di Aldo A. Mola
Le cure di Arcuri: il fallimento della
programmazione
Un punto
fermo della svolta in corso è che essa è “politica” nel senso alto e forte del
termine. Comunque proceda e si sviluppi, è nata dalla decisione meritoria di
Matteo Renzi di uscire dal governo Conte-bis per dissenso sulla sua condotta,
del tutto insoddisfacente a fronte delle urgenze del Paese, poi ricordate dal
presidente della Repubblica Sergio Mattarella: la sanitaria, l'economica e la
sociale, ma mai affrontate con la tempestività e la risolutezza necessarie.
Le vere
e drammatiche ripercussioni economiche e sociali nel periodo medio-lungo della
pandemia sono ancor tutte da vagliare, mentre ristagna l'elaborazione del benedetto
“piano” per arginarle e invertire la rotta: quel “progetto” che il governo
Conte-Gualtieri non è giunto a proporre, così mostrando la sua inadeguatezza
programmatica e quindi “politica”. Le si capirà meglio quando, prima o poi, si
passerà dalle misure tampone (protrazione della cassa integrazione e divieto di
licenziamenti) alla normalizzazione del rapporto tra produzione e mercato in
tutte le loro componenti interne e internazionali.
Durante
le guerre gli Stati si sono sempre indebitati fuori misura e senza controlli.
L'Italia lo ha fatto, rovinosamente, nel 1914-1918; e nuovamente nel 1940-1946:
dieci anni che pesano per cento. Poi, appunto, è sempre arrivata l'ora della
“resa dei conti. E' quanto l'Italia deve aspettarsi al termine di un anno
durante il quale il governo ha estorto al Parlamento “scostamenti di bilancio”
enormi ma di modestissima efficacia quale volano per la ripresa, trangugiati da
tanti settori solitamente vigili nel timore di essere tacciati di “lesa patria”.
Senza giri di parole e chiamando le cose come sono, col pretesto di
fronteggiare l'“emergenza” il “Conte II” ha indebitato i cittadini presenti e
futuri, recidendo i garretti di qualsiasi “ripresa” ventura. Non ha affatto
“ristorato” quanti sono stati impediti di svolgere la loro normale attività
d'impresa economica, ha soffocato il commercio e i consumi, ha impoverito il
gettito dell'imposizione corrente (e quindi le sue stesse risorse immediate e
venture) e ha lasciato briglia sciolta a “Potentati di spesa” del tutto fuori
controllo, a cominciare dal Commissario Domenico Arcuri che si è prodotto in
iniziative incongruenti, dai banchi scolastici a rotelle (il cui uso è
rifiutato dai loro destinatari) ai padiglioni a primula dal malaugurate colore
di sangue rappreso, anziché procedere celermente alla vaccinazione di massa:
operazione dinnanzi alla quale ha mostrato la stessa reattività esibita nella
fase pandemica iniziale quando mancarono mascherine, camici e tamponi.
Il
risultato della “non politica” del governo uscente è nell'eredità materiale che
esso scarica su quello entrante. Se tutto fila liscio ad aprile risulterà
vaccinato poco più del 10% degli italiani: una quota lontanissima dal minimo
indispensabile per invertire la rotta e passare dall'emergenza perpetua, cara
all'Avvoltoio appulo, alla normalità, dalla comunicazione istrionica e isterica
imperversante da ormai un anno a un dialogo serio tra governo, amministrazioni
pubbliche e cittadini, che non sono affatto grulli e vanesi come vengono
dipinti ma hanno bisogno di informazioni affidabili, scientificamente tarate e
proposte in modo chiaro anziché fatuamente emotivo. Quanto a “comunicazione” è
ora che le televisioni smettano di rifilare ogni mezz'ora immagini di aghi
conficcati qui e là nei muscoli di poveretti che girano gli occhi dall'altra
parte, di fiale, siringhe, cerotti e frigoriferi per la conservazione di
vaccini: spettacoli che rimandano alle piazzate medievali, quando le folle
erano attratte dai supplizi inflitti ai condannati a morte. Per far capire che
a volte occorre farsi curare un dente non c'è bisogno di riprendere in diretta
televisiva la bocca spalancata e le tenaglie che lo strappano dalla radice.
