Nell'agosto del 1922,
mentre l'Italia era in uno stato pre-insurrezionale, il centro-sinistra, cioè
la prima alleanza di cattolici e socialisti, tentò di risolvere la situazione
rovesciando il governo giolittiano di Facta. Aperta la crisi, il Re non riuscì
a trovare né un Presidente del Consiglio, né una maggioranza parlamentare.
Interpellò tutti i capi gruppo: il liberale Orlando, il socialista riformista
Bonomi, il popolare Meda, il demo-liberale De Nava, persino il socialista
Turati, poi di nuovo Orlando, e infine il presidente della Camera De Nicola.
Giolitti, che era a Vichy a «passare le acque », non si fece « consultare »; ma
scrisse al suo portavoce Olindo Malagodi, che non era possibile fare un governo
senza i fascisti.
In definitiva, il Re
dovette rimandare alla Camera lo stesso Facta, avendo mutato il solo ministro
dell'interno col Prefetto Taddei, e la Camera approvò col palese intendimento
che quello fosse un governo di transizione da durare al massimo fino all'ottobre,
per dare tempo ai due grandi capi liberali, il Giolitti e il Salandra, di
trattare con Mussolini. Ma alla fine dell'ottobre '22, l'Italia era
praticamente «occupata» dalle milizie fasciste. Anzi, nel congresso di Napoli,
Mussolini e il fascismo, che erano «repubblicani», si dichiararano
«tendenzialmente monarchici» e dettero il via alla mobilitazione generale delle
loro forze e alla marcia su Roma. Sulla minacciata e poi iniziata marcia su
Roma il governo Facta si dimise per ordine di Salandra e di Giolitti. Nel
medesimo tempo, il governo dimissionario proclamava lo «stato d'assedio» senza
nemmeno consultare il Capo dello Stato.
Uno «stato d'assedio»
proclamato da un governo dimissionario, che era in carica per l'ordinaria
amministrazione, mentre il Paese era già insorto in armi e il governo stesso,
la polizia, i prefetti, i questori, erano privi di qualsiasi effettivo potere,
era peggio che un assurdo, una pericolosa provocazione. Infatti, a ben
riflettere sullo strano ed irresponsabile provvedimento, si vede che esso si
sarebbe risolto nel mettere nelle mani dell'esercito, e quindi del Re, la
cancerosa situazione che tutti i gruppi parlamentari, ma soprattutto i
liberali, i democratici, i radicali e i socialisti riformisti, avevano
contribuito a determinare.
Ma Vittorio Emanuele esaminò la situazione con scrupolo e
saggezza. Nella notte dello «stato d'assedio», egli aveva fatto consultare
tutti gli alti gradi dell'esercito: i Generali Diaz, Badoglio, Pecori Giraldi,
Caviglia, Giardino. Al quesito, se le Forze Armate, in una situazione di
estrema emergenza, avrebbero risposto al cento per cento, i generali furono d'accordo
nel rispondere che «l'esercito avrebbe fatto come sempre tutto il suo
dovere; ma che sarebbe stato bene non metterlo alla prova».
In conseguenza, il Re si rifiutò di firmare il decreto di
«stato d'assedio». E la crisi venne risolta non da un governo Salandra con
Mussolini, o Giolitti con Mussolini, ma da un governo Mussolini con liberali,
democratici e popolari a «titolo personale ».
Del resto, la candidatura di Mussolini era stata indicata
al Re tanto da Giolitti che da Salandra, che erano i capi riconosciuti della
maggioranza parlamentare; e, malgrado il brutale «avrei potuto fare di questa
aula sorda e grigia un bivacco di manipoli», quella stessa Camera che non
aveva né voluto, né saputo difendere l'ordine e la legalità, votava la fiducia
e dava i «pieni poteri» a Mussolini con 270 voti contro 90; il Senato, di cui
facevano parte Croce, Albertini, Casati, Ruffini, votava i «pieni poteri
all'unanimità».
