In questi giorni assistiamo a
solenni celebrazioni della Repubblica, convegni, mostre fotografiche, e lo
stesso capo dello Stato ha parlato della festa della Repubblica invitando gli
italiani a riaffermarne i valori. Ma quali sono questi valori? E soprattutto,
come nacque questa repubblica, quell’ormai lontano 2 giugno di 70 anni fa? Non
è corretto, verso i nostri giovani, nascondere loro la metà della storia. I
nostri governanti, ormai tutti repubblicani da tempo, sanno benissimo come
nacque la repubblica e in quale clima di guerra civile si svolse il referendum,
e con quali garanzie di trasparenza. Anzi, non era un clima di guerra civile,
era ancora guerra civile. Nel nord Italia le bande partigiane comuniste
continuavano ad assassinare chi non la pensava come loro: preti, fascisti,
possidenti, cattolici, e anche semplici nemici personali. La guerra non era
finita da un anno, e ancora si regolavano i conti con coloro che si pensava
avessero potuto essere di ostacolo alla dittatura comunista che si pensava di
installare in Italia quanto prima, con la complicità, l’appoggio, le armi e i
soldi dell’Unione Sovietica.
2 giugno 1946: la vittoria
repubblicana non era certa
Sconfitto il fascismo, ora
bisognava cacciare la monarchia, e non sembrava facile farlo, in quanto la
maggioranza degli italiani era attaccata alla vecchia istituzione. Si pensò,
per far apparire le cose in regola, di indire un referendum in cui il popolo
italiano potesse esprimersi. Ma la vittoria non era certa, tutt’altro. Per cui,
con la regia degli occupanti americani, e d’intesa con il Cln (Comitato di
Liberazione nazionale), si stabilirono le regole: si privavano del diritto di
voto gli abitanti della Venezia Giulia, della Dalmazia, dell’Alto Adige, della
Libia; inoltre non poterono votare tutti i prigionieri, gli sfollati, gli
epurati, e tutti i loro familiari. In tutto il nord le bande armate non
permisero un solo comizio elettorale dei monarchici, e allora esporsi e fare
propaganda equivaleva a morte certa. Le settimane precedenti alla consultazioni
si svolsero tra tensioni e incidenti gravissimi: il ministro dell’Interno, il
socialista Giuseppe Romita, trovandosi a corto di uomini per le forze
dell’ordine, pensò di inquadrare nella polizia ausiliari provenienti dalle
bande partigiane comuniste del nord, i quali trattavano la popolazione,
soprattutto quella del Sud, come un nemico. Furono soprannominate dal popolo
“le guardie rosse di Romita”.
2 giugno 1946: Nenni disse “o
repubblica o il caos”
I nuovi vincitori insomma, con
l’ombrello americano, avevano deciso di istituire la repubblica a qualsiasi
costo. Lo disse chiaramente il leader socialista Pietro Nenni con la sua frase
“O la repubblica o il caos”. Lo disse il ministro comunista delle Finanze
Scoccimarro in un comizio, che in caso di vittoria della monarchia a referendum
i comunisti avrebbero scatenato la lotta armata; e tutto mentre Pertini
chiedeva la fucilazione di re Umberto di Savoia. Per evitare un’altra guerra
civile molti italiani pensarono di votare la repubblica. Ma ancora poteva non
bastare: non si disse quanti erano gli aventi diritto al voto, le schede uscite
dalle urne sembra fossero un po’ troppe, molti ricevettero più di un
certificato elettorale, defunti compresi. Ovviamente, in uno Stato uscito da
una guerra devastante e flagellato da una guerra civile strisciante, non si
poteva pretendere uno svolgimento corretto, anche se vi fosse stata buonafede.
Nessuno sapeva bene cosa fare, le schede furono inviate a Roma con mezzi di
fortuna, chiunque poteva toccarle, chiunque poteva immetterne di nuove, non
c’era controllo, anche perché non ci poteva essere. Dopo il referendum, le cose
andarono ancora peggio: man mano che le istituzioni dichiaravano la vittoria
della repubblica, molte città insorsero, conscie della scarsa regolarità delle
consultazioni, come Palermo, Taranto, Bai, Messina, ma soprattutto Napoli, dove
per giorni centinaia di migliaia di persone dimostrarono in favore della
monarchia. Tutte queste proteste furono soffocate nel sangue, e in particolar
modo a Napoli, dove gli ausiliari mitragliarono la folla assassinando una
dozzina di persone, perlopiù giovanissimi. L’episodio è noto come la strage di
via Medina, ma non la si insegna a scuola né ci fu un processo né c’è una
lapide che ricordi le vittime. Era l’11 giugno 1946, e i feriti furono oltre
cento. Pochi giorni prima uno sconosciuto aveva tirato una bomba a mano contro
un corteo di monarchici, causando un morto e numerosi feriti. Perché la
popolazione era insorta? Perché si erano sparse notizie, e forse qualcuno le
aveva anche verificate, relative ai brogli di cui si parlerà per gli anni a
venire, prima che la cortina del silenzio calasse anche su questa vicenda, come
era calata per le foibe, per i crimini dei partigiani, per l’esodo degli
istriani. Su 35mila sezioni elettorali furono presentati 22mila ricorsi, tutti
respinti in pochi giorni. Lo spoglio delle schede pervenute avventurosamente
nella capitale si svolse nella sala della Lupa a Montecitorio alla presenza
della corte di Cassazione e degli ufficiali angloamericani occupanti. L’Italia
risultò ancora una volta divisa in due: il centronord per la repubblica, il sud
per la monarchia, tanto che dopo il referendum ci fu chi propose di separare il
sud dal Paese per creare un regno con a capo re Umberto.