Per un'Italia “più viva”: Parva favilla gran
fiamma seconda
Se però l'Italia
davvero risalirà la china lo si deve, ripetiamo, a un altro e decisivo strappo:
quello attuato da Matteo Renzi nei confronti di un governo statico ed estatico,
in attesa del “miracolo”: l'elargizione futura (aspetta e spera... ) dei
finanziamenti previsti dal Piano Europeo per la Ripresa a fronte di progetti
sostenibili e verificabili: né più né meno di quanto richiesto per ottenere il MES,
ora uscito dall'orizzonte immediato ma non dalle necessità del Paese. L'Italia
ne ha bisogno estremo per ammodernare il sistema sanitario, che è infantile
dividere nelle categorie di pubblico e privato perché il contagio virale non fa
distinzione di classe, lingue, religioni eccetera... Come il Verbo di Giovanni
Evangelista, perfidamente esso “soffia dove vuole”.
Ma
(dicono i sondaggi) Renzi conta solo il 2% delle intenzioni di voto. E allora?
La verità della politica, quella alta, non si misura sulla base dei consensi
raccolti dai simboli dei partiti ma della forza delle idee, dalla loro
lungimiranza. E' lì la differenza tra la politica fondata sulla scienza
(l'unica politica vera) e quella avvolta nelle chiacchiere degli imbonitori.
Per quanto superfluo, va ricordato che il Novecento è il non rimpianto secolo
delle masse, anzi delle “folle”, manipolate e spinte a condotte suicide, a
“credere obbedire combattere” senza capire perché, dove e con quali vantaggi.
Lasciando
ai margini il passato remoto, va ricordato che all'indomani della seconda
guerra mondiale le condizioni dell'Italia non migliorarono grazie ai tanto
celebrati partiti “di massa”, fermi nel culto dei rispettivi feticci (Stalin da
un canto e la ierocrazia superstiziosa dall'altro) ma per l'azione di
micropartiti colti e lungimiranti, minoritari nei consensi ma maggioritari
nella capacità programmatica e nella forza trainante delle loro “pre-visioni”.
Esattamente come era accaduto nella seconda metà del Settecento illuministico e
nuovamente nell'Ottocento, quando una minoranza esigua guidò il processo verso
l'unità nazionale che strappò l'Italia dal lungo “Medioevo”. All'indomani della
guerra i partiti numericamente maggioritari per voti e per seggi in Parlamento
erano nettamente contrari alla “occidentalizzazione” dell'Italia: una
prospettiva rifiutata sia dai socialcomunisti accorpati nel Fronte popolare sia
dai democristiani, diffidenti nei confronti dell'“America”, sospetta per i suoi
costumi (visti come “malcostumi”).
A
riposizionare l'Italia “a Occidente”, dove essa già si era attestata con i
sovrani, da Vittorio Emanuele II a suo nipote, Vittorio Emanuele III, furono
partiti dal modesto seguito elettorale ma proiettati nella direzione storica
assunta dai “patrioti” sin dagli albori del Risorgimento, come il “britannico”
milanese Federico Confalonieri, che l'Imperatore d'Austria fece condannò a
morte, chiuse i condizioni disumane allo Spielberg e rilasciò a condizione che
esulasse negli Stati Uniti d'America.
Orbene,
nella Ricostruzione postbellica Alberto Tarchiani, ambasciatore d'Italia a
Washington, fece più degli esponenti dei “partiti di massa”, incluso il
democristiano Alcide De Gasperi. Altrettanto fecero esponenti di partiti
piccoli e piccolissimi, come Leo Valiani e Piero Calamandrei, eletti alla
Costituente del dissolto partito d'azione, e Ugo La Malfa che da quello stesso
partito transitò con Ferruccio Parri in quello repubblicano. Alle elezioni del
1948 il PRI racimolò il 2,5% dei voti e 9 seggi, che nel 1953 si ridussero
all'1,6% e a cinque scranni. I liberali nel 1948 ottennero appena il 3,8 dei
consensi e 19 seggi che scesero a 13 cinque anni dopo quando esso ebbe il 3%
dei voti benché presidente della Repubblica fosse il loro “numero uno”, Luigi
Einaudi. A loro volta i socialdemocratici fletterono dal 7,2 % del 1948 al 4,5%
del 1953 e da 33 deputati scesero a 19. Eppure furono quei partiti minori a
tenere il timone dell'Italia verso Occidente mentre Pio XII continuava a
ritenere che persino Rotary, Lions e analoghe associazioni “di servizio”
fossero quinte colonne di una massoneria occulta, satanica, più infida e
pericolosa dei socialcomunisti bonaccioni di strapaese.
