NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

domenica 31 maggio 2020

Alla ricerca di una festa nazionale: per chi suona il “due giugno”?

Due giugno. Festa perché? Festa per chi?
di Aldo A. Mola



Che cosa festeggiare questo 2 giugno 2020? La catastrofe del sistema scolastico italiano? Una vera vergogna nella storia d'Italia, come mostra lo sciopero generale fissato per l'8 giugno dal personale scolastico stufo di essere esposto al ludibrio e di finire colpevolizzato da allievi e famiglie quale complice di una ministra del tutto inadeguata, “esperti compresi”. Il collasso di migliaia di aziende e l'azzeramento di un milione di posti di lavoro? Il conflitto di competenze tra l'Esecutivo e le banche sulle quali Sua Emergenza Conte scarica la responsabilità della mancata corresponsione di mance una tantum? L'indifferenza del governo e della miriade di suoi “suggeritori”? La confusione dei “messaggi” quotidianamente diffusi con decreti-legge e decreti del presidente del Consiglio? I ritardi nelle grandi e piccole misure per prevenire, fronteggiare e contenere il contagio del Covid19? Quelli, anche più gravi, nel prevedere il baratro economico e la crisi sociale che ne deriverà? Il protervo soffocamento di libertà costituzionali col pretesto di tutelare la salute dei cittadini? Il rimpallo di responsabilità tra governo, regioni e comuni (quanto alle province, parce sepulto...)?
Dietro la mascherina (un addobbo facciale rapidamente fetido) si nasconde l'incapacità di governare, il timore di questa compagine transitoriamente al timone di presentarsi non alle videoconferenze ma alle urne. Sua Emergenza disse che attende il giudizio della Storia, quasi sia quello di un dio; verrà espresso dagli elettori, perché, piaccia o meno, prima o poi o verranno convocati o rovesceranno i “palazzi”. Come stupirsi se gli altri Paesi europei escludono dalle mete turistiche l'Italia, quando il suo governo, per primo, dichiara che essa è a rischio per i suoi stessi cittadini?
Perciò è inevitabile domandarsi cosa mai ci si sarebbe festeggiare questo Due giugno 2020.
I calendari a strappo dovrebbero avere migliaia di foglietti per richiamare tutti i “ricordi” ordinati o consentiti. Solo per stare al calendario civile dello Stato d'Italia, sono festivi le domeniche e altre ricorrenze religiose quali Capodanno (lo è dal 1874), Pasqua e il lunedì dell'Angelo, l'Assunta, Ognissanti, l'Immacolata Concezione. Quando mette in programma eventi dal valore legale (come gli esami e i concorsi pubblici) lo Stato tiene conto anche delle festività delle religioni che hanno stipulato le intese previste dalla Costituzione.
Lasciati dove sono i “Giorni” memoriali (alcuni passano in sordina, altri imperversano per settimane), il calendario è zeppo di festività (religiose e civili), di “giornate celebrative”, sostitutive di antiche “feste” (i Patti Lateranensi nel 1930 oscurarono Porta Pia, in vigore dal 1895; la Vittoria, durata dal 1922 al 1949; le ricorrenze del “regime”: il Natale di Roma dal 1923, la Marcia su Roma dal 1930, la proclamazione dell'Impero dal 1939, cioè due anni prima di perderlo) e di solennità civili, come il “25 aprile” noto come “festa della Liberazione”. In realtà quel giorno non finì affatto la guerra. Il “saldo” venne col trattato di pace del 10 febbraio 1947: punitivo e irridente nei confronti del contributo dell'Italia alla vittoria degli Alleati. Che cos'altro potevano toglierle in più?
Tra le ricorrenze civili un tempo fu in vigore persino la scoperta dell'America, oggi deplorata con tanto di rimozione delle statue di Cristoforo Colombo quasi fosse sterminatore degli amerindi e vessillifero della tratta dei negri.
Sulle poche festività civili sopravvissute al diserbante del pensiero politicamente ottuso ancora svetta il 2 giugno, “festa della Repubblica”. Precedentemente “mobile” e dal 1974 fissata in coincidenza della prima domenica di giugno (come era stata quella dello Statuto albertino, in realtà promulgato nel marzo 1848), con legge 23 novembre 2012, n. 222 essa ha assunto la veste attuale.
Ma il 2 giugno davvero è la festa di tutti? In realtà, a differenza del 4 luglio degli USA e del 14 luglio della Francia, quella data non rievoca affatto l'unanimità degli italiani: ricorda, invece, la loro profonda divisione tra il Nord quasi tutto repubblicano (con l'eccezione delle province di Cuneo, Asti, Bergamo e Padova) e il Mezzogiorno compattamente monarchico. Rimanda alle radici profonde della vittoria della repubblica che nel Centro-Nord molto deve ai due anni di martellante campagna antimonarchica della Repubblica sociale italiana. Nel 1946 comunisti, socialisti, ex azionisti, da un canto, ed eredi della RSI, dall’altro canto, erano divisi in tutto tranne che dall'odio nei confronti di Vittorio Emanuele III, del suo successore, Umberto II, e dei loro ministri, da Pietro Badoglio ai liberali come Benedetto Croce e Luigi Einaudi. I democristiani se la sfangarono perché i loro maggiorenti alla vigilia del voto di schierarono per la Repubblica mentre buona parte del clero, anche al Nord, sconsigliò il “salto nel buio”. Avevano già dato e non volevano finire sotto il calcagno dell'Armata Rossa.
Premesso che un giorno festivo fa sempre piacere alla quasi totalità di quanti se ne giovano, perché malgrado Ciampi, Napolitano e altri il 2 giugno ha stentato a entrare nelle corde della popolazione?Per comprenderlo occorre ripassare le cronache del referendum del 1946.
Una “festa” proclamata con anticipo di dieci giorni
“Né di venere né di marte non si sposa, non si parte né si dà principio all'arte”. 