Si può dire che il determinante appoggio dello
schieramento demoliberale non venne mai meno al governo Mussolini. Furono,
infatti, i demoliberali e una certa aliquota degli stessi popolari, che resero
possibile la famosa riforma elettorale detta del «listone». E nel «listone»
entrarono, per rafforzare la posizione di Mussolini e dei Fascisti, ben
centrotrentacinque liberali e democratici tra i quali Orlando, Porzio,
Salandra, Scialoia, Paratore, Fera, De Nava e Beneduce.
Dopo l'assassinio di Matteotti, mentre si faceva in
Italia un pubblico processo alla violenza politica, e si individuavano mandanti
ed esecutori, quattro liberali, e precisamente il senatore Casati, e i deputati
Sarocchi, De Nava e di Scalea, entrarono nel ministero Mussolini, e li Senato
approvò l'operato del Governo all'unanimità, meno venti voti. Spiccava nella
maggioranza dell'alta Assemblea, il voto di Benedetto Croce.
Il quale Benedetto Croce
chiarì, in una intervista concessa al Giornale d'Italia il 9 luglio
1924, la sua posizione. Egli manifestava in quella
circostanza il suo orrore per l'assassinio di Matteotti e per gli altri
illegalismi, ma aggiungeva: « Voi sapete che io ho sempre sostenuto che il
movimento fascistico fosse sterile di nuove istituzioni, incapace di plasmare,
come i suoi pubblicisti vantavano, un nuovo tipo di Stato. Perciò esso non
poteva, e non doveva essere altro, a mio parere che un ponte di passaggio per
la restaurazione di un più severo regime liberale, nel quadro di uno Stato più
forte. Doveva rinunciare ad inaugurare una nuova epoca storica, conforme ai
suoi vanti; ma poteva ben soddisfarsi della non piccola gloria di ridare tono e
vigore alla vita politica italiana, cogliendo per merito dei già combattenti,
il miglior frutto della guerra.
«Non ci si
poteva aspettare, concludeva Benedetto Croce, e neppure desiderare che il
fascismo cadesse d'un tratto. Esso non è stato un infatuamento o un giochetto.
Ha risposto a serii bisogni ed ha fatto molto di buono. Si avanzò col consenso,
e tra gli applausi della Nazione. Sicché per una parte c'è, ora, nello spirito
pubblico il desiderio di non disperdere i benefici del fascismo, e di non
ritornare alla fiacchezza e alla inconcludenza che lo avevano preceduto; e
dall'altro c'è il sentimento che gli interessi creati dal fascismo, anche
quelli non lodevoli e non benefici, sono pure una realtà di fatto, e non si può
dissiparla soffiandovi sopra».
Ma c'è di più,
in fatto di collaborazione determinante dei vecchi liberali alla dittatura
fascista. Il giorno prima della intervista di Croce al Giornale d'Italia, precisamente
l'8 luglio 1924, il Consiglio dei Ministri, approvava alla unanimità un decreto
legge recante il «regolamento» dell'editto di Carlo Alberto per la stampa: un
regolamento che sopprimeva, praticamente la libertà di stampa. L'iniziativa di
questo gravissimo atto, era stato del democratico Colonna di Cesarò, e il
decreto portava la firma dei liberali Casati, Sarocchi. De Nava, e di Scalea.
Il 3 gennaio
1925, Mussolini si liberava, diremo così dei ministri liberali. Il governo
«ponte», che nei sogni senili dei liberali e dei democratici avrebbe dovuto
restituire a Giolitti, a Salandra e a Croce, uno «Stato forte » debitamente
ripulito a suon di manganello e a colpi di bombe a mano, diventava dittatura.
E in quella data del 3 gennaio, solo in quella data, nasceva finalmente l'antifascismo
di Croce e degli altri liberali e democratici.
