NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

sabato 1 maggio 2021

Discorso commemorativo dell'on. prof. Alfredo Covelli nel centenario della nascita di Re Vittorio Emanuele III - quarta parte

 


Nell'agosto del 1922, mentre l'Italia era in uno stato pre-insurrezionale, il centro-sinistra, cioè la prima alleanza di cattolici e socialisti, tentò di risolvere la situazione rovesciando il governo giolittiano di Facta. Aperta la crisi, il Re non riuscì a trovare né un Presidente del Consiglio, né una maggioranza parlamentare. Interpellò tutti i capi gruppo: il liberale Orlando, il socialista riformista Bonomi, il popolare Meda, il demo-liberale De Nava, persino il socialista Turati, poi di nuovo Orlando, e infine il presidente della Camera De Nicola. Giolitti, che era a Vichy a «passare le acque », non si fece « consultare »; ma scrisse al suo portavoce Olindo Malagodi, che non era possibile fare un governo senza i fascisti.

In definitiva, il Re dovette rimandare alla Camera lo stesso Facta, avendo mutato il solo ministro dell'interno col Prefetto Taddei, e la Camera approvò col palese intendimento che quello fosse un governo di transizione da durare al massimo fino all'ot­tobre, per dare tempo ai due grandi capi liberali, il Giolitti e il Salandra, di trattare con Mussolini. Ma alla fine dell'ottobre '22, l'Italia era praticamente «occupata» dalle milizie fasciste. Anzi, nel congresso di Napoli, Mussolini e il fascismo, che erano «repub­blicani», si dichiararano «tendenzialmente monarchici» e det­tero il via alla mobilitazione generale delle loro forze e alla marcia su Roma. Sulla minacciata e poi iniziata marcia su Roma il go­verno Facta si dimise per ordine di Salandra e di Giolitti. Nel medesimo tempo, il governo dimissionario proclamava lo «stato d'assedio» senza nemmeno consultare il Capo dello Stato.

Uno «stato d'assedio» proclamato da un governo dimissio­nario, che era in carica per l'ordinaria amministrazione, mentre il Paese era già insorto in armi e il governo stesso, la polizia, i prefetti, i questori, erano privi di qualsiasi effettivo potere, era peggio che un assurdo, una pericolosa provocazione. Infatti, a ben riflettere sullo strano ed irresponsabile provvedimento, si vede che esso si sarebbe risolto nel mettere nelle mani dell'eser­cito, e quindi del Re, la cancerosa situazione che tutti i gruppi parlamentari, ma soprattutto i liberali, i democratici, i radicali e i socialisti riformisti, avevano contribuito a determinare.

Ma Vittorio Emanuele esaminò la situazione con scrupolo e saggezza. Nella notte dello «stato d'assedio», egli aveva fatto consultare tutti gli alti gradi dell'esercito: i Generali Diaz, Badoglio, Pecori Giraldi, Caviglia, Giardino. Al quesito, se le Forze Armate, in una situazione di estrema emergenza, avrebbero ri­sposto al cento per cento, i generali furono d'accordo nel rispon­dere che «l'esercito avrebbe fatto come sempre tutto il suo dovere; ma che sarebbe stato bene non metterlo alla prova».

In conseguenza, il Re si rifiutò di firmare il decreto di «stato d'assedio». E la crisi venne risolta non da un governo Salandra con Mussolini, o Giolitti con Mussolini, ma da un go­verno Mussolini con liberali, democratici e popolari a «titolo personale ».

Del resto, la candidatura di Mussolini era stata indicata al Re tanto da Giolitti che da Salandra, che erano i capi riconosciuti della maggioranza parlamentare; e, malgrado il brutale «avrei potuto fare di questa aula sorda e grigia un bivacco di manipoli», quella stessa Camera che non aveva né voluto, né saputo difendere l'ordine e la legalità, votava la fiducia e dava i «pieni poteri» a Mussolini con 270 voti contro 90; il Senato, di cui facevano parte Croce, Albertini, Casati, Ruffini, votava i «pieni poteri all'una­nimità».

