di Aldo A. Mola
Il peccato originale di Conte-Casalino-Zinga
C'è il peccato originale. Macchia
indelebilmente, come stabilì il Concilio di Trento. È la “culpa” che, vada come
vada, segnerà un eventuale governo Conte-Ter: la svergognata pesca a strascico
di anime perse nelle due Camere, ove, contrariamente a quanto scrive il
costituzionalista Michele Ainis, i parlamentari non sono affatto tenuti alla “disciplina”, che vincola
i dipendenti pubblici (art. 54 della Costituzione) ma non i rappresentanti
elettivi dei cittadini.
Giocare con le parole va bene solo in un Paese
allo sbando. È quanto è accaduto nei giorni del goffo tentativo del presidente
del Consiglio dei ministri, Giuseppe Conte, di raffazzonare un “gruppo” al
Senato per bilanciare l'uscita di Italia Viva dalla maggioranza. L'esito è
stato squallido sotto tutti i profili. Così indecente che i suoi sponsor,
consci di non essere autosufficienti al Senato, nelle consultazioni al
Quirinale hanno steso tappeti rossi (come si fa nelle tende arabe) invocando il
ritorno di Matteo Renzi all'ovile, come nulla fosse accaduto.
Il “fatto” però rimane: non una manovra di
palazzo, ma la questua di “consensi” o, peggio, un'operazione di “ricatto con
raccatto”, che ricorda la raccolta delle immondizie al mercato dopo lo sgombero
delle bancarelle. E rimane che il “gruppo” (merli di incerta lingua ancorché sedicenti europeisti) si
costituì solo per “cessione” di un senatore del Partito democratico. E meno
male che Mattarella a Fico ha dettato la
linea: tastare i partiti della maggioranza “uscente”, senza concessioni
all'armata brancaleone abborracciata da Conti-Casalino col soccorso rosso di
“Zinga”.
Se per sciagura dovesse mai nascere, il
cosiddetto “Conte-Ter” avrebbe per marchio quel peccato originale: un affronto
anche nei riguardi del Capo dello Stato che, nel congedarlo, aveva prescritto,
come del resto è suo dovere, una maggioranza ampia e coesa. Quella dell'ormai
tramontato Conte-bis non lo fu mai; essa, al contrario, sin dalla nascita
risultò raccogliticcia, come pure quella del primo esecutivo Conte (quello
dello sciagurato “contratto per il governo”): accorpamento tra diversi, che ha
rinviato tutte le decisioni incombenti e che, profittando dell'emergenza
ingenerata dalla pandemia, ha sovraccaricato di competenze il “commissario”
Arcuri Domenico, dall'occhio astutamente dimesso.
L'agonia
del regime partitico-parlamentare e il Trasformismo vero (1876)
Dal
2018 l'Italia vive la crisi agonica del regime partitico-parlamentare, aggravata
dalla sempre più abissale distanza tra l'esecutivo e le attese dei cittadini, a
cospetto della crisi pandemica, economica e sociale evocata dal presidente
Mattarella al termine delle consultazioni e nell'affidamento del mandato
esplorativo al presidente della Camera. Ironia della sorte, ora tocca proprio a
un “Cinque stelle” dipanare la aggrovigliata matassa di un Movimento caotico,
populista, nel suo insieme estraneo alla tradizione politica italiana,
intrinsecamente anti-istituzionale, fervorosamente anti-europeista e persino
pronto a indossare i “gilet gialli”. Esso è stato il pilastro dell'ormai ex
presidente del consiglio, il quale, tuttavia, non ha mai smentito in modo chiaro
e convincente di avere la tentazione di farsi un partito tutto suo: un’incognita
molto più insinuante e destabilizzante delle turbolenze di Renzi, cui va invece
dato atto di aver posto temi e problemi squisitamente politici e istituzionali.
Poiché
proprio in connessione al risibile pateracchio del nuovo gruppo senatoriale si
è parlato di neo-trasformismo e da “politici” e “giornalisti” di opinabile
consistenza culturale sono stati evocati riferimenti al trasformismo e sono
stati fatti i nomi di Depretis e persino di Giolitti quali precursori dello
squallore odierno, va fatto un minimo di chiarezza sulla storia vera.
Tra il
1876 e il 1887 il “trasformismo” in Italia fu il decennio di transizione
dall’ormai sterile e nominale contrapposizione fra Destra e Sinistra
“storiche”. “Brutta parola a cosa più brutta” scrisse il 3 gennaio 1883 Giosue
Carducci nel “Don Chisciotte”. Però anche lui, “maestro e vate della Terza
Italia”, da molti anni aveva messo da parte gli ardori mazziniani, era
incantato dall'“Eterno femminino regale” di Margherita di Savoia e ripeteva i
suoi versi giovanili “Bianca Croce di Savoia/Dio ti salvi e salvi il Re”.