Dopo la caduta
del fascismo e dopo l'armistizio, in quello che venne amaramente denominato il
«Regno del Sud» fu Benedetto Croce a mettersi alla testa dell'antifascismo e ad
intentare un processo politico al Re, che era accusato di non essere intervenuto
nel 1922, e successivamente nel 1924 e 1940, per impedire al fascismo di
prendere i poteri, a Mussolini di instaurare la dittatura e di partecipare alla
guerra a fianco della Germania hitleriana. Insomma, si rimproveravano al Re
quelle che erano le colpe, e in molti casi anche i crimini, dello schieramento
liberale, democratico e socialista che aveva promosso, appoggiato ed armato,
il fascismo fino alla dittatura, che in seguito venne potentemente rafforzata
e consolidata dalla partecipazione cattolica: ricordiamo i Patti del Laterano,
l'«Uomo della Provvidenza», la partecipazione attiva di tutto il clero,
specialmente quello alto, al regime fascista.
Imputiamo pure
gli avvenimenti politici del Regno del Sud alla catastrofe che obnubilò i
cervelli, disperse la ragione e sconvolse le coscienze. Ma i partiti
cosiddetti liberali, democratici e cattolici, che sono quelli stessi che oggi,
a trent'anni di distanza, e in verità con poco successo, si sforzano di
insegnare la democrazia nei suoi scopi e nei suoi istituti fondamentali,
avevano una ben strana concezione della Monarchia Costituzionale. In pratica,
secondo i grandi cervelli politici del nostro Paese, a cominciare da Croce,
nella Monarchia Costituzionale, il Parlamento aveva il privilegio e il
monopolio di tutte le posizioni comode, di tutte le situazioni facili e
fruttifere, mentre al Re costituzionale sarebbero spettati unicamente gli
oneri e i guai. Si chiedeva al Re, nei momenti in cui la classe dirigente era
impotente o troppo vile per agire secondo i propri doveri, di intervenire
personalmente con un generale, magari un Pelloux, e con mitragliatrici e cannoni,
per ristabilire la situazione a favore della minoranza incapace e codarda,
salvo ad essere dopo vilipeso e condannato da quegli stessi che della sua
iniziativa sarebbero stati i beneficiari.
Ma Vittorio
Emanuele III non ha mai inteso la regalità in questi termini grotteschi. Per
capire a fondo, per valutare con esattezza il suo cinquantennale comportamento
di Re costituzionale, bisogna por mente e riflettere sulla paura quasi
ossessiva che egli aveva della «guerra civile».
La «guerra civile» sarebbe stata per l'Italia
la fine dell'unità, cioè la fine dell'Italia stessa perché il nostro Paese è «Italia»,
in quanto una. E, infatti, l'unità territoriale politica e morale era,
insieme, origine e fondamento della Monarchia Costituzionale: il Re era
soprattutto il rappresentante ed il custode dell'unità della Patria. Anzi,
questa unità, nel senso più concreto e profondo, era anche, specialmente nel
nostro Paese, creatrice e condizionatrice di indipendenze e di libertà. Senza
una forte unità, in Italia non è possibile avere né una effettiva indipendenza,
né sicure libertà civili.
Questo il pensiero politico di Vittorio
Emanuele III, questa la posizione che il Re costituzionale difese con ogni
energia, in tutte le circostanze: dopo Monza, nel «Maggio radioso», a
Peschiera, nel 1922, nel 1943, a Brindisi. Questa la eredità di Vittorio
Emanuele III, che noi abbiamo apprezzato e conosciuto nell'amara esperienza di
quest'ultimo quarto di secolo, che vede appunto l'unità e l'indipendenza della
Patria in gravissimo e forse mortale pericolo.
In altri termini, la
difesa dell'unità, retaggio prezioso del Risorgimento, la lotta ad oltranza
contro i fantasmi della «guerra civile», noi possiamo riconoscerle, senza
possibilità di errore, nel proclama che il «Re Giovane» emanò al Paese nel
1910, nella ricerca scrupolosa di una maggioranza, che egli fece nel « maggio
radioso », nella cura che egli ebbe nella crisi dell'ottobre 1922 di consultare
i capi dell'esercito, nella indicazione che egli dette ai capi della
opposizione al fascismo nel 1924: a coloro che sollecitavano, nei giorni di
Matteotti, il suo intervento, il Re rispose che avessero piuttosto determinato
la caduta del governo.