Si può dire che il determinante appoggio dello schieramento demoliberale non venne mai meno al governo Mussolini. Furono, infatti, i demoliberali e una certa aliquota degli stessi popolari, che resero possibile la famosa riforma elettorale detta del «listone». E nel «listone» entrarono, per rafforzare la posizione di Mussolini e dei Fascisti, ben centrotrentacinque liberali e demo­cratici tra i quali Orlando, Porzio, Salandra, Scialoia, Paratore, Fera, De Nava e Beneduce.

Dopo l'assassinio di Matteotti, mentre si faceva in Italia un pubblico processo alla violenza politica, e si individuavano man­danti ed esecutori, quattro liberali, e precisamente il senatore Casati, e i deputati Sarocchi, De Nava e di Scalea, entrarono nel ministero Mussolini, e li Senato approvò l'operato del Governo all'unanimità, meno venti voti. Spiccava nella maggioranza del­l'alta Assemblea, il voto di Benedetto Croce.

Il quale Benedetto Croce chiarì, in una intervista concessa al Giornale d'Italia il 9 luglio 1924, la sua posizione. Egli manifestava in quella circostanza il suo orrore per l'assassinio di Matteotti e per gli altri illegalismi, ma aggiungeva: « Voi sapete che io ho sempre sostenuto che il movimento fascistico fosse sterile di nuove istituzioni, incapace di plasmare, come i suoi pubblicisti vantavano, un nuovo tipo di Stato. Perciò esso non poteva, e non doveva essere altro, a mio parere che un ponte di passaggio per la restaurazione di un più severo regime liberale, nel quadro di uno Stato più forte. Doveva rinunciare ad inaugurare una nuova epoca storica, conforme ai suoi vanti; ma poteva ben soddisfarsi della non piccola gloria di ridare tono e vigore alla vita politica italiana, cogliendo per merito dei già combattenti, il miglior frutto della guerra.

«Non ci si poteva aspettare, concludeva Benedetto Croce, e neppure desiderare che il fascismo cadesse d'un tratto. Esso non è stato un infatuamento o un giochetto. Ha risposto a serii bisogni ed ha fatto molto di buono. Si avanzò col consenso, e tra gli applausi della Nazione. Sicché per una parte c'è, ora, nello spirito pubblico il desiderio di non disperdere i benefici del fascismo, e di non ritornare alla fiacchezza e alla inconcludenza che lo avevano preceduto; e dall'altro c'è il sentimento che gli interessi creati dal fascismo, anche quelli non lodevoli e non benefici, sono pure una realtà di fatto, e non si può dissiparla soffiandovi sopra».

Ma c'è di più, in fatto di collaborazione determinante dei vecchi liberali alla dittatura fascista. Il giorno prima della inter­vista di Croce al Giornale d'Italia, precisamente l'8 luglio 1924, il Consiglio dei Ministri, approvava alla unanimità un decreto legge recante il «regolamento» dell'editto di Carlo Alberto per la stampa: un regolamento che sopprimeva, praticamente la libertà di stampa. L'iniziativa di questo gravissimo atto, era stato del democratico Colonna di Cesarò, e il decreto portava la firma dei liberali Casati, Sarocchi. De Nava, e di Scalea.

Il 3 gennaio 1925, Mussolini si liberava, diremo così dei mi­nistri liberali. Il governo «ponte», che nei sogni senili dei liberali e dei democratici avrebbe dovuto restituire a Giolitti, a Salandra e a Croce, uno «Stato forte » debitamente ripulito a suon di man­ganello e a colpi di bombe a mano, diventava dittatura. E in quella data del 3 gennaio, solo in quella data, nasceva finalmente l'anti­fascismo di Croce e degli altri liberali e democratici.

