Tutti Napoleonidi?
Per un
personaggio di statura europea, qual è Cavour, finire nel garbuglio di alberi
genealogici fantasiosi è sicuramente affascinante. Precipitare nel tritacarne
di luoghi comuni in commemorazioni più meno ufficiali è invece assai
malinconico. Come senza entra entrare nei dettagli ha osservato Mino Giachino,
in una recente rievocazione proprio a due passi dalla sua tomba, l'intervento
del regno di Sardegna nella cosiddetta “guerra di Crimea” è stato collocato nel
1856, che invece è l'anno del Congresso di pace convocato da Napoleone III a
Parigi, quando ormai tutto era finito. I bersaglieri ideati da Alessandro La
Marmora sono stati spacciati (salvo rettifica...) per carabinieri con tanto di
fez e soprattutto per l'ennesima volta quale artefice dell'accordo tra impero
di Francia e regno di Sardegna è stata evocata Virginia Oldoini Vérasis, contessa
di Castiglione. Per quanto “Nicchia”, come amabilmente era detta, la “contessa”
non determinò affatto la “grande politica” di Napoleone III, “fosco figlio di
Ortensia” (Beauharnais), figlia di primo letto di Joséphine de la Pagérie,
prima moglie di Napoleone. Il tramite vero fra Torino e l'imperatore fu il
giovane e brillante Costantino Nigra, incaricato d'affari, eletto gran maestro
del Grande Oriente Italiano dopo la morte di Cavour, assistito dall'altrettanto
abile Isacco Artom.
Quando
l'Ordine coatto genera il progresso
Gettati nella cesta della biancheria usata i
pettegolezzi che riducono la storia a stormir di panni, Camillo Cavour (che
abolì l'uso del “di”, a suo avviso riduttivo: preferiva firmarsi semplicemente
“Cavour”, come hanno ricordato i suoi eccellenti biografi Rosario Romeo e
Adriano Viarengo) va ricordato quale protagonista della storia del Piemonte,
dell'Italia e dell'Europa. In un mondo ancora in massima parte ripiegato nel
culto feticistico delle “tradizioni”, Camille aveva cinque anni quando
Napoleone I, definitivamente sconfitto, fu deportato a Sant'Elena. Ne aveva 11
al tempo dell'insurrezione costituzionale del 1821. Figlio e nipote di massoni,
“sveglio” come all'epoca erano i ragazzini (basti rileggere I miei Ricordi
di Massimo d'Azeglio), ebbe chiaro che le lancette del tempo non si possono
riportare all'indietro: soprattutto dopo il quarto di secolo trascorso dalla
Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino (1789) all'Atto addizionale
che nel 1815 promise la svolta liberale dell'Impero napoleonico. Non era solo
questione politico-diplomatico-militare. Nel frattempo scienza, tecnologia,
produzione e commerci avevano compiuto mutamenti irreversibili. Lì era il
progresso. La Santa Alleanza russo-austro-franco-prussiana combatté
strenuamente liberali e società segrete: massoni, carbonari, adelfi,
federati... Impose pace tra gli Stati e ordine ferreo al loro interno. La
conseguenza di quel “blocco” fu l'impennata demografica, che aumentò richiesta
di beni di consumo e dette impulso alla circolazione delle merci e delle idee:
volàno della destabilizzazione di un “Ordine” coatto. La Restaurazione non fu
vittima delle cospirazioni ma di se stessa. O, se si preferisce, della Storia,
che è moto perpetuo e procede a zig-zag. La Santa Alleanza incarcerò, impiccò,
represse. Ma le sue vittime furono solo qualche gocciolina di un mare che
continuò a mandare verso riva flutti, onde, burrasche.
Quando nel 1830 Cavour ebbe vent'anni, i
francesi cacciarono Carlo X (che aveva appena iniziato la conquista
dell'Algeria) e si dettero per sovrano Luigi Filippo d'Orléans, il “re
borghese”. In Inghilterra, Paesi Bassi e Belgio linee ferrate e navigli a
vapore stavano accelerando le ripercussioni della seconda rivoluzione
industriale. Persino nell'Impero d'Austria e in Germania gli asili adottarono
modelli educativi di avanguardia. L'Ottocento di Johann Heinrich Pestalozzi fu
il secolo della pedagogia.