La Repubblica in Italia prese corpo un martedì: l’11 giugno 1946. 
Sabato 8 giugno, tre giorni prima che la Suprema Corte di Cassazione comunicasse l'esito del referendum Monarchia/repubblica, il presidente del Consiglio dei ministri, Alcide De Gasperi, democristiano, informò il governo che avrebbe assunto “i poteri di Capo Provvisorio di uno Stato repubblicano”. Il liberale Leone Cattani, ministro per i Lavori pubblici, si oppose fermamente. Altri ministri liberali e demolaburisti, come il torinese Manlio Brosio (ministro per la Guerra) e Mario Cevolotto (Aeronautica), nonché l'ammiraglio Raffaele De Courten (Marina) erano per la repubblica. Quel giorno il socialista Pietro Nenni (ministro per la Costituente, probabilmente non “al di sopra delle parti”) propose che martedì 11 fosse dichiarato festivo “a tutti gli effetti civili”.
Doveva essere la prima celebrazione della Repubblica. La storia, però, ebbe altro corso.
Alle 20 del 10 giugno il governo si radunò per decidere cosa fare dinnanzi allo stallo generato dal  rinvio dei risultati finali a martedì 18 giugno. Secondo Mario Bracci, esponente del Partito d'azione (già sminuzzato in vari frammenti) e ministro per il Commercio con l'estero, l'esito ormai era indiscutibile e quindi i poteri di capo dello Stato dovevano passare subito a De Gasperi. Con lui, a parte Cattani, si schierarono tutti i presenti, tra i quali il socialista Giuseppe Romita, ministro dell'Interno, e il democristiano Giovanni Gronchi. De Gasperi propose che un ministro riferisse al Re che a parere del governo l'esito del referendum aveva prodotto la decadenza della Monarchia.
Cattani obiettò che toccava a lui recarsi dal sovrano, per individuare la soluzione atta a “salvare le pretese di ogni parte e salvare così la pace del paese”. Il Consiglio riprese alle 0.45 di martedì 11.
De Gasperi riferì l'esito del colloquio con il Re. Umberto II era disposto a delegare i poteri al presidente del Consiglio e ad allontanarsi da Roma in attesa dell'esito finale, nel rispetto della legge.
Inizialmente Nenni e altri videro con favore la soluzione: De Gasperi avrebbe avuto funzione di “Luogotenente”. Però il segretario del partito comunista Palmiro Togliatti la respinse, poiché avrebbe significato un’“investitura” da parte del sovrano. Ebbe il sostegno di Bracci, Brosio, Cevolotto e De Courten. Alle 2.30, con il voto contrario di Cattani, il governo approvò un “comunicato” che sanciva la vittoria della Repubblica e proclamava festivo il giorno ormai iniziato.
Come farlo sapere alla popolazione? In realtà ben altro premeva. In Italia il clima non era affatto esultante. In molte città si verificavano manifestazioni di monarchici, duramente represse dalla polizia a Napoli. A Taranto militari monarchici si scontrarono con commilitoni repubblicani. Si riaffacciava lo spettro della guerra civile mentre tutti sapevano che il partito comunista aveva una corposa riserva di armi bene oliate: non decisive ma pericolosissime in caso di coinvolgimento di potenze estere.
Lo stesso martedì 11 il governo si radunò tra le 12 e le 13, poi alle 18 e alle 21. La terza seduta fu decisiva. Bracci propose di conferire a De Gasperi i poteri di capo dello Stato. Secondo il democristiano Mario Scelba ormai il Re non era che “un privato cittadino”. Quindi era intollerabile che De Gasperi si recasse ancora a colloquio con lui. De Gasperi obiettò che era “vero in teoria”, ma politicamente sarebbe stato un errore: non era il momento di “fare un passo che può determinare la guerra civile”.