Dopo la caduta del fascismo e dopo l'armistizio, in quello che venne amaramente denominato il «Regno del Sud» fu Benedetto Croce a mettersi alla testa dell'antifascismo e ad intentare un processo politico al Re, che era accusato di non essere interve­nuto nel 1922, e successivamente nel 1924 e 1940, per impedire al fascismo di prendere i poteri, a Mussolini di instaurare la dittatura e di partecipare alla guerra a fianco della Germania hitleriana. Insomma, si rimproveravano al Re quelle che erano le colpe, e in molti casi anche i crimini, dello schieramento libe­rale, democratico e socialista che aveva promosso, appoggiato ed armato, il fascismo fino alla dittatura, che in seguito venne po­tentemente rafforzata e consolidata dalla partecipazione cattolica: ricordiamo i Patti del Laterano, l'«Uomo della Provvidenza», la partecipazione attiva di tutto il clero, specialmente quello alto, al regime fascista.

Imputiamo pure gli avvenimenti politici del Regno del Sud alla catastrofe che obnubilò i cervelli, disperse la ragione e scon­volse le coscienze. Ma i partiti cosiddetti liberali, democratici e cattolici, che sono quelli stessi che oggi, a trent'anni di distanza, e in verità con poco successo, si sforzano di insegnare la demo­crazia nei suoi scopi e nei suoi istituti fondamentali, avevano una ben strana concezione della Monarchia Costituzionale. In pratica, secondo i grandi cervelli politici del nostro Paese, a cominciare da Croce, nella Monarchia Costituzionale, il Parla­mento aveva il privilegio e il monopolio di tutte le posizioni co­mode, di tutte le situazioni facili e fruttifere, mentre al Re costi­tuzionale sarebbero spettati unicamente gli oneri e i guai. Si chiedeva al Re, nei momenti in cui la classe dirigente era impo­tente o troppo vile per agire secondo i propri doveri, di inter­venire personalmente con un generale, magari un Pelloux, e con mitragliatrici e cannoni, per ristabilire la situazione a favore della minoranza incapace e codarda, salvo ad essere dopo vili­peso e condannato da quegli stessi che della sua iniziativa sareb­bero stati i beneficiari.

Ma Vittorio Emanuele III non ha mai inteso la regalità in questi termini grotteschi. Per capire a fondo, per valutare con esattezza il suo cinquantennale comportamento di Re costituzio­nale, bisogna por mente e riflettere sulla paura quasi ossessiva che egli aveva della «guerra civile».

 

La «guerra civile» sarebbe stata per l'Italia la fine del­l'unità, cioè la fine dell'Italia stessa perché il nostro Paese è «Italia», in quanto una. E, infatti, l'unità territoriale politica e morale era, insieme, origine e fondamento della Monarchia Costituzionale: il Re era soprattutto il rappresentante ed il cu­stode dell'unità della Patria. Anzi, questa unità, nel senso più concreto e profondo, era anche, specialmente nel nostro Paese, creatrice e condizionatrice di indipendenze e di libertà. Senza una forte unità, in Italia non è possibile avere né una effettiva indipendenza, né sicure libertà civili.

Questo il pensiero politico di Vittorio Emanuele III, questa la posizione che il Re costituzionale difese con ogni energia, in tutte le circostanze: dopo Monza, nel «Maggio radioso», a Peschiera, nel 1922, nel 1943, a Brindisi. Questa la eredità di Vittorio Emanuele III, che noi abbiamo apprezzato e conosciuto nell'amara esperienza di quest'ultimo quarto di secolo, che vede appunto l'unità e l'indipendenza della Patria in gravissimo e forse mortale pericolo.

In altri termini, la difesa dell'unità, retaggio prezioso del Risorgimento, la lotta ad oltranza contro i fantasmi della «guerra civile», noi possiamo riconoscerle, senza possibilità di errore, nel proclama che il «Re Giovane» emanò al Paese nel 1910, nella ricerca scrupolosa di una maggioranza, che egli fece nel « maggio radioso », nella cura che egli ebbe nella crisi dell'ottobre 1922 di consultare i capi dell'esercito, nella indicazione che egli dette ai capi della opposizione al fascismo nel 1924: a coloro che solleci­tavano, nei giorni di Matteotti, il suo intervento, il Re rispose che avessero piuttosto determinato la caduta del governo.

