Così
nelle provincie di confine era il fascismo che metteva fine all'autonomismo
spiccato di quei territori. Nel marzo 1922 a Fiume il deputato toscano Giunta
capitanava una vera azione guerresca contro lo Zanella che dopo l'avventura di
D’Annunzio impersonava l'autonomismo locale. Si trattava di saturare
gradualmente il paese dell’attività del fascismo con azioni di gusto
popolare e patriottico così da potersi, alla prima occasione sostituire
agevolmente al Governo parlamentare sin troppo debole e screditato. Invano in
tutto questo processo si potrebbe ricercare qualche episodio, sia pure minimo,
di iniziativa monarchica. L’antifascismo odierno cerca di inventare questa
presunta complicità ma non vi riesce.
I
fascisti si mobilitavano ora in una regione, ora in un'altra, per dare
spettacolo e per tener vivo il fermento: a Roma per il 21 aprile 1922 : «Molto
dello spirito immortale di Roma risorge nel fascismo; romano è il littorio,
romana la nostra organizzazione di combattimento, romano il nostro orgoglio e
coraggio. Roma è il nostro mito » - così scriveva Mussolini nel Popolo d'Italia
e tutte queste parole che oggi ispirano diffidenza e fastidio pel male che
hanno fatto, allora accendevano l'entusiasmo dei giovani e creavano fantasmi di
grandezza e di gloria nei reduci della guerra vittoriosa. Dopo tre settimane
grande adunata di 50 mila fascisti a Ferrara capitanati da Italo Balbo per
domandare l’esecuzione di grandi opere pubbliche. Era un nuovo genere di sciopero
per affermare che « chi ha fatto la guerra ha diritto alla vita» Le masse
cittadine rurali si mobilitano, occupano le città con formazioni di
combattimento. È un fenomeno nuovo, disastroso per lo Stato liberale e per
tutte le autorità di tale Stato a cominciare dalla più alta.
Molti si
domandavano: «Vuole il fascismo restaurare o sovvertire lo Stato?» E i fascisti
rispondevano che essi volevano restaurare l’autorità dello Stato per impedirgli
di cedere alla pressione sovversiva, ma nello stesso tempo dicevano di tendere
a un nuovo Stato più forte di quello «agnostico» del liberalismo.
Il
momento decisivo della lunga battaglia si può considerare quello della crisi
governativa dell’estate 1922 con lo sciopero «legalitario» del 31 luglio. Il
giorno prima Filippo Turati era stato consultato dal Re per la soluzione della
difficile crisi. Era la prima volta che il Turati consentiva di recarsi dal Re.
Ma egli non accettava di salire al Governo: forse anche, per dissuaderlo da
qualunque adesione, il socialismo massimalista deliberava lo sciopero generale
per il giorno dopo. Nessun atto fu più sconsigliato di quello. L'attenzione del
paese fu immediatamente distolta dalla crisi parlamentare per essere portata
allo sciopero e alle sue reazioni. Il fascismo che aveva perduto nei mesi
precedenti un po’ del favore popolare per certi episodi di violenza
unanimemente deplorati, ebbe un motivo nuovo e straordinariamente opportuno per
accusate la sinistra di voler impedire il funzionamento dello Stato e di voler
paralizzare la vita della nazione in un momento così delicato come quello della
laboriosa crisi di Governo, con lo sciopero dei servizi pubblici.
Il fascismo poté anche ostentare la sua forza e mostrare che esso era capace di sostituirsi agli organi e ai poteri dello Stato in una vicenda nella quale aveva per sé il favore della opinione pubblica. Non basta. Esso poteva affermare allora e sempre continuerà ad affermare che il pericolo del bolscevismo non era affatto superato in Italia nei mesi che precedettero la «marcia su Roma» . Se il Sovrano faceva appello a Turati è chiaro che faceva un lodevole tentativo per risollevare il prestigio del Parlamento suggerendo la coalizione di tutte le correnti democratiche per isolare l’estrema sinistra e la destra fascista e nazionalista. Questa coalizione non si poté fare: il vecchio Giolitti non poté tornare al Governo per il veto, si disse, di don Sturzo.