Quali
erano i problemi di quell’Italia? Politica estera, riforme socio-economiche,
consolidamento delle istituzioni: “Fare lo Stato” per “fare gli italiani”. L'8
ottobre 1876 Agostino Depretis, massimo esponente della Sinistra e presidente
del Consiglio dei ministri, pronunciò a Stradella, fulcro del suo collegio
elettorale, un discorso che, secondo lo storico Carlo Morandi confermato da
Giovanni Spadolini, era stato scritto dal lombardo Cesare Correnti (1815-1888),
esponente della Destra. Auspicò la “feconda trasformazione dei partiti,
quella unificazione delle parti liberali della Camera, che varranno a
costituire quella tanto invocata e salda maggioranza, la quale, ai nomi storici
(Destra e Sinistra) tante volte abusati e forse improvvidamente scelti dalla
topografia dell'aula parlamentare, sostituisca per proprio segnacolo un'idea
comprensiva, popolare, vecchia come il moto, come il moto sempre nuova, il Progresso.
Noi siamo, o signori, un ministero di progressisti”. L'opposto del
“rinvio” che nell'Italia odierna è sinonimo di Conte-Casaoino-Arcuri.
Depretis
(1813-1887: vedi box) ) era presidente del Consiglio dal 25 marzo, all'indomani
della “rivoluzione parlamentare” come retoricamente venne detto il crollo del
governo presieduto da Marco Minghetti, ultimo della Destra storica (18 marzo).
Questa aveva all'attivo quindici anni vissuti pericolosamente,
dall'unificazione (1861) all'agognato pareggio del bilancio di esercizio, cioè
tante uscite contro altrettante entrate. Frutto non solo della tassazione su
macinazione delle farine (l'odiosa “tassa sulla fame”), su sale, tabacchi,
alcolici e su ogni bene di consumo, ma anche di esose imposte sui beni immobili
e su tutto quanto fosse imponibile, dai portoni alle finestre, dai balconi ai
cani da guardia e da passeggio. A quel modo, però, la Nuova Italia aveva
fronteggiato e vinto il “grande brigantaggio” (studiato da Marco Pinto in “La
guerra per il Mezzogiorno. ed. Laterza, apprezzato finalista all'Acqui Storia
2020, e nuovo direttore dell'Istituto per la storia del Risorgimento italiano),
la terza guerra per l'indipendenza, conclusa con l'annessione di Venezia, aveva
acquisito Roma e aveva intrapreso la modernizzazione.
Il X congresso degli scienziati italiani,
l'esposizione economica nazionale di Firenze e il censimento del 1871
indicavano che in appena due lustri il Paese aveva imboccato la direzione di
marcia: “fare”, fare bene, fare in fretta, grazie all' immensa macchina
dell'amministrazione centrale e locale.
Però la compagine governativa della Destra era
ormai spossata: confondeva l'equilibrio con la stasi. Si barcamenava in
un'Europa che, messa alle spalle la guerra franco-germanica del 1870-1871,
aveva ripreso e accelerato la seconda industrializzazione e con l'apertura del
Canale di Suez aveva abbreviato distanza e tempi per le comunicazioni
dall'Europa settentrionale alla Cina. D’altro canto il crollo dei noli
marittimi all'indomani della guerra di secessione negli USA favoriva le esportazioni
dall'America verso l'Europa a danno delle economie più deboli. Il grano
d'importazione costava meno di quello faticosamente prodotto in Italia, con
ripercussioni devastanti per un Paese ancora prevalentemente agricolo. Che
fare? Anche il liberista Camillo Cavour quando necessario aveva fatto
intervenire lo Stato a tutela della produzione “nazionale”.
Casti connubi...
Nel
1869-1876 un Italia si susseguirono i due unici governi “di Destra” vera e
propria, presieduti da Lanza e da Minghetti. La “Destra” era un'etichetta
impropria. Il primo a liberasene era stato proprio Cavour che nel 1852 aveva
pattuito il connubio di centro-sinistro (sic) con Urbano Rattazzi (che non era
né di destra né di sinistra, ma costruttivo), poi ministro dell'Interno nel
fattivo governo del 1859. Nel decennio successivo alla morte del Gran Conte
(1861-1870) i governi avevano sempre compreso esponenti niente affatto “di
destra”. Nel suo primo ministero (1862) Rattazzi incluse Depretis e il
napoleonico Gioacchino Pepoli; nel secondo (1867) ancora Depretis e il
quarantaseienne Michele Coppino (massone) all'Istruzione. Nel suo terzo governo
(1869) il generale Luigi Federico Menabrea chiamò Angelo Bargoni e Antonio
Mordini, massoni e Dioscuri del Terzo Partito. La debolezza cronica della
Destra stava nella rivalità fra due suoi esponenti di spicco: il biellese
Quintino Sella e il bolognese Minghetti. O l'uno o l'altro.