Nel più tragico 1940, quando le sorti dell'Italia erano sospese in bilico e Mussolini propendeva per la Germania, mentre il suo stesso partito era avverso al nazismo, Vittorio Emanuele III sol­lecitò, pur con la massima discrezione e correttezza, come testi­moniano i Diari di Galeazzo Ciano, gli scontenti della dittatura di Mussolini, a prendere delle posizioni politiche, a dichiararsi responsabilmente, a mettere in minoranza, se questo era il loro sentimento, l'assoluto potere del capo del governo.

Egli cercava, evidentemente una base politica responsabile nel Paese, perché in ogni caso, un Re costituzionale non può agire senza un fondamento popolare e maggioritario. E tuttavia, dei suoi sentimenti antitedeschi e antinazisti, il Re non fece nessun mistero.

Ma lo scrupolo unitario di Vittorio Emanuele III ebbe mag­giore risalto nel fatale 1943. A questo proposito, non abbiamo da far polemica, perché possiamo attenerci ai soli documenti che sono di pubblico dominio. Nel primo semestre del 1943, quando era chiaro a tutti che l'Italia aveva ormai perduto la guerra e che le forze militari del nostro Paese erano praticamente dissolte, e le nostre preziose città esposte inermi all'invasione e all'offesa aerea del nemico, si vennero formando due correnti di opinione, una fascista, l'altra antifascista. Ambedue queste correnti erano con­trarie al proseguimento della guerra. Ambedue queste correnti erano contrarie al proseguimento della guerra, all'alleanza col nazismo, alla dittatura di Mussolini, e chiedevano con angosciosa premura la fine del regime e la pace separata. Queste aspirazioni o propositi erano comuni non solo ai più numerosi ed autorevoli gerarchi del fascismo, agli esponenti più qualificati delle Forze Armate, ma anche a tutti i partiti politici clandestini, ai liberali, ai socialisti, ai comunisti, ai democratici del lavoro, ai democri­stiani che erano, in quel primo semestre del 1943, molto attivi e tenevano frequenti riunioni sotto la presidenza del Collare della Annunziata Ivanoe Bonomi.

Il coacervo di queste opposte tendenze era praticamente tutto il popolo italiano. Orbene, tutti o quasi tutti gli esponenti del popolo italiano, furono d'accordo nel luglio del 1943, nel rimettere nelle mani del Re ogni potere, ogni iniziativa, ogni responsabilità. Si riteneva che solo il Re potesse guidare il Paese in quella che appariva come l'ultima ora della sua storia. Si direbbe che l'unità degli Italiani, nel momento del supremo pericolo si fosse rifatta, quasi unanime, nel nome di Vittorio Emanuele III.

Questo fatto straordinario, che gli storici trascurano, o igno­rano volutamente, può essere riscontrato nei documenti: l'ordine del giorno, votato a grande maggioranza dal Gran Consiglio Fa­scista, invitava il Re a riprendere l'esercizio di tutte le sue pre­rogative, e cioè il comando effettivo delle Forze Armate e la facoltà di dichiarare la guerra e stipulare la pace, che gli ricono­sceva l'ormai tanto antico e tanto violato Statuto Albertino; l'al­tro documento e il passo che il Collare dell'Annunziato Ivanoe Bonomi fece presso il Re, in rappresentanza di tutti i partiti antifascisti nel quale si invocava l'iniziativa e l'intervento di Vittorio Emanuele per determinare la caduta del fascismo e salvare l'Ita­lia dalla catastrofe.

Vittorio Emanuele ascoltò attentamente la parola di Bonomi, e quando costui osservò, con tono di velata minaccia, che nella vicenda poteva andarci di mezzo il trono, rispose semplicemente e testualmente: la Nazione può sempre fare quel che vuole. Tutto questo si può leggere nelle Memorie di Ivanoe Bonomi.