Lettore
vorace di riviste d'avanguardia, di statistiche e di saggi sui mondi nuovi,
anche Cavour compì il “grand tour”. Ma non si volse all'indietro, a contemplare
leopardianamente “le rovine e gli archi”: Verona/Venezia, Firenze/Siena, Roma,
Napoli. Andò a Parigi, Bruxelles, Londra. Non visitò musei ma i fulcri della
modernizzazione (scuole, ospedali, carceri...), per capire dal vivo come voltar
pagina al costo minore e con i benefici maggiori.
Da
metà degli Anni Quaranta, di concerto con Ilarione Petitti di Roreto, puntò
sulle strade ferrate, oggi in drammatico affanno. Dalla Sagra di San Michele o
dal cacumine di San Salvatore Monferrato si vede la pianura a perdita d'occhio.
I “confini” politici e amministrativi sono solo convenzionali. Le Alpi
incombenti e gli Appennini, brevi ma scoscesi proprio a ridosso della costa,
costituivano l'altra sfida. Era l'ora
delle gallerie ferroviarie: verso Genova, per abbassare il costo del trasporto
di grano e di guano in Piemonte e contenere i salari in un'età di espansione
edilizia, ma anche verso la Francia, in direzione di Chambéry e di Nizza
Marittima, all'epoca parte integrante del regno di Sardegna.
Carlo Alberto il Lungiveggente
A spianare la strada al
primato politico di Cavour fu Carlo Alberto di Savoia, che non l'ebbe mai in
particolare simpatia. Re dal 1831, nell'autunno del 1847 decise che era saggio
battere sul tempo la “rivoluzione”: meglio concedere riforme che cedere alla
piazza, pessima consigliera. Rese elettivi i consigli comunali, provinciali e
divisionali. L'8 febbraio 1848 enunciò i capisaldi dello Statuto, scritto in
pochi giorni e promulgato il 4 marzo: governo “del re”, responsabile; una
camera elettiva, un'altra, il Senato, di nomina regia e vitalizia; libertà di
culto e di stampa; uguaglianza dei cittadini dinanzi alle leggi. Per Cavour le
riforme vollero dire dibattito nei giornali e in Parlamento. Chi ha più filo fa
più tela. Torino tornò al centro dell'attenzione europea, soprattutto dopo la
rivoluzione che a Parigi sfociò nella Seconda repubblica, con “giornate”
drammatiche e sanguinose (cadde anche l'arcivescovo mentre cercava di sedare
scontri) e dilagò ovunque, da Praga a Vienna, da Berlino a Budapest. In Italia
insorsero Venezia e Milano, Parma e Piacenza. Carlo Alberto dichiarò guerra
all'Austria per soccorrere i moderati lombardo-veneti e nei ducati padani.
Anche Ferdinando IV di Borbone nelle Due Sicilie e Pio IX nello Stato
pontificio concessero costituzioni, salvo sconfessarle. Il 9 febbraio 1849 a
Roma furono proclamate la decadenza del potere temporale del papa e la
Repubblica. La città Eterna divenne un laboratorio politico-istituzionale denso
di temibili incognite.
Dopo la sconfitta di Novara (23 marzo 1849),
l'abdicazione di Carlo Alberto e l'ascesa al trono del ventinovenne Vittorio
Emanuele II, Cavour, conservatore illuminato, individuò il nemico nei
clerico-reazionari e nei gesuiti, la cui espulsione dal regno venne chiesta sin
dal febbraio1848. Non esitò ad attizzare proteste contro l'arcivescovo di
Torino, Luigi Fransoni, colpevole di aver negato il viatico della buona morte a
Pietro de Rossi di Santarosa, ministro dell'Agricoltura, perché non sconfessava
il voto a favore delle leggi che abolirono privilegi arcaici del clero.