Il
partito popolare, come abbiamo detto più sopra, aveva già il triste vanto di
avere reso impossibile il funzionamento del sistema parlamentare con
l’applicazione della proporzionale; ora avrà il vanto di avere impedito
l’ultimo tentativo di salvezza del Parlamento minacciato dalle squadre armate
del fascismo. Il nuovo Ministero Facta, nato dalla lunga crisi dell’estate 1922,
significava che il dramma politico, non risolto sul terreno legale, sarebbe
arrivato nei prossimi mesi alla sua logica conclusione con il prevalere di una
delle due forze: quella legale o quella insurrezionale. I fascisti lanciarono un ultimatum agli scioperanti
e al Governo: «O nelle 48 ore lo sciopero cesserà o noi agiremo per farlo
cessare».
E dopo 48
ore uffici e stazioni furono occupate nei centri nevralgici da squadre
fasciste; i treni vennero condotti da tecnici volontari o difesi da formazioni
fasciste. Il movimento approfittò dell’occasione per dilagare.
Occupò con la forza il comune di Milano (3 agosto) cacciandone i socialisti e inalberandovi il tricolore. D’Annunzio parlò quel giorno dal balcone del palazzo. Violenza dunque, sempre violenza, ma non si racconti che non era appoggiata dal favore popolare e dallo Spirito della Vittoria.
Occupò con la forza il comune di Milano (3 agosto) cacciandone i socialisti e inalberandovi il tricolore. D’Annunzio parlò quel giorno dal balcone del palazzo. Violenza dunque, sempre violenza, ma non si racconti che non era appoggiata dal favore popolare e dallo Spirito della Vittoria.
Qualunque
Monarca avrebbe subito ceduta a tanta declamazione eroica, e a tanta e così
infiammata suggestione popolare: Re Vittorio no. Egli esita, resiste: E’ ancorato
fortemente alla soluzione costituzionale e parlamentare; un po’ per educazione
mentale e per debito del suo alto ufficio; molto per il suo temperamento serio,
schivo, riflessivo, avverso a tutte le improvvisazioni, alle romanticherie e
alla rettorica.
Ma la
guerra civile riprende con sanguinosi scontri a Savona, a Parma e a Livorno. E
anche qui un eroe dannunziano della impresa di Buccari capeggia l'occupazione
del comune di Livorno; anche qui riti e simboli fiumani e fascisti; ventimila
cittadini si inginocchiano nella piazza al momento della «riconsacrazione» del
Municipio con il tricolore. È facile ora parlare di bande armate ma allora
erano folle interminabili, commosse, plaudenti. Il 5 agosto è la volta di
Genova, Palazzo S Giorgio viene occupato. L’illegalità è certa e deplorevole e
avrà, a ciclo conchiuso, funeste conseguenze: ma il consenso popolare v’era,
sicuro, entusiasta, travolgente. Se oggi i Comitati di liberazione avessero un
decimo di quei consensi che cosa non oserebbero?
Sarà
stato un male, anzi fu certo un male, ma la cronaca o la storia di quegli
avvenimenti non può essere modificata per utilità polemica. I socialisti non
seppero collaborare con la democrazia per impedire la rivoluzione
antiparlamentare e non seppero educare le masse alla propria rivoluzione. Per
legge di natura, per istinto di conservazione la nazione italiana doveva darsi
rapidamente uno Stato perché quello legale cadeva da tutte le parti sotto i
colpi del fascismo.
Lo
sciopero di agosto era stato, così si disse da parte socialista, la Caporetto
del socialismo. «Era l’ultima carta, si leggeva nel giornale: La Giustizia di
Reggio Emilia (22 agosto 1922), l’abbiamo giocata, l’abbiamo persa.
Ci hanno
tolto Milano e Genova nostri capisaldi che parevano imbattibili. Ci hanno dato
alle fiamme i due maggiori giornali, L’Avanti! a Milano e II Lavoro a Genova.
Dovunque
è giunta la raffica fascista ci ha spazzato. Le varie soluzioni che noi abbiamo
tentato al problema della nostra esistenza sono state tutte tardive; tardiva la
soluzione collaborazionista che si doveva tentare nel 1921; tardiva quella
rivoluzionaria dello sciopero generale di protesta tentata quando molti dei nostri fortilizi erano già caduti. La colpa è
dei dissensi interni di metodo e delle deviazioni dalla rotta originaria.
Bisogna ritornare alle origini, alla carta costituzionale del socialismo
italiano del 1892...».
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