Nel più tragico 1940,
quando le sorti dell'Italia erano sospese in bilico e Mussolini propendeva per
la Germania, mentre il suo stesso partito era avverso al nazismo, Vittorio
Emanuele III sollecitò, pur con la massima discrezione e correttezza, come
testimoniano i Diari di Galeazzo Ciano, gli scontenti della dittatura
di Mussolini, a prendere delle posizioni politiche, a dichiararsi
responsabilmente, a mettere in minoranza, se questo era il loro sentimento,
l'assoluto potere del capo del governo.
Egli cercava,
evidentemente una base politica responsabile nel Paese, perché in ogni caso, un
Re costituzionale non può agire senza un fondamento popolare e maggioritario. E
tuttavia, dei suoi sentimenti antitedeschi e antinazisti, il Re non fece
nessun mistero.
Ma lo scrupolo unitario
di Vittorio Emanuele III ebbe maggiore risalto nel fatale 1943. A questo
proposito, non abbiamo da far polemica, perché possiamo attenerci ai soli
documenti che sono di pubblico dominio. Nel primo semestre del 1943, quando era
chiaro a tutti che l'Italia aveva ormai perduto la guerra e che le forze
militari del nostro Paese erano praticamente dissolte, e le nostre preziose
città esposte inermi all'invasione e all'offesa aerea del nemico, si vennero
formando due correnti di opinione, una fascista, l'altra antifascista. Ambedue
queste correnti erano contrarie al proseguimento della guerra. Ambedue queste
correnti erano contrarie al proseguimento della guerra, all'alleanza col
nazismo, alla dittatura di Mussolini, e chiedevano con angosciosa premura la
fine del regime e la pace separata. Queste aspirazioni o propositi erano comuni
non solo ai più numerosi ed autorevoli gerarchi del fascismo, agli esponenti
più qualificati delle Forze Armate, ma anche a tutti i partiti politici
clandestini, ai liberali, ai socialisti, ai comunisti, ai democratici del
lavoro, ai democristiani che erano, in quel primo semestre del 1943, molto
attivi e tenevano frequenti riunioni sotto la presidenza del Collare della
Annunziata Ivanoe Bonomi.
Il coacervo di queste
opposte tendenze era praticamente tutto il popolo italiano. Orbene, tutti o
quasi tutti gli esponenti del popolo italiano, furono d'accordo nel luglio del
1943, nel rimettere nelle mani del Re ogni potere, ogni iniziativa, ogni
responsabilità. Si riteneva che solo il Re potesse guidare il Paese in quella che
appariva come l'ultima ora della sua storia. Si direbbe che l'unità degli
Italiani, nel momento del supremo pericolo si fosse rifatta, quasi unanime, nel
nome di Vittorio Emanuele III.
Questo fatto straordinario, che gli storici
trascurano, o ignorano volutamente, può essere riscontrato nei documenti:
l'ordine del giorno, votato a grande maggioranza dal Gran Consiglio Fascista,
invitava il Re a riprendere l'esercizio di tutte le sue prerogative, e cioè il
comando effettivo delle Forze Armate e la facoltà di dichiarare la guerra e
stipulare la pace, che gli riconosceva l'ormai tanto antico e tanto violato
Statuto Albertino; l'altro documento e il passo che il Collare dell'Annunziato
Ivanoe Bonomi fece presso il Re, in rappresentanza di tutti i partiti antifascisti nel quale si invocava l'iniziativa e
l'intervento di Vittorio Emanuele per determinare la caduta del fascismo e
salvare l'Italia dalla catastrofe.
Vittorio
Emanuele ascoltò attentamente la parola di Bonomi, e quando costui osservò, con
tono di velata minaccia, che nella vicenda poteva andarci di mezzo il trono,
rispose semplicemente e testualmente: la Nazione può sempre fare quel che
vuole. Tutto questo si può leggere nelle Memorie di Ivanoe Bonomi.