Il presidente del
Consiglio in carica, Massimo d'Azeglio, si spinse oltre, propugnando
l'introduzione del divorzio. Succeduto a Santarosa e poco dopo presidente del
governo, Cavour rischiò più volte di finire minoranza. Non bastavano il
connubio di centro-sinistro con il “democratico” alessandrino Urbano Rattazzi,
il sostegno della Società Nazionale (presieduta da Daniele Manin e poi da Giorgio
Pallavicino Trivulzio, a lungo detenuto allo Spielberg, con Giuseppe Garibaldi
per vice), il conforto degli esuli politici accorsi a Torino da tutt'Italia, la
benevolenza di osservatori esteri, di “congreghe” tanto occulte quanto potenti
e neppure il successo dell'intervento a fianco dell'alleanza anglo-franco-turca
contro la Russia nella “guerra di Crimea” (ottobre 1853- 1° febbraio 1856).
Cavour, don Margotti e
fra' Giacomo da Poirino
Cavour chiuse la
partita con le elezioni del 1857, vinte con ampio meticoloso ricorso a brogli
(già ne aveva usati ai danni della Sinistra) e con il colpo di mano finale:
chiese e il 5 giugno 1858 ottenne l'annullamento dell’elezione di quattro
ecclesiastici, canonici senza cura di anime e quindi del tutto eleggibili. Lo scopo
di quella offensiva non era assicurarsi qualche voto in più alla Camera, ma
mandare un segnale preciso all'interno e all'estero. Tra quanti si videro
annullare l'elezione spiccava il trentaquattrenne don Giacomo Margotti
(Sanremo, 1823-Torino, 1887). Direttore del periodico torinese “L'Armonia”,
aveva guidato l'opposizione contro le leggi Siccardi e l'incameramento statale
dei beni degli ordini religiosi “contemplativi”. Aveva anche deplorato la
condotta privata di Vittorio Emanuele II, che (a quanto si narra) conservò il
bastone rotto sulla sua schiena per fargli capire che era meglio si occupasse
di altro. In risposta alla prevaricazione don Margotti invitò i cattolici ad
applicare la formula “né eletti, né elettori”, che segnò la divaricazione dei
clericali intransigenti dal “Risorgimento scomunicato”. Poi divenne il “non
expedit” che resse sino al Patto Gentiloni del 1913 tra cattolici moderati e
costituzionali, pronubo Giovanni Giolitti.
Per mezzo secolo
l'Italia “politica” fu spaccata in due fronti contrapposti. Non quella
“amministrativa”, che ebbe tutt'altra dinamica, come convengono storici di
opposte sponde, quali per i cattolici, Marco Invernizzi, Oscar Sanguinetti e
Paolo Martinucci, autore di una scrupolosa biografia del conte Clemente Solaro della
Margarita, capofila dei cattolici conservatori (Ed. D'Ettoris). Ognuno aveva la
sua “verità”. Nel 1859 “moti” organizzati consentirono ai “piemontesi” di
sottrarre Emilia e Romagna ai Cardinali legati pontifici e far chiedere
l'annessione, confermata dal plebiscito dell'11-12 marzo 1860 (140.776 “si”
contro 2.810 “no”), contemporaneo a quello celebrato in Toscana. Nel settembre
1860, previo via libera da parte di Napoleone III (“Fate, ma fate in fretta”),
per impedire che Napoli divenisse un atanor rivoluzionario europeo per
il miscuglio esplosivo di protosocialisti, mazziniani, federalisti, liberi
pensatori e venturieri vari, col pretesto di tutelare i liberali aggrediti dai
clericali due corpi d'armata “sardi” irruppero in Umbria e nelle Marche e sconfissero
i pontifici a Castelfidardo. Senza dichiarazione di guerra, Vittorio Emanuele
proseguì dall'Abruzzo verso la Campania ove il 26 ottobre Garibaldi lo salutò
“Re d'Italia” e gli “consegnò” l'ex regno delle Due Sicilie. Cavour aveva
sperato di “fermare Garibaldi” (e persino ordinato all'ammiraglio Carlo Pellion
di Persano di “arrestarlo”, come Nico Perrone legge il mandato di “fermarlo”).