E così alla fine arrivò Depretis: il
Trasformismo, che andò di traverso alla retorica paleonazionalista esattamente
come a quella fascista e gramsciana, a tutti gli aspiranti “rivoluzionari” e a
quelli in servizio permanente. Era e rimase indigesto l' “aspro vinattier di
Stradella” (come Carducci bollò Depretis) che promise (e mantenne) almeno una
riforma all'anno, ma di quelle vere, che migliorano la vita delle “classi
numerose”.
L'Italia era sotto assedio. Nel 1881 la
Francia, mai amica sincera, impose il protettorato sulla Tunisia, che la
neonata Italia considerava suo “porto sicuro”. Per uscire dall'isolamento
Depretis concordò la Triplice Alleanza difensiva (20 maggio 1882) con la Germania e
l'Austria-Ungheria, suo potenziale nemico. Così ebbe mani libere per curare le
piaghe interne: l'inchiesta sulle “classi agrarie” sollevò il coperchio sulle
condizioni miserabili delle moltitudini. Le cinte urbane soffocavano le città
che avevano bisogno di aria luce e pulizia. L'epidemia colerica del 1884 impose
reti fognarie e acquedotti.
… e le Grandi Riforme
Il trasformista Depretis non racimolò il
consenso di quattro gatti per caso in Parlamento. Nel 1881, àuspici Coppino,
Zanardelli, Baccarini e tanti altri “fratelli”, egli varò l'ampliamento del
diritto di voto da circa 650.000 a 3.000.000 di italiani. Dalle elezioni del
1882 (con collegi circoscrizionali e scrutinio di lista) scaturì la prima
dirigenza di politici professionali tecnicamente attrezzati, come fece notare
lo storico Giuseppe Galasso.
Proprio perché massone tutto d'un pezzo, fu
Depretis ad avviare il primo serio approccio con la Santa Sede per la Conciliazione,
malgrado l'opposizione miope di alcuni anticlericali e, s'intende, di fanatici
baciapile. Si trattava di accordarsi sui “metalli” nel rispetto della libertà
di coscienza di tutti, garantita dallo Statuto albertino che aveva riconosciuto
l'uguaglianza dei cittadini dinnanzi alle leggi.
Tra alti e bassi, da una all'altra crisi,
rimpasto dopo rimpasto lo Statista tirò il carro governativo sino al 1887,
quando formò il suo ultimo ministero: un vero capolavoro. Tenne per sé gli
Esteri, all'Interno chiamò Crispi (che nel 1864 aveva detto alla Camera: “la
monarchia ci unisce, la repubblica ci dividerebbe”), alla Giustizia Giuseppe
Zanardelli, a Finanze e Tesoro Agostino Magliani, all'Istruzione il grande
Coppino (che dal 1877 varò la scuola elementare obbligatoria e gratuita), alla
Marina Benedetto Brin (artefice della “Terni”), ai Lavori pubblici Giuseppe
Saracco.
Al governo c'era tutta l'Italia competente e
fattiva. Trasformava il brulicame in una compagine coesa, fondata su
larghissima maggioranza (circa 400 deputati), confermata anche nel 1886 quando
affiorarono forze più decise ad accelerare le riforme, come l'“Opposizione
subalpina” guidata appunto dai depretisiani Giovanni Giolitti, Tommaso Villa,
Domenico Berti (già ministro con la Destra) e dal garibaldino Pietro Delvecchio
e altri.
Sommerso dal lavoro, Depretis ammalò. Assistito
dalla moglie Amalia Flaver, di 34 anni più giovane – sposata quando già era
vedova e con una bambina, Bice, e dalla quale ebbe Agostino –, come gli
Elefanti da Roma si rinchiuse a Stradella. Vi morì con l'occhio alle sorti
progressive della sua eredità politica. Senza soluzione di continuità, il
governo, ora presieduto da Crispi, varò il nuovo codice penale che abolì in
Italia la pena di morte (un primato mondiale), rese elettivi i sindaci e i
presidenti delle Deputazioni provinciali, laicizzò le opere pie, approvò la
prima legge sanitaria che impose ai Comuni la svolta urbanistica. Ecco, dunque,
il Trasformismo: che è Riforme. È fatti. Per mettere l'Italia in sicurezza,
come suggerito dal grande Adriano Lemmi (sempre in attesa di una biografia),
Roma stipulò accordi anche con Londra: in una botte di ferro, il paese poté così
progredire vieppiù. Il Trasformismo dunque non ha nulla a che vedere con le
chiacchiere da cortile di chi annaspa e fa il gioco dei quattro cantoni
rinviando ogni decisione vitale col macabro pretesto della “pandemia”, indebita
le generazioni venture con lo sperpero del danaro pubblico e spera di rinviare
le elezioni chissà sino a quando. Allievo prediletto di Depretis fu Giovanni
Giolitti, che nel 1912 conferì il diritto di voto a quasi tutti i maschi
maggiorenni. Riteneva fossero cittadini pensosi delle proprie sorti e
rappresentati da parlamentari consapevoli. Era inguaribilmente ottimista.