2 giugno 1946: il senso di
responsabilità di Re Umberto
E mentre la proclamazione
ufficiale era attesa per il 18 giugno, e mentre la corte di Cassazione stava
ancora esaminando i ricorsi, il governo la notte del 12 giugno, a scrutinio non
ultimato, trasferì i poteri del capo dello Stato – che fino allora era il re –
al presidente del consiglio in carica. Il giorno dopo, il 13, re Umberto lasciò
per sempre l’Italia per andare in esilio in Portogallo. Lo fece per non far
precipitare in una nuova guerra civile la sua Patria, dimostrando un altissimo
senso di responsabilità e amore verso gli italiani. La Stampa di Torino titolò:
“Il governo sanziona la vittoria repubblicana”, mettendo in dubbio la
proclamazione stessa della repubblica. Perché neanche allora lo si era capito.
Poche ora prima di partire per il Portogallo, re Umberto in un proclama
denunciò l’illegalità commessa dal governo e partì dopo aver affidato la patria
agli italiani (e non ai suoi rappresentanti eletti). “Confido che la
Magistratura, le cui tradizioni di indipendenza e di libertà sono una delle
glorie d’Italia, potrà dire la sua libera parola; ma, non volendo opporre la
forza al sopruso, né rendermi complice dell’illegalità che il Governo ha
commesso, lascio il suolo del mio Paese, nella speranza di scongiurare agli
Italiani nuovi lutti e nuovi dolori. Compiendo questo sacrificio nel supremo
interesse della Patria, sento il dovere, come Italiano e come Re, di elevare la
mia protesta contro la violenza che si è compiuta; protesta nel nome della
Corona e di tutto il popolo, entro e fuori i confini, che aveva il diritto di
vedere il suo destino deciso nel rispetto della legge e in modo che venisse
dissipato ogni dubbio e ogni sospetto”.
2 giugno 1946: a scuola si
insegni tutta la storia
Come finì la storia? Che il 18
giugno la corte di Cassazione respinse tutti ricorsi e stabilì che per
“maggioranza degli elettori votanti” si dovesse invece intendere “la
maggioranza dei voti validi” e che quindi aveva vinto la repubblica. La vicenda
ha una coda, perché nel 1960 in un’intervista il presidente della suprema corte
quel 18 giugno, Giuseppe Pagano, disse che in quelle ore «l’angoscia del
governo di far dichiarare la repubblica era stata tale da indurre al colpo di
Stato prima che la Corte Suprema stabilisse realmente i risultati validi
definitivi». Secondo l’alto magistrato, tuttavia, non vi furono brogli. Tra gli
altri “gialli” di questa storia vi sono anche il fatto che Tito aveva pronte le
sue truppe per invadere l’Italia dalla Jugoslavia in caso della vittoria della
monarchia; si disse che l’allora segretario del Pci Togliatti intervenne presso
Mosca per ritardare il rientro delle decine di migliaia di prigionieri italiani
in Urss; i primi rapporti dei carabinieri, presenti nei seggi, sia al Vaticano
sia al governo, indicavano una netta vittoria della monarchia, posizione poi
invertitasi in poche ore; il numero degli elettori è sembrato poi superiore a
quello degli aventi diritto al voto, comprensibile nel disordine dovuto al
periodo bellico. Possibile anche che molti abbiano votato più volte con
documenti di identità falsi o appartenenti a defunti o dispersi. Lo stesso
Togliatti, infine, ministro della Giustizia, di fronte alle migliaia di
ricorsi, disse che probabilmente le schede non sarebbero potute essere
controllate perché alcune erano andate distrutte…
Meglio la monarchia della
repubblica? Certo non la monarchia italiana, meglio forse quella inglese. Però
almeno, che ai nostri figli sia raccontata anche l’altra metà della storia.
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