Il passaggio a nord-ovest....
Paradossalmente
(è l' “ironia della storia”) furono quei piccoli partiti (incluso il
repubblicano) a tenere viva la memoria del Risorgimento, della “grande guerra
patriottica” del 1915-1918, della rivendicazione dell'italianità di Trieste e
Gorizia, dell'Istria, di Fiume e delle città italofone della Dalmazia, del
ruolo dell'Italia in un'Europa e in un mondo depurato dalla miopia del
nazionalismo e delle illusioni autarchiche del rovinose regime mussoliniano.
Con gli stessi argomenti della miglior tradizione patriottica monarchica,
furono quei partiti minori a riportare l'Italia nei binari dell'età
ante-fascista. Negli Anni Sessanta se ne fece interprete il socialdemocratico
ravennate Giordano Gamberini, già vescovo della chiesa gnostica.
Non può
quindi stupire che a “manovrare lo scambio” per avviare l'Italia nei binari
giusti sia stato ora un partito del 2% come Italia Viva. I voti non si contano
ma si pesano. Per molti “partiti” i consensi pletorici sono un gravame
soffocante. E' il caso del Movimento Cinque Stelle (mai giunto a darsi identità
vera), come, per altri versi, del Partito Democratico e di altri: appesantiti e
frenati dalla necessità di raccattare consensi anziché capaci di progettare e
proporre, di andare oltre le tattiche elettorali e di tornare alla strategia e
recuperare il senso profondo della “politica”, come si fece negli Anni Sessanta
con la “politica dei redditi” e la programmazione economica propugnata da La
Malfa e negli Anni Settanta con la messa a punto di “Progetto '80” e i piani
del Club di Roma.
C'è
davvero bisogno di partiti? Dal proto-Risorgimento e nelle guerre per
l'indipendenza e per l'unificazione nazionale l'Italia non ebbe “partiti”. Ai
tempi di Massimo d'Azeglio, Camillo Cavour, Quintino Sella...via via sino a
Giolitti non vi furono “partiti liberali” ma persone di governo capaci e
meritevoli, severe verso la stessa classe sociale di cui erano espressione,
perché le riforme costano molto e il loro gravame non può essere scaricato sui
nullatenenti, da avviare invece alla emancipazione attraverso scolarizzazione
ed educazione civica: una missione immane e di lungo periodo. Risalire la china
richiede un paio di generazioni. E' quella che si prospetta all'Italia odierna:
al bivio tra progresso nella libertà e pauperismo nella decrescita infelice,
tra falso egualitarismo e meritocrazia, tra governo delle competenze e
occupazione del potere nel nome di quel Jean-Jacques Rousseau che s'impancò a
pedagogo ma abbandonò cinque all' Hospice des enfants trouvés. Alla larga, se è
quello il rapporto consequenziale tra pensiero e azione....
Ecco
perché ora tocca a Mario Draghi e a chi saprà assecondarlo nella nuova
Ricostruzione di cui l'Italia ha urgenza dopo tre anni di “non governo”, che si
risolve nella peggior forme di malgoverno.
Aldo A. Mola
BOX
I 107 “SENATORI DI DIRITTO” CHE NEL 1948
ARGINARONO LA DERIVA DEMO-CLERICALE
La III Disposizione transitoria e finale della
Costituzione in vigore dal 1° gennaio 1948 stabilì che “per la prima
composizione del Senato della Repubblica” fossero nominati senatori i deputati
eletti all'Assemblea costituente il 2-3 giugno 1946 forniti di determinati
requisiti. Il “privilegio” una tantum fu riconosciuto a ex presidenti del
Consiglio dei ministri o di assemblee legislative; ai membri del disciolto
regio Senato ma non “epurati” (una “trappola” il cui esame richiederebbe da
solo ampio spazio); a chi fosse stato eletto deputato almeno tre volte (anche
alla Costituente); a quanti erano stati dichiarati decaduti dalla Camera con
l'iniqua legge del 9 novembre 1926 e avesse scontato pene di reclusione non
inferiore a cinque anni inflitte dal Tribunale speciale fascista per la difesa
dello Stato. Furono nominati senatori di diritto” per quella prima legislatura
repubblicana anche gli ex senatori del Regno componenti della Consulta
Nazionale durata in vita dall'estate 1945 al 1946.