Ma quando il Re ebbe nelle mani tutte le prove certe delle vere aspirazioni del popolo italiano, del generale bisogno di sal­vezza, di pace e di libertà, e soprattutto dell'appello universale che nel momento dell'estremo pericolo si rivolgeva a lui, e solo a lui, egli agì senza esitazioni, senza riserve, senza minimamente calcolare il suo rischio personale, senza recriminare in quel momento sulla ingratitudine e il tradimento che avevano portato l'Italia in quelle disperate condizioni, senza considerare il fatto, veramente tragico, di essere in quelle circostanze disperatamen­te solo.

Egli non aveva, per potere agire che alcuni vecchi e obbedienti generali senza comando, a parte Ambrosio, il ministro della Reale Casa Duca d'Acquarone, il comandante dei carabinieri Ge­nerale Cerica, e cento carabinieri nella Capitale. Mentre l'Italia, a parte le milizie fasciste, e specialmente Roma, era già salda­mente occupata dai tedeschi.

In quelle condizioni, solo un pazzo, un eroe o un santo, poteva pensare di cavar fuori l'Italia dal disastro. Ma, malgrado tutto, il miracolo, l'incredibile miracolo, venne compiuto.

Quando, prima del 25 luglio, il Re ordinò a Badoglio di preparare una lista di Ministri, e il Maresciallo gli portò i nomi di Marcello Soleri, di Luigi Einaudi, di Orlando e di altri giovani virgulti, Vittorio Emanuele desolato disse: Ma i sunt des réve



nantes,
(Ma sono dei fantasmi!). Il Marchese del Sabotino rispose: Anche noi Sire, siamo dei fantasmi.

Ma il Re non era un fantasma. In quel momento egli era il più giovane e vivente degli italiani disposti a combattere per la vita e la salvezza del popolo. In quella lotta disperata, Vittorio Emanuele III gettò tutta la sua esistenza, sacrificò ogni suo in­teresse di uomo e di Re. Vittorio Emanuele III gettò tutta la sua esistenza, sacrificò ogni suo in­teresse di uomo e di Re. Egli avrebbe potuto rispondere, alle sollecitazioni che gli venivano da ogni parte, con l'abdicazione,

che sarebbe stata per lui e per la Dinastia, una via di uscita logica e legittima. Invece, egli prese la croce, la pesantissima croce, e bevve il calice del sacrificio fino all'ultima goccia.

Riuscì a tirar fuori l'Italia dalla guerra; riuscì a sottrarsi ai nazisti, che catturando lui, in quel momento, avrebbero annullata la pace separata, come del resto fecero in Ungheria. Riuscì a Brindisi, con pochi, sfiduciati e non sempre fedeli collaboratori, a risalire la china, a riconquistare a poco a poco la autonomia e la sovranità. Riuscì a ricostituire delle Forze Armate combattenti che entrarono in linea a fianco degli alleati per contribuire alla liberazione del nostro Paese. Riuscì a resistere validamente ai partiti politici che volevano fare politica e operare trasformazioni nelle retrovie degli alleati, in istato di occupazione militare, men­tre l'unico compito che il Governo italiano legale doveva assol­vere in quel momento era la esecuzione scrupolosa dei patti di armistizio, che contenevano un formale impegno di liberazione dell'Italia: a patto che gli italiani avessero combattuto i tedeschi.

Per questo, egli conservò il suo potere di Re costituzionale fino all'ultima ora, impassibile innanzi ai tragici dolori privati che lo colpirono, — una figlia, la principessa Mafalda, morta in campo di concentramento nazista, un genero, Re Boris di Bulgaria, assassinato dai nazisti — imperturbabile innanzi alle ingiurie, alle calunnie, alle ingratitudini, ai tradimenti, alle umiliazioni. Tutto, egli soffrì per il suo popolo, per l'unità, per l'indipendenza, per la libertà del suo popolo.

Quando l'opera fu compiuta, e furono gettate le fondamenta della ricostruzione, Vittorio Emanuele III abdicò. E volle morire in Egitto, per condividere l'amara sorte dei suoi gloriosi soldati caduti ad El Alamein: l'ultimo grande atto di amore di un gran­de Re.

Dobbiamo trarre un insegnamento e un monito, in questo centenario, della vita e delle opere di Vittorio Emanuele III?

