NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

martedì 1 giugno 2021

2 giugno 1946: 75 anni dopo facciamo i conti con una Repubblica nata male e cresciuta peggio…

Al Secolo d'Italia hanno deciso di stupirci. Abituati a leggere cose sempre comprese tra il repubblichino ed il repubblicano è qualche tempo che assistiamo ad una correzione di rotta con l'onesto riconoscimento, un po' tardivo in verità, del ruolo insostituibile della Casa Savoia nel processo di unificazione e di costruzione dello Stato Unitario.
Addirittura ora si fa cenno ai brogli che portarono alla repubblica, repubblica per la quale votarono anche ex repubblichini convinti di vendicare chissà cosa.
Bene, meglio tardi che mai.



La Storia – è risaputo – non si fa con i se e con i ma. Nel gioco affascinante delle possibilità immaginarie,  un’Italia monarchica, alla luce, il 2 giugno 1946, di un diverso risultato del referendum, appare però un’ipotesi tutt’altro che impraticabile.

Casa Savoia aveva avuto la funzione di centro ordinatore

In fondo Casa Savoia aveva retto l’Italia per ben ottantacinque anni, passando indenne attraverso la complicata fase postunitaria, il brigantaggio, la Questione Romana, la stagione del trasformismo, la prima rivoluzione industriale, la Grande Guerra, la nascita dei partiti di massa, il Ventennio fascista e la sua fine, la guerra civile e la guerra perduta. In questo lungo dispiegarsi di avvenimenti la monarchia resse dignitosamente le sorti del Paese (almeno fino al 1943),  sulla base dello  Statuto Albertino, una sorta di Costituzione “flessibile”, risalente al  marzo 1848, e forte del continuismo  dinastico. Fu tutt’altro che un’anomalia, in un’Europa a stragrande maggioranza monarchica, confermandosi, nel mutare dei tempi,  come “centro ordinatore”.

Non poche ombre sul passaggio alla Repubblica

Il passaggio alla Repubblica avvenne con non poche ombre. A cominciare dall’esclusione  dal voto di  larghe porzioni del territorio nazionale (da Bolzano a Gorizia, Trieste, Pola, Fiume e Zara, soggette ai governi militari alleato o jugoslavo) e di quanti si trovavano fuori dal territorio nazionale, in quanto internati nei campi di prigionia all’estero.

Dal referendum uscì un Paese spaccato a metà

Gli stessi risultati elettorali, proclamati a più di una settimana dal voto, furono segnati dall’ombra dei brogli e da significativi ritardi (i dati definitivi vennero comunicati dalla Cassazione ben tredici giorni dopo la comunicazione dei primi risultati provvisori da parte del ministro dell’Interno).

Ad urne aperte e a scrutinio avvenuto quello che uscì fuori dal referendum fu un Paese spaccato a metà, con un Mezzogiorno saldamente monarchico (in Campania la Repubblica ottenne appena il 23,7% dei voti) e con non pochi dubbi sulla correttezza del risultato.

Le schede bianche e nulle scomparvero

L’Italia “divisa” (tra Settentrione e Meridione, tra aree sviluppate e cronici ritardi, ceti privilegiati e disuguaglianze sociali) non trova pace con il  referendum del  giugno 1946. E non solo per i numeri del referendum, oggettivamente risicati e perfino “parziali”, posto che molte sezioni mancarono all’appello, le schede bianche e nulle scomparvero e non ci fu possibilità di verifiche seguenti. Furono  gli assetti istituzionali, posti a fondamento del neonato sistema costituzionale, che condizionarono le sorti nazionali, manifestando limiti congeniti ed evidenti debolezze strutturali.

L’Italia fu da subito subalterna in Europa

Mancò, alla base della neonata Repubblica,  un centro ordinatore ed equilibratore, in precedenza rappresentato dalla Monarchia, malamente surrogato dalla partitocrazia, con i suoi particolarismi, con i suoi piccoli e grandi giochi di potere, con la sua subalternità alle potenze internazionali (ad Ovest gli Stati Uniti ad Est l’Unione Sovietica), con la corruzione diffusa.

Il provocatorio pamphlet di Prezzolini

L’Italia era “finita”, ancor prima di nascere, per richiamare un provocatorio pamphlet di Giuseppe Prezzolini (L’Italia finisce, ecco quel che resta) edito, nel 1948, negli Stati Uniti. A fallire – per dirla con Prezzolini –  il tentativo di formare uno Stato nazionale, con un’Italia destinata a diventare una provincia dell’Europa, mentre venivano meno le aspettative risorgimentali di quel “primato” a cui speravano “Mazzini e Cavour, De Sanctis e Garibaldi, Crispi e Oriani; per non parlare del padre del Risorgimento, Gioberti”.

Fallì l’idea risorgimentale di una grande rigenerazione nazionale

L’antifascismo ed il “mito resistenziale” non riuscirono  a surrogare queste aspettative, l’idea di una grande rigenerazione nazionale, confermandosi esperienze di minoranza. Con un’Italia che, oggi come settantacinque anni fa, appare segnata da  una profonda crisi d’identità, “ondeggiando – come ebbe a scrivere Giano Accame (Una storia della Repubblica) – tra un modello capitalista fortemente contestato e un modello socialista che non è mai stato seriamente delineato giacché le esperienze dell’Europa orientale non costituirono nemmeno per il Pci un preciso punto di riferimento; tra una vocazione europea, che fu particolarmente profilata negli anni ’50, e lo spettro di una ricaduta verso il basso Mediterraneo e il Terzo Mondo, che è stato l’incubo degli anni ‘70”.

La politica alta è mancata alla Repubblica nata 75 anni fa

Certo, dal 1946, di strada, in termini economici e sociali ne è stata fatta. Ma non solo per l’Italia e certamente non grazie alla lungimiranza delle classi dirigenti repubblicane, succedutesi negli anni, le quali, al di là delle diverse appartenenze partitiche, sono parse accomunate da un’identica debolezza di strategie, di visioni lunghe, di culture fondanti. Di una Politica alta, in definitiva, che sembra essere mancata  alla Repubblica nata settantacinque anni fa e che continua a mancare oggi. Sempre la stessa, pur nel trascorrere degli anni, sempre uguale a se stessa. Nata male e cresciuta peggio, ma per la quale vale ancora la pena  trovare le ragioni di un impegno autenticamente riformatore, se non rivoluzionario. In fondo “Right or wrong, my country“, senza retorica però, consapevoli delle sue congenite gracilità.

 

 Fonte : Secolo d'Italia

 

 

 



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