Il governo camminava su una corda esile 
Chi aveva votato per chi? Il caos dello scrutinio e della verifica Appena un giorno prima, alle 18 di lunedì 10, il presidente della Corte di Cassazione aveva comunicato l'esito del referendum: 12.672.767 voti per la Repubblica contro 10.688. 905 per la Monarchia. Ufficialmente mancavano i dati di circa 150 seggi. Il Presidente si riservò di emettere in altra adunanza il giudizio definitivo su contestazioni, proteste e reclami e di comunicare il numero complessivo degli elettori votanti, le loro scelte e quello dei voti nulli, che in prima battuta nessuno si era preso la briga di computare.
Il governo sapeva bene che in realtà mancavano i dati definitivi di almeno 21.000 sezioni.
Pendevano molti ricorsi. Nessuno aveva conteggiato le schede bianche, nulle, contestate e non assegnate. Per venirne in chiaro sarebbe stato necessario controllare le schede; ma secondo Togliatti questa verifica era impossibile perché, come egli seraficamente asserì ai colleghi, forse erano già state distrutte. Il governo era al bivio: attendere la pronuncia della Suprema Corte annunciata per mercoledì 18 giugno, come chiedeva il Re, o varcare il Rubicone?
Gli elettori erano 28 milioni. Secondo Nenni alle urne ne andarono circa 24.837.000. Più di tre milioni furono esclusi: i militari ancora prigionieri di guerra, gli abitanti di province “in forse” (Bolzano, l'intera Venezia Giulia e le altre città italiane ormai nelle grinfie della Jugoslavia di Tito), i cittadini privati del diritto di voto per motivi politici o non reperiti dagli uffici elettorali comunali.
La repubblica aveva ottenuto il consenso del 52% dei voti validi ma appena del 42% del corpo elettorale. Era manifestamente minoritaria. Che fare? Il Consiglio si riunì alle 0.30 di mercoledì 12.
Togliatti avvertì allarmato che se fosse stato accolto il ricorso presentato da Enzo Selvaggi la maggioranza si sarebbe ridotta di molto. Bracci prospettò allora che a decidere la partita potesse essere l'ammiraglio Ellery Stone. La decisione ultima andava rimessa agli anglo-americani.