Ma quando il Re ebbe nelle mani
tutte le prove certe delle vere aspirazioni del popolo italiano, del generale
bisogno di salvezza, di pace e di libertà, e soprattutto dell'appello
universale che nel momento dell'estremo pericolo si rivolgeva a lui, e solo a
lui, egli agì senza esitazioni, senza riserve, senza minimamente calcolare il
suo rischio personale, senza recriminare in quel momento sulla ingratitudine e
il tradimento che avevano portato l'Italia in quelle disperate condizioni,
senza considerare il fatto, veramente tragico, di essere in quelle circostanze
disperatamente solo.
Egli non aveva, per potere
agire che alcuni vecchi e obbedienti generali senza comando, a parte Ambrosio,
il ministro della Reale Casa Duca d'Acquarone, il comandante dei carabinieri Generale
Cerica, e cento carabinieri nella Capitale. Mentre l'Italia, a parte le milizie
fasciste, e specialmente Roma, era già saldamente occupata dai tedeschi.
In quelle condizioni, solo un
pazzo, un eroe o un santo, poteva pensare di cavar fuori l'Italia dal disastro.
Ma, malgrado tutto, il miracolo, l'incredibile miracolo, venne compiuto.
Quando, prima del 25 luglio, il Re ordinò a Badoglio di preparare una lista di Ministri, e il Maresciallo gli portò i nomi di Marcello Soleri, di Luigi Einaudi, di Orlando e di altri giovani virgulti, Vittorio Emanuele desolato disse: Ma i sunt des réve
nantes, (Ma sono dei fantasmi!). Il Marchese del Sabotino rispose: Anche noi Sire, siamo dei fantasmi.
Ma il Re non era un fantasma. In quel momento egli era il più
giovane e vivente degli italiani disposti a combattere per la vita e la
salvezza del popolo. In quella lotta disperata, Vittorio Emanuele III gettò
tutta la sua esistenza, sacrificò ogni suo interesse di uomo e di Re. Vittorio
Emanuele III gettò tutta la sua esistenza, sacrificò ogni suo interesse di
uomo e di Re. Egli avrebbe potuto rispondere, alle sollecitazioni che gli
venivano da ogni parte, con l'abdicazione,
che sarebbe stata per lui e per la Dinastia, una via di uscita
logica e legittima. Invece, egli prese la croce, la pesantissima croce, e bevve
il calice del sacrificio fino all'ultima goccia.
Riuscì a tirar fuori l'Italia
dalla guerra; riuscì a sottrarsi ai nazisti, che catturando lui, in quel
momento, avrebbero annullata la pace separata, come del resto fecero in
Ungheria. Riuscì a Brindisi, con pochi, sfiduciati e non sempre fedeli
collaboratori, a risalire la china, a riconquistare a poco a poco la autonomia
e la sovranità. Riuscì a ricostituire delle Forze Armate combattenti che
entrarono in linea a fianco degli alleati per contribuire alla liberazione del
nostro Paese. Riuscì a resistere validamente ai partiti politici che volevano
fare politica e operare trasformazioni nelle retrovie degli alleati, in istato
di occupazione militare, mentre l'unico compito che il Governo italiano legale
doveva assolvere in quel momento era la esecuzione scrupolosa dei patti di
armistizio, che contenevano un formale impegno di liberazione dell'Italia: a
patto che gli italiani avessero combattuto i tedeschi.
Per questo, egli conservò il suo
potere di Re costituzionale fino all'ultima ora, impassibile innanzi ai tragici
dolori privati che lo colpirono, — una figlia, la principessa Mafalda, morta in
campo di concentramento nazista, un genero, Re Boris di Bulgaria, assassinato
dai nazisti — imperturbabile innanzi alle ingiurie, alle calunnie, alle
ingratitudini, ai tradimenti, alle umiliazioni. Tutto, egli soffrì per il suo
popolo, per l'unità, per l'indipendenza, per la libertà del suo popolo.
Quando
l'opera fu compiuta, e furono gettate le fondamenta della ricostruzione,
Vittorio Emanuele III abdicò. E volle morire in Egitto, per condividere l'amara
sorte dei suoi gloriosi soldati caduti ad El Alamein: l'ultimo grande atto di
amore di un grande Re.
Dobbiamo trarre un insegnamento e
un monito, in questo centenario, della vita e delle opere di Vittorio Emanuele
III?
