assenza del
raggiungimento di una soglia minima di voti alla lista (o coalizione di liste)
di maggioranza relativa dei voti, con “compressione della rappresentatività
dell’assemblea parlamentare, incompatibile con i principi costituzionali in
base ai quali le assemblee parlamentari sono sedi esclusive della
“rappresentanza politica nazionale” (art. 67 Cost.)” le quali si fondano
“sull’espressione del voto e quindi della sovranità popolare”. Inoltre, la
circostanza che alla totalità dei parlamentari eletti, senza alcuna eccezione,
manca il sostegno della indicazione personale dei cittadini, “ferisce la logica
della rappresentanza consegnata nella Costituzione”.
Dichiarata incostituzionale la legge elettorale nondimeno rileva “il
principio fondamentale della continuità dello Stato… in particolare dei suoi
organi costituzionali: di tutti gli organi costituzionali, a cominciare dal
Parlamento”. E poiché le Camere sono organi costituzionalmente necessari, esse
non possono perdere la capacità di deliberare, come prevede la stessa
Costituzione ad esempio, a seguito di nuove elezioni, con la prorogatio dei
poteri delle Camere precedenti “finché non siano riunite le nuove” (art. 61,
comma 2), e come prevede per la conversione in legge di decreti-legge adottati
dal Governo prescrivendo che leCamere, “anche se sciolte, sono appositamente
convocate e si riuniscono entro cinque giorni” (art. 77, comma 2).
Quindi continuità della funzione legislativa, ma limitatamente a quella
che, in diritto, si chiama “ordinaria amministrazione”. Solamente atti
necessitati. La continuità nell’emergenza, si potrebbe dire. Le Camera
avrebbero dovuto approvare in primo luogo una nuova legge elettorale ed essere
sciolte immediatamente dopo perché gli italiani potessero votare nuovamente.
Di queste indicazioni i partiti si sono fatti beffe. Per non perdere i
vantaggi retributivi e pensionistici della legislatura? Probabilmente.
Considerato che “a pensar male si fa peccato, ma quasi sempre si indovina”,
secondo il saggio adagio di Giulio Andreotti.
E così, complice Giorgio Napolitano, che da Presidente della
Repubblica avrebbe dovuto presidiare la legalità costituzionale e, quindi, il
rispetto della pronuncia della Consulta, non solo è stata approvata una nuova legge
palesemente incostituzionale, il cosiddetto Italicum,
immediatamente bocciata dalla Consulta, ma si è addirittura votata una legge di
revisione della Costituzione. Sì, un Parlamento delegittimato, perché eletto
sulla base di una legge incostituzionale, modifica nientemeno che la Carta
fondamentale dello Stato! I Padri Costituenti sarebbero inorriditi.
Gli italiani l’hanno bocciata sonoramente. Ma i partiti hanno fatto finta
di niente, e Matteo Renzi, dopo aver detto che se il referendum avesse
avuto un esito negativo avrebbe lasciato la politica, non solo è lì a dirigere
il Partito Democratico e,dietro le quinte il Governo, ma si è
fatto promotore di altre iniziative, tutte fortemente divisive, come si dice,
nel silenzio generale. Anche i parlamentari dell’opposizione, infatti, “tengono
famiglia” e non hanno mai pensato seriamente a perdere indennità e pensione per
un principio di rispetto della Costituzione. Uno di quei principi che una
classe politica seria dovrebbe onorare, sempre. Anche perché farsi beffe della
Costituzione è grave nel presente e nel futuro. Determina assuefazione dei
cittadini all’illegalità. Anche per questo aumenta l’assenteismo elettorale e
crescono i “populisti”.
L’eredità della legislatura XVII, anche a non essere superstiziosi
considerata la fama sinistra del numero, sarà, dunque, ricordata perché è stata
violata impunemente una regola fondamentale dello Stato liberale e democratico,
quella che le sentenze si rispettano. Ciò che avviene in altri stati, come
spesso ricordiamo con non celato imbarazzo. Nel Regno Unito, ad esempio, dove
il Primo Ministro, David Cameron, il quale all’esito negativo di
un referendum consultivo non vincolante, che avrebbe potuto
evitare di indire, ha lasciato Dowing Street, la presidenza del
Partito Conservatore ed anche il seggio alla Camera dei Comuni.
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