Se si
fossero candidati alle elezioni poi fissate per il 18-19 aprile 1948 i
beneficiari del privilegio decadevano automaticamente dalla nomina “una tantum”
alla Camera Alta. Come imposto dalla III Disposizione transitoria e finale (ma
solo il 22 aprile 1948), venne emanato il decreto del Presidente della
Repubblica (Enrico De Nicola) che elencò i 107 senatori “di diritto” del primo
Senato della repubblicano.
Quei
“patres” erano in gran parte anziani, provati dalla storia. Ventidue morirono
nel corso della legislatura. Però ebbero un peso determinante anche se oggi è
dimenticato e completamente ignorato dalla “narrazione”, secondo la quale il
vincitore delle elezioni, Alcide De Gasperi, non formò un governo di soli
democristiani perché contava 305 seggi alla Camera su 630 e 131 al Senato su
315. In teoria avrebbe potuto fare tutto da sé cercando l'appoggio di una
manciata di “volenterosi” a destra e a manca.
A
impedirglielo fu proprio la composizione politica, culturale e “storica” dei
107 senatori di diritto. In massima parte infatti essi rappresentavano l'Italia
anti-fascista ma anche quella ante-fascista: liberali, democratici, socialisti
riformisti e cattolici di quel partito popolare che per anni aveva votato a
favore del governo Mussolini e se ne era dissociato solo quando assunse il
volto di regime di partito unico.
Per di
più tra quei “patres” vi erano molti repubblicani, anticlericali militanti e
persino massoni notori come, tra altri, il generale Roberto Bencivenga, Eduardo
Di Giovanni, Cipriano Facchinetti, Meuccio Ruini (già presidente della
Commissione dei Settantacinque che varò la bozza della Costituzione) e Arturo
Labriola, che era stato ministro del Lavoro nel V governo Giolitti e persino
gran maestro del Grande Oriente d'Italia a Parigi dal 1932.
Tra i
107 furono nominati senatori il vercellese Mario Abbiate, il monarchico Tullio
Benedetti, Alberto Bergamini, Ivanoe Bonomi, Giuseppe Canepa, Alessandro
Casati, Benedetto Croce, Luigi Einaudi, Alfredo Frassati, Luigi Gasparotto,
Michele Giua, Stefano Jacini, Emilio Lussu, Cino Macrelli, Enrico Molè,
Riccardo Momigliano, Rodolfo Morandi, Francesco Saverio Nitti, Vittorio
Emanuele Orlando, Ferruccio Parri, Sandro Pertini, Giovanni Porzio, Giuseppe
Romita, Carlo Sforza, Pietro Tomasi della Torretta, Adolfo Zerboglio (liberali,
repubblicani, socialisti...) e alcuni comunisti tutti di un pezzo quali Ruggero
Grieco, Girolamo Li Causi, Vincenzo Moscatelli, Celeste Negarville, Giovanni
Roveda, Mauro Scoccimarro, Pietro Secchia, Emilio Sereni e Umberto Terracini.
Tutti ricordavano bene che nel novembre 1922 De Gasperi aveva votato a favore
del governo Mussolini (di cui facevano parte esponenti del partito popolare,
compreso Giovanni Gronchi) e poi della legge elettorale che aveva spianato la
strada al regime.
In
sintesi la maggior parte dei 107 senatori “costituzionali” non era affatto
“democristiana” e meno ancora “papista” mentre pontefice era Pio XII. Dopo aver
trangugiato l'inclusione dei Patti Lateranensi nella Costituzione quei senatori
si sarebbero opposti fermamente a una deriva clericale. Pertanto De Gasperi non
avrebbe mai avuto la maggioranza in Senato, proprio perché i “patres di
diritto” facevano la differenza. Perciò, non per “generosità” ma per necessità,
egli varò il governo quadripartito formato da democristiani, liberali,
repubblicani e socialdemocratici, con vicepresidente Einaudi (e poi il Giuseppe
Saragat quando Einaudi fu eletto presidente della Repubblica) e il massone
Facchinetti alla Difesa.
Furono
quei “senatori di diritto” a salvaguardare la tradizione della Terza Italia che
rischiava di essere risucchiata nelle sabbie mobili di una malintesa
contrapposizione tra Roma e San Pietro anziché, come era, tra lo stalinismo e
l'Occidente liberaldemocratico tutelato dagli Stati Uniti d'America e, di lì a
poco, dall'ingresso dell'Italia nella Nato, strenuamente voluto dal “fratello” Randolfo
Pacciardi molto prima e più che da De Gasperi.
Aldo A. Mola
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