Certamente. E lo faremo non
in chiave polemica, anche se così sembrerà, ma in una fredda registrazione dei
fatti.
È un fatto, per esempio, che
Vittorio Emanuele III è stato un Monarca costituzionale perfetto. Anzi, troppo
perfetto, e questo «troppo» potrebbe essere inteso anche come critica ideale.
Ma il Re, nella sua lunga vita, nella sua complessa opera, ha sempre custodito
con estremo scrupolo, l'unità territoriale, morale e politica,
e la indipendenza del nostro Paese. La sua persona e la sua Casa, si sono
sempre identificate con l'unità e l'indipendenza. Egli è stato sempre il Re
degli Italiani, del popolo italiano, e non mai dei partiti politici. E per
questo egli ha sempre ricercato una corrispondenza diretta col popolo, con la
maggioranza concreta del popolo.
Ma il «troppo
costituzionale», che ho testè pronunciato, suona viceversa, come condanna
delle classi dirigenti del nostro Paese, che raramente hanno rispettato le
regole di una Monarchica costituzionale, le regole di un corretto gioco
democratico, che più frequentemente hanno tradito e il popolo e il Re
costituzionale. Li hanno traditi, soprattutto ogni volta che sono fuggiti codardamente
innanzi alle loro responsabilità. Diremo, — e questo è un altro fatto, — che le
classi dirigenti non meritavano, o non erano abbastanza mature per avere un Re
come Vittorio Emanuele III.
Separandosi dal figlio, a Napoli, all'atto
dell'abdicazione, Vittorio Emanuele II disse: «posso aver sbagliato». Nessuno
della classe dirigente italiana, della generazione del Re, non Croce, non
Giolitti, non Salandra, ha mai avuto il coraggio civile di dire altrettanto.
È stato tanto facile e
tanto comodo, per le classi dirigenti del nostro Paese, nell'ora dell'estremo
pericolo, avere un Re efficiente a cui ricorrere, un Re capace di compiere
quello che le classi dirigenti non avevano il coraggio fisico e morale di fare.
Le classi dirigenti italiane sono sempre le
stesse; le stesse del '46, del '43, del '22, del '15, del '900. Socialisti,
cattolici, liberali ... Se dovesse venire per il nostro Paese un'altra ora di
«estremo pericolo», a chi ricorreranno i partiti italiani, che hanno una così
lunga e consolidata tradizione di diserzione politica e di fuga dalle
responsabilità?
Non daremo risposta a questa ovvia domanda, per
rispetto al grande Re di cui celebriamo il centenario. Ma dobbiamo ricordare,
a mo' di insegnamento e di monito per le giovani generazioni, che la figura di
Vittorio Emanuele, custode della unità della Patria, deve essere evocata, oggi
che l'unità e l'indipenden-.za della Patria corrono gravissimo pericolo, oggi
che si sta dissolvendo la forma concreta dell'unità, cioè lo Stato.
Il mondo e noi stessi, assistiamo da
venticinque anni a quello che ironicamente si chiama il «miracolo italiano». È
un miracolo, infatti, essere partiti da zero non solo per ricostruire, ma per
portare avanti il Paese fino a fargli raggiungere il settimo posto fra le prime
dieci potenze industriali.
A
chi attribuiremo il merito di questo «miracolo»? Alle classi dirigenti?
Certamente no, e su questo tutti sono d'accordo. Lo attribuiremo alla forza
vitale e all'unità del popolo italiano. E quando diciamo forza vitale e unità
di questo popolo, diciamo Monarchia. Perché se gli italiani vivono e lavorano
come popolo, lo devono ad un «miracolo» di Vittorio Emanuele III. I nemici
d'Italia, che sono molti, dentro e fuori, non sono riusciti a distruggere
l'opera del Grande Re.
Uno
scroscio prolungato di applausi e grida di evviva all'indirizzo della Casa
Sabauda coronano il discorso dell'On. Covelli che era stato attentamente
seguito dal folto pubblico che gremiva la Sala, e che in più momenti aveva
espresso il proprio entusiasmo alle parole dell'oratore.
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