Quando De Gasperi assunse le funzioni di capo dello Stato 
Il governo tornò a riunirsi alle 21 dello stesso mercoledì 12 giugno. Togliatti informò che le verifiche dei ricorsi avrebbero richiesto quattro giorni e ammise: “C'è del caos”. Per sveltire le procedure si computavano solo i voti validi. Dopo ore di dibattito al calor bianco e un’interruzione, De Gasperi preparò la dichiarazione in forza della quale assumeva le funzioni (non i poteri) di capo
dello Stato e alle 23.45 ne dette lettura. Curiosamente il testo non è allegato ai Verbali del Consiglio dei ministri pubblicati nel 1996 a cura di Aldo Giovanni Ricci, all'epoca sovrintendente dell'Archivio Centrale dello Stato (vol. VI, 2, p. 1388). Il suo testo è in Il referendum Monarchiarepubblica del 2-3 giugno 1946 (ed. Bastogi Libri con prefazione della Principessa Maria Gabriella di Savoia). Esso afferma che sulla base della comunicazione dell'esito provvisorio dei risultati del referendum (10 giugno) l'esercizio delle funzioni di capo dello Stato spettava al presidente del Consiglio sino a quando l'Assemblea costituente non avesse nominato il presidente provvisorio della repubblica. Ancora una volta Cattani si dichiarò contrario ed esortò a “evitare la guerra civile”.
Dal canto suo Epicarmo Corbino, ministro per il Tesoro, domandò a De Gasperi se la decisione rispondesse al suo pensiero intimo. Il presidente democristiano confermò: “accipio”. Così nacque la Repubblica. Era ormai il 13 giugno. Per gli scaramantici quella cifra non porta bene, ma a Roma il giovedì è giorno di trippa.

Maramaldi...
E il Re? Posto dinnanzi al dilemma se arroccarsi al Quirinale, appellarsi ai monarchici, lasciare temporaneamente Roma o allontanarsi dall'Italia e protestare contro il “gesto rivoluzionario”, optò per quest’ultima soluzione. Gli anglo-americani gli fecero sapere che non ne avrebbero garantito l'incolumità personale. Tutto voleva tranne che uno spargimento di sangue. Dal 5 giugno aveva ordinato alla Regina Maria José di raggiungere Napoli con i quattro figli e di salpare per il Portogallo con lo stesso incrociatore che aveva recato Vittorio Emanuele III e la Regina Elena ad Alessandria d'Egitto. Nel corso di una cena al Quirinale chiese ai congiunti di lasciare l'Italia. Già si era congedato da Pio XII in visita privata. Ne ottenne un piccolo prestito per le minute spese perché partiva senza una lira. Restituì. Alle 15 di giovedì 13 lasciò il Quirinale e poi il suolo d'Italia, da Ciampino alla volta del Portogallo.
Sciolse dal giuramento di fedeltà alla Monarchia, ma non alla Patria, quanti l'avevano prestato.
Per milioni e milioni di italiani fu un giorno di profonda mestizia. Aprì anni amari. La sola esposizione del tricolore con lo scudo sabaudo divenne reato.
Il 18 giugno la Suprema Corte compì un colpo di stato linguistico: a maggioranza, contro il parere del Procuratore Generale Massimo Pilotti e del presidente Pagano, essa stabilì che per votanti si intendono i voti validi. Ignorò le schede bianche, nulle, non assegnate. In tal modo la differenza tra le due opzioni sarebbe rimasta di circa 2 milioni, anziché di soli 250.000 voti, e nessuno avrebbe insistito per il controllo delle schede. D'altronde il Re era ormai all'estero, seppur nella convinzione di tornare prima o poi in Italia. Ma la Costituente interdisse il rientro e il soggiorno a lui, alla Regina e ai discendenti maschi, confondendo discendente con erede al trono. Altre severe misure