Aldo A. Mola
AGOSTINO DEPRETIS, IL MASSONE PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI
Agostino Depretis o, a lungo, De Pretis (Cascina Bella in Mezzana Corti, Pavia, 31 gennaio 1813 - Stradella, Pavia, 29 luglio 1887).
Laureato ventunenne in legge a Pavia,
consigliere comunale a 31 anni, eletto deputato trentacinquenne alla Camera del
regno di Sardegna dal collegio di Broni (Pavia) il 26 giugno 1848, poi da
quelli di Stradella (1861) e di Voghera, dal 1882 comprendente quello di
Stradella, vicepresidente della Camera nel 1849, mazziniano attivo sino al
1854, contrario all''intervento del “Piemonte” nella guerra di Crimea, si
avvicinò a Cavour sulla scia di Urbano Rattazzi. Fu governatore di Brescia nel
1859 e commissario straordinario in Sicilia per imbrigliare la spedizione
garibaldina (19 luglio-14 settembre 1869).
Esponente di spicco della Sinistra democratica,
fu ministro della Marina nel I governo presieduto da Urbano Rattazzi (1862),
dimissionario per le conseguenze catastrofiche della spedizione di Garibaldi
all'insegna di “Roma o morte”.
Tornò ministro della Marina nel II governo
presieduto da Bettino Ricasoli (esponente della Destra storica) e poi nel II
governo Rattazzi (aprile-ottobre 1867, travolto dalla spedizione di Garibaldi
contro lo Stato pontificio).
Dal 25 marzo 1876 alla morte fu il massimo
statista della Sinistra storica e, con l'intervallo di tre governi presieduti
da Benedetto Cairoli, nel corso di undici anni formò otto compagini
ministeriali, con ministri molto diversi nelle posizioni chiave (Esteri,
Interno, Finanze, Istruzione, Marina...). I suoi esecutivi compresero esponenti
delle regioni più disparate, parlamentari di solida formazione politica,
culturale e professionale.
Dal 1864 al 1880 presidente della Consiglio
Provinciale di Pavia, suo fedelissimo bacino elettorale, il 10 ottobre 1875
espose a Stradella il programma di vaste e incisive riforme politiche,
giuridiche, culturali ed economico-sociali, che precorse la svolta politica
nazionale col passaggio senza traumi dalla Destra alla Sinistra storica,
all'insegna della continuità e del consolidamento dello Stato e della sua
istituzione suprema, la monarchia di Savoia. Ebbe la fiducia di Vittorio
Emanuele II (re dal 1849 al 1878) e di suo figlio Umberto I.
Iniziato “compagno” nella loggia torinese
“Dante Alighieri” il 22 dicembre 1864, “maestro” dal 1866, affiliato nel 1867
alla “Universo” di Firenze, nel 1877 fu elevato al grado 33° del Rito scozzese
antico e accettato e dal 1882 fece parte del suo Supremo consiglio.
Il 14 marzo 1878 Umberto I gli conferì il
Collare dell'Ordine della Santissima Annunziata, comportante il rango di
“cugino del Re”.
Malato, da Roma tornò nella nativa Stradella.
La salma venne esposta nel municipio. Unico dei quattro presidenti del
Consiglio massoni (oltre a lui Crispi, Zanardelli e Fortis) ebbe funerali
civili. Amedeo di Savoia, Duca di Aosta, fratello del Re Umberto I, resse con
Crispi e Zanardelli i cordoni nel corteggio funebre, seguito da una folla lunga
un chilometro, senza alcun ecclesiastico: omaggio dovuto all'antico
repubblicano che aveva ampliato le basi del consenso per la monarchia
statutaria, fondata sulle libertà politiche e sul progresso civile.
Molto discusso per il suo pragmatismo ebbe due
elogi: la capacità di rispondere alle polemiche con il silenzio e la lapidaria
constatazione di Ruggiero Bonghi: “Quelli che rimangono per sventura nostra non
sono migliori di lui”.
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