Studiare la storia per smontare l'allarme fascismo
Ecco tutte le linee di
continuità tra Stato liberale e fascismo
di Francesco Perfetti
17/02/2018
Verso la metà degli anni Sessanta cominciarono ad apparire i primi
risultati della ricerca di Renzo De Felice sul fascismo e sulla biografia di
Mussolini. La storiografia imboccò la strada di una analisi realmente storica e
fondata sulla ricostruzione di quella stagione politica al di là delle
deformazioni della politica e dell’ideologia.
Molti risultati degli studi di De Felice – all’inizio guardati con
scetticismo o sufficienza – divennero patrimonio della letteratura
storiografica più avvertita: la differenza per esempio tra «movimento» e
«regime», il riconoscimento dell’esistenza di un diffuso «consenso» al fascismo
e via dicendo. Ed entrarono a far parte del comune sentire.
Negli ultimi tempi, però, quali che ne siano le motivazioni, la polemica
politica, attraverso la riscoperta di un risibile pericolo neo-fascista, ha
riportato indietro di interi decenni i discorsi sul fascismo, addirittura
all’epoca precedente gli studi defeliciani.
Si è tornati, per motivi puramente politici e propagandistici, a una utilizzazione
estensiva e demonologica del termine «fascismo» che non ha più nessun
riferimento concreto e reale con il fenomeno storico che esso dovrebbe evocare.
In una situazione del genere è da salutare con grandissimo apprezzamento
l’uscita in libreria di un importante e denso saggio di Guido Melis dal
titolo La macchina imperfetta. Immagine e realtà dello Stato fascista
(Il Mulino, pagg. 624, euro 38), che si propone di studiare, con equilibrio
e grande finezza, i meccanismi essenziali del regime.
Si tratta di un lavoro, opera di uno studioso della storia delle
istituzioni e dell’amministrazione pubblica, che, sia pure da una prospettiva
diversa, riprende e prosegue il cammino storiografico iniziato da Renzo De
Felice.
Il problema centrale dello studio di Melis è quello del rapporto tra lo
Stato fascista e lo Stato liberale. In altre parole, è quello di cercare di
capire come, e fino a che punto, la «macchina» del fascismo sia riuscita a
incidere sulla continuità amministrativa e burocratica dello Stato preesistente
per portare avanti la sua opera di rottura o, se si preferisce, la sua
rivoluzione.
Melis fa notare come, fra le carte della Presidenza del Consiglio sia
conservata una busta intestata «Consiglio dei Ministri» recante la data 31
luglio 1943-XXI con questa frettolosa annotazione sul frontespizio del
fascicolo interno: «Non ha avuto luogo per mutamento del Ministero».
È significativo, più che curioso, il fatto che la fine del regime,
all’indomani del 25 luglio 1943, sia stata, da un qualche burocrate, declassata
al livello di un puro e semplice cambiamento di governo.
La verità è che le istituzioni del fascismo, a cominciare proprio dalla
struttura burocratica, si sono trovate a convivere con le vecchie istituzioni
dello Stato liberale.
Il fascismo giunse al potere all’indomani della conclusione della Grande
Guerra in una situazione di crisi generale, politica, economica e sociale
determinata dalle immani trasformazioni anche psicologiche indotte dal
conflitto.
La classe dirigente venuta fuori dal conflitto era, come ben sottolinea
Melis, «non priva di forti individualità», ma «dominata ossessivamente dal
culto del capo e da un impulso primordiale all’obbedienza gerarchica, insieme
frutto della pedagogia della trincea e portato storico dei grandi fenomeni di
irreggimentazione sociale imposti dall’industrializzazione».
Questa classe politica fece il suo ingresso nei gangli di una struttura
statuale che, dal punto di vista delle istituzioni, si ricollegava direttamente
allo Stato liberale dell’anteguerra con la sua architettura
burocratico-amministrativa e con la sua legislazione fortemente radicata in un
impianto normativo ancora ottocentesco.
Il fascismo, giunto dunque al governo, si trovò, così, ad operare in un
contesto istituzionale, burocratico, amministrativo e legislativo consolidato
anche se, per comune ammissione, bisognoso di ritocchi o ammodernamenti dovuti
alle nuove sfide, diretta conseguenza del conflitto mondiale, di una società
che stava diventando di massa e stava imboccando la strada dell’industrializzazione.
Esso fece ricorso al personale, peraltro di elevato livello e di grande
competenza, che aveva consentito il funzionamento della macchina
burocratico-amministrativa della tarda età giolittiana.
Gli uomini di Mussolini, una volta insediati nei posti di comando, si
appoggiarono al personale in ruolo nella amministrazione pubblica o a tecnici
di settore e grande importanza ebbe la figura del capo di gabinetto.
In alcune amministrazioni – si pensi, per esempio, al Ministero degli
Esteri, dove per diversi anni la carica di Segretario Generale venne ricoperta
da Salvatore Contarini, uomo della destra conservatrice di tradizione liberale
– tutte queste personalità operarono, più che come cerniera, come fattori di
collegamento con l’Italia liberale.
L’analisi proposta da Guido Melis col supporto di un ampio e preciso
apparato statistico pone implicitamente, quanto meno a livello di personale
burocratico-amministrativo, il problema della continuità-rottura fra lo Stato
liberale e lo Stato fascista.
Si tratta di una questione rilevante dal punto di vista storiografico
perché, al di là delle biografie intellettuali del personale
burocratico-amministrativo, pone il problema della natura stessa del regime e
della sua effettiva capacità di essere o trasformarsi in un regime
compiutamente totalitario.
In effetti, a ben vedere, il traguardo della realizzazione di uno Stato
totalitario non venne raggiunto. La struttura della stessa «diarchia», cioè a
dire la convivenza tra fascismo e Monarchia, lo rendeva di fatto impossibile.
E del resto lo Stato fascista non ebbe carattere monolitico: nelle sue
strutture si trovarono a convivere fascisti in senso proprio, ma anche
esponenti dell’Italia liberale, uomini che rappresentavano interessi economici,
ovvero oligarchie o potentati.
Un grande mix, insomma, che si ritrovava anche nella convivenza di
istituzioni preesistenti al fascismo e di istituzioni da questo create ex novo.
Una convivenza spesso dialettica se non ambigua. Appare, in proposito,
interessante il fatto che la più celebrata rivoluzione economica del fascismo,
cioè il corporativismo con quel che esso avrebbe dovuto comportare, finì per
essere messa da parte dalla nascita, a partire dagli anni Trenta, di quello
«Stato imprenditore» e di quella «economia mista» che sarebbero sopravvissuti
al regime.
In proposito osserva Melis: «Emerge la novità ambigua di uno Stato-partito
costruito ex novo modificando in profondo la Costituzione liberale, ma al tempo
stesso condizionato sino all’ultimo dalla sopravvivenza degli antichi
equilibri: cioè dal modello dello Stato ideato a fine Ottocento dai maestri del
diritto costituzionale e amministrativo».
Emerge, in altre parole, l’immagine di uno Stato che, rispetto ai suoi
propositi di realizzare un regime totalitario, si rivelò, come recita il titolo
del volume di Melis, «una macchina imperfetta»
Nessun commento:
Posta un commento