Alla spoliazione del suo Stato, non potendolo
fare con la spada di Giulio II e il grido di “Fuori i barbari”, Pio IX rispose
con l'arma estrema a sua disposizione: la scomunica del re, del suo governo e
di tutti i suoi “agenti”. Cavour non arretrò di un millimetro. Ratificata
l'annessione dell'Italia meridionale (21 ottobre) e di Marche e Umbria (4 e 5
novembre), passò all'incasso con lo scioglimento della VII legislatura della
Camera “piemontese” e le elezioni del gennaio 1861. Appena inaugurata a Torino,
in una sede parlamentare allestita alla meglio nel cortile di Palazzo Carignano
(il Senato, che registrava la presenza di poche decine di suoi componenti, si
radunava a Palazzo Madama, dirimpetto a Palazzo Reale) la nuova legislatura, la
prima effettivamente nazionale, voltò pagina: il 14 marzo Vittorio Emanuele II
assunse per legge il titolo di Re d'Italia. Era stato lui a unirla e a
garantire all'Europa che il nuovo Stato avrebbe concorso alla pace.
Cavour però guardò subito oltre: Mantova e
il Triveneto rimanevano dominio asburgico e nulla lasciava presagire un loro
possibile riscatto dallo straniero. Era questione del “concerto delle grandi
potenze”. Gli importava invece risolvere la “questione di Roma”, che non era
“questione romana” ma “italiana”: la pacificazione tra cattolici e liberali,
tra unità politica nazionale e armonia delle coscienze. Pronunciò in Parlamento
i discorsi ripubblicati da Corrado Sforza Fogliani nel 150° di Porta Pia
(collana “Libro Aperto”, diretta da Antonio Patuelli). Dichiarò che in Roma non
bisognava entrare con i cannoni, con la violenza; ed esortò il pontefice a
consentire la pacifica unione della Città Eterna all'Italia. Il 27 marzo il
Parlamento acclamò Roma capitale d'Italia. Mezzo secolo dopo la festa
dell'unità nazionale venne celebrata quel giorno. L'appello di Cavour però
cadde nel vuoto, benché migliaia di teologi, presbiteri, ecclesiastici di vari
ordini e congregazioni, compreso l'abate di Montecassino, si stessero
pronunciando per la conciliazione immediata tra Sacro Soglio e regno d'Italia.
Cavour non vide l'evoluzione e la conclusione
del différent Stato/Chiesa. Nel 1860 aveva affrontato alla Camera la
durissima polemica di Garibaldi contro la cessione dell'italica Nizza alla
Francia (passò senza difficoltà quella della francofona Savoia). Nel 1861
ancora una volta soffrì lo scontro con l'Eroe sulla sorte dell'“Esercito
Meridionale”, rivendicato dal Generale quale vero artefice dell'unione del
Mezzogiorno alla corona. Colto da violentissima febbre malarica, stremato da
mortiferi salassi (“medice, cura te ipsum!...”), in pochi giorni Cavour
venne accolto dalla Grande Visitatrice. Morì il 6 giugno 1861. Fra' Giacomo da
Poirino, come da lui desiderato, in articulo mortis gli
amministrò il viatico. Liberale (e, si dice, anche un po' libertino) morì
cattolico. Convocato ad nutum da Pio IX e convinto di aver
assolto alla propria missione sacerdotale, il francescano fu severamente
punito: sorte analoga a quella poi toccata a don Valerio Anzino che a sua
volta, nei modi narrati da Aldo G. Ricci, impartì il viatico allo scomunicato
Vittorio Emanuele II, morto il 9 gennaio 1878.
Cavour è dunque un gigante della storia
italiana ed europea. Non solo dei confini doganali, politici, monetari...: dei
“metalli”. È un gigante dello Spirito. Perciò merita di essere rievocato col
rispetto che si deve all'Assoluto. Ed è doveroso associarne il nome a quello
dei grandi continuatori italo-europei del liberalismo: sino a Giolitti e a
Luigi Einaudi, antesignani dell'Italia odierna, come aveva intuito e propugnato
Valerio Zanone. Parlare di “visione” cavouriana presuppone di aver veduto
almeno da lontano le copertine dei volumi del suo Epistolario, dei suoi Scritti
economici e politici e
dei suoi Discorsi. Non mancheranno occasioni di rievocarlo nel corso di
questo ancora fortunatamente lungo 2021.
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