Certamente. E lo faremo non in chiave polemica, anche se così sembrerà, ma in una fredda registrazione dei fatti.

È un fatto, per esempio, che Vittorio Emanuele III è stato un Monarca costituzionale perfetto. Anzi, troppo perfetto, e que­sto «troppo» potrebbe essere inteso anche come critica ideale. Ma il Re, nella sua lunga vita, nella sua complessa opera, ha sem­pre custodito con estremo scrupolo, l'unità territoriale, morale e politica, e la indipendenza del nostro Paese. La sua persona e la sua Casa, si sono sempre identificate con l'unità e l'indipen­denza. Egli è stato sempre il Re degli Italiani, del popolo italiano, e non mai dei partiti politici. E per questo egli ha sempre ricer­cato una corrispondenza diretta col popolo, con la maggioranza concreta del popolo.

Ma il «troppo costituzionale», che ho testè pronunciato, suo­na viceversa, come condanna delle classi dirigenti del nostro Pae­se, che raramente hanno rispettato le regole di una Monarchica costituzionale, le regole di un corretto gioco democratico, che più frequentemente hanno tradito e il popolo e il Re costituzionale. Li hanno traditi, soprattutto ogni volta che sono fuggiti codar­damente innanzi alle loro responsabilità. Diremo, — e questo è un altro fatto, — che le classi dirigenti non meritavano, o non erano abbastanza mature per avere un Re come Vittorio Emanuele III.

Separandosi dal figlio, a Napoli, all'atto dell'abdicazione, Vit­torio Emanuele II disse: «posso aver sbagliato». Nessuno della classe dirigente italiana, della generazione del Re, non Croce, non Giolitti, non Salandra, ha mai avuto il coraggio civile di dire altrettanto.

È stato tanto facile e tanto comodo, per le classi dirigenti del nostro Paese, nell'ora dell'estremo pericolo, avere un Re efficiente a cui ricorrere, un Re capace di compiere quello che le classi dirigenti non avevano il coraggio fisico e morale di fare.

Le classi dirigenti italiane sono sempre le stesse; le stesse del '46, del '43, del '22, del '15, del '900. Socialisti, cattolici, libe­rali ... Se dovesse venire per il nostro Paese un'altra ora di «estremo pericolo», a chi ricorreranno i partiti italiani, che hanno una così lunga e consolidata tradizione di diserzione po­litica e di fuga dalle responsabilità?

Non daremo risposta a questa ovvia domanda, per rispetto al grande Re di cui celebriamo il centenario. Ma dobbiamo ri­cordare, a mo' di insegnamento e di monito per le giovani ge­nerazioni, che la figura di Vittorio Emanuele, custode della unità della Patria, deve essere evocata, oggi che l'unità e l'indipenden-.za della Patria corrono gravissimo pericolo, oggi che si sta dis­solvendo la forma concreta dell'unità, cioè lo Stato.

Il mondo e noi stessi, assistiamo da venticinque anni a quel­lo che ironicamente si chiama il «miracolo italiano». È un miracolo, infatti, essere partiti da zero non solo per ricostruire, ma per portare avanti il Paese fino a fargli raggiungere il settimo posto fra le prime dieci potenze industriali.

A chi attribuiremo il merito di questo «miracolo»? Alle classi dirigenti? Certamente no, e su questo tutti sono d'accordo. Lo attribuiremo alla forza vitale e all'unità del popolo italiano. E quando diciamo forza vitale e unità di questo popolo, diciamo Monarchia. Perché se gli italiani vivono e lavorano come popolo, lo devono ad un «miracolo» di Vittorio Emanuele III. I nemici d'Italia, che sono molti, dentro e fuori, non sono riusciti a di­struggere l'opera del Grande Re.

Uno scroscio prolungato di applausi e grida di evviva all'in­dirizzo della Casa Sabauda coronano il discorso dell'On. Covelli che era stato attentamente seguito dal folto pubblico che gremiva la Sala, e che in più momenti aveva espresso il proprio entusiasmo alle parole dell'oratore.

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