Giuseppe aveva lasciato la
sua casa di San Cassiano, un piccolo paese
in provincia di Pordenone, alla tenera età di tredici anni. Era alto e
forte e sprigionava salute e giovinezza da ogni parte del suo corpo. Portava i
capelli piuttosto corti come si usava all’ epoca. Era il 1916, la guerra era
iniziata già da un anno e il ragazzo aveva ricevuto la proposta di andare a
servire lo Stato scavando trincee vicino alla prima linea. Il padre lo aveva lasciato
andare, preoccupato, ma in parte sollevato per una bocca in meno da sfamare. Il
ragazzo dallo sguardo fiero e volitivo dimostrava un’ età maggiore di quella
che aveva realmente. Era un lavoratore instancabile e voleva aiutare il suo
Paese in guerra con il suo lavoro di manovale. Un giorno di primavera del 1916
si mise in cammino verso la stazione di Pordenone. Lì, con un permesso firmato
dal sindaco del paese, prese un treno che lo avrebbe portato nella zona del
conflitto. Arrivato a destinazione, venne alloggiato in una baracca insieme a
soldati provenienti da tutte le regioni d’Italia. Gli consegnarono una divisa
che somigliava a quella dei soldati, una gavetta, un bicchiere, delle posate e una coperta che odorava ancora
di pulito. Il suo giaciglio era una
branda di tela vicino ad una finestra. Malgrado la sua famiglia fosse lontana,
si sentiva forte, e gli pareva di non aver nulla da temere. Le ore passate a
scavare trincee erano faticosissime, ma il suo sacrificio era una scelta
volontaria. Lavorava dalla mattina alla sera, il sudore gli imperlava
costantemente la fronte, ma era consapevole che quello che stava facendo era
molto di più di un qualsiasi altro lavoro di fatica. Durante le brevi pause per
il vitto aveva fatto amicizia con alcuni soldati con i quali si intratteneva a
parlare. Si faceva raccontare da loro i tanti episodi di guerra ai quali
avevano partecipato sollecitandoli a scendere nei minimi particolari. In quei
momenti avrebbe desiderato avere la loro età, per poter combattere e rendersi
così ancora più utile al suo Paese e per
poter dimostrare tutto il coraggio che sentiva di possedere. Anche suo padre,
classe 1878, era stato richiamato alle armi e nella sua casa di campagna erano
rimasti la madre e due fratelli più piccoli. Con il passare del tempo la fatica
divenne qualcosa di abitudinario. Aveva già lavorato instancabilmente nella sua
terra per dissodare i campi sempre ricurvo sull’aratro trainato da un paio di
buoi. Il cuoco del reggimento gli riempiva sempre la gavetta, ma gli si leggeva
in faccia che il cibo non gli bastava mai. Aveva stretto amicizia profonda con un soldato suo compaesano e ogni
tanto, la sera, si trovava con lui a
ricordare i loro paesi natii e gli amici che avevano dovuto lasciare le loro
case per recarsi loro malgrado in una terra bagnata dal sangue. Giuseppe aveva
frequentato la terza elementare al suo paese. Gli piaceva andare a scuola e
ricordava bene il volto austero del suo maestro per il quale nutriva una grande
venerazione, dato che doveva alla sua perseveranza se aveva imparato a leggere
e a scrivere. L’unica materia che non amava era la storia. L’aveva però
studiata ugualmente con profitto perché come diceva il maestro, tutto ciò che
impari a scuola, ti serve per la vita. Quando Giuseppe scavava le trincee, per
rendere meno monotono questo lavoro cercava di ripetere nella sua mente le
numerose poesie imparate a memoria nei pomeriggi d’inverno davanti alla stufa,
oppure recitate all’infinito alla nonna, sempre pronta a correggerlo e ad
incoraggiarlo. Durante i mesi trascorsi al fronte aveva scritto alla famiglia
delle lunghe lettere nella quali raccontava la sua esperienza cercando di non
allarmarli. Descriveva i luoghi dove trascorreva le sue giornate e raccontava della temperatura piuttosto
rigida, mitigata raramente dall’apparire del sole, che riscaldava l’aria e le
membra intirizzite dal freddo e gli animi.
Dopo qualche tempo iniziò a sentire nostalgia della madre, dei fratelli
e della sua casa. Gli avevano comunicato che la nonna era arrivata in famiglia
per aiutarli nel lavoro dei campi; due braccia in più erano davvero utili in
quei tempi. Il giorno di Pasqua del 1916, verso mezzogiorno, Giuseppe si
trovava sul Monte Cucco con i compagni e dei soldati che lavoravano nelle
trincee. Dopo aver assistito alla messa, tutti schierati in ordine, stavano in
attesa di poter assaporare il pranzo pasquale che ancora bolliva nelle grandi
marmitte. In quel giorno distribuivano un eccellente baccalà. Giuseppe, come
sempre, si fece riempire la gavetta fino all’orlo. Del resto era Pasqua e le
razioni venivano distribuite con una certa generosità. Era un giorno davvero
speciale, non solo per la festività, ma perché era prevista la visita di S. M.
il Re D’Italia Vittorio Emanuele III. Egli giunse all’ora fissata e, dopo aver
passato in rassegna i soldati, volle conoscerne personalmente qualcuno. Il
rancio era già iniziato e la presenza del sovrano aveva movimentato e
rallegrato il reggimento. Non appena intravide il giovane volto di Giuseppe,
gli si avvicinò. Volle saperne il nome e il luogo di provenienza, e alla fine
gli chiese: “ Sai chi sono? “. Il ragazzo, avvinto da una forte emozione che
gli aveva quasi paralizzato la lingua, rispose balbettando: “ Lei è il nostro
Re, Vittorio Emanuele III “, con in mano la gavetta piena di baccalà. Il Re gli
domandò se il rancio fosse di suo gradimento e Giuseppe gli porse
istintivamente la gavetta. Egli allora gli chiese il permesso di assaggiare il
baccalà. Si fece dare dal giovane la forchetta e si mise a mangiare dalla sua
gavetta, tra lo stupore di tutti e il compiacimento del ragazzo, ancora
incredulo dell’onore inaspettato che il Re gli aveva fatto. Quando gli fu
richiesta la sua età, egli rispose con genuino orgoglio di avare tredici anni.
La gavetta gli fu di nuovo riempita di cibo. Dopo questo episodio, Giuseppe
dall’emozione passò diverse notti insonni. A partire da quel giorno, la sua
vita gli sembrò per la prima volta fortunata. La sera stessa scrisse alla
madre, narrandole quel fatto straordinario. Nel novembre del 1918 vide la fine
della Grande Guerra e la vittoria dell’esercito italiano. Il nemico fu
sconfitto e anche per Giuseppe, a quindici anni, cominciò una nuova vita. Egli
tornò a casa, dove anche il padre era arrivato, lasciandosi la guerra alle
spalle. Nel piccolo cimitero erano stati sepolti i corpi di tanti soldati anche
nemici; alcuni di questi Giuseppe li aveva visti giacere privi di vita lungo le
sponde del fiume Livenza. Un giorno, nei pressi di Portobuffolè, aveva
assistito a un duello aereo tra aviatori italiani e austriaci. Si affrontarono
con valore in uno scontro violento, che aveva avuto esito positivo per gli italiani. I piloti
austriaci feriti in combattimento erano stati tumulati nel piccolo cimitero di Portobbuffolè,
dove l’elica del loro aereo venne posta sulla loro tomba come croce. I loro
corpi, sepolti senza la benedizione di un prete, rimasero in territorio
italiano ancora per molti anni. Nel 1923 Giuseppe si trovava a Torino, dove era
stato chiamato a prestare il servizio militare nell’arma della Cavalleria. Un
giorno, mentre con altri soldati si trovava nel refettorio della caserma che
portava il nome di un eroe italiano morto in guerra, egli si mise a raccontare
che durante la Pasqua del 1916, quando era ancora “ uno zappatore”, il Re Vittorio
Emanuele III aveva mangiato nella sua gavetta. Gli amici gli manifestarono la
loro incredulità, pensando che si volesse prendere gioco di loro. Ad ascoltare
il suo racconto c’era anche un ufficiale, il Conte Calvi di Bergolo, che
comandava il Reggimento di Cavalleria a
cui apparteneva Giuseppe. Egli era fidanzato con la principessa Iolanda, figlia
del Re Vittorio Emanuele III. Nella
spontanea confidenza che scaturisce dall’amore, il conte Calvi di Bergolo gli aveva narrato quel singolare e simpatico
episodio, dubitando peraltro della sua autenticità, tanto le sembrava strano
che il Re avesse mangiato nella stessa gavetta del giovane. Iolanda aveva
chiesto conferma del fatto al padre ed egli se ne rammentò subito. Quel ricordo
aveva suscitato in lui una certa curiosità, e le chiese, trattenendo a stento
un sorriso, da chi lo avesse sentito. Qualche giorno dopo, nella Piazza
centrale di Torino, il Reggimento di Cavalleria era schierato in alta uniforme,
come si addiceva all’occasione, e il Re Vittorio Emanuele III iniziò a passare
in rassegna le truppe con la solennità di sempre. Giunto davanti a Giuseppe, si
fermò, e dopo aver osservato a lungo il
giovane soldato dal volto fiero e dalla divisa elegante, gli domandò se si
ricordava di quel lontano giorno di Pasqua del 1916. Giuseppe, con gli occhi
pieni di gioia rispose: “ Si Vostra Maestà ! Ricordo benissimo quel giorno era
il dì in cui Lei venne al campo sul Monte Cucco e mangiò nella mia gavetta”. Il
Re sorrise al soldato e gli batté amichevolmente una mano sulla spalla. Non
passarono che poche settimane da quell’incontro, quando un giorno, in una
Torino piena di bandiere sabaude mentre i soldati di Cavalleria erano
schierarti nella Grande Piazza sotto gli sguardi di tante persone che, come
ogni domenica, assistevano alla sfilata, il Re conferì al giovane una medaglia
che lui stesso gli appuntò sul petto. Per Giuseppe fu il giorno più bello della
sua vita, un ricordo che non lo abbandonò mai e che restò sempre nel suo cuore
di fedele suddito della monarchia italiana. Due mesi dopo, per ordine di S. M
il Re, fu congedato con un anno di anticipo dal servizio militare e poté così
fare ritorno nella sua terra, da sua madre che lo accolse a braccia aperte.
“ Questa vicenda, da me
raccolta in una limpida giornata di
luglio del 1995, in una stanza dell’ospedale di Sacile, mi fu raccontata dallo
stesso Giuseppe, l’orgoglioso soldato di Re Vittorio Emanuele III, che a 93 anni
viveva la sua vecchiaia immerso in questi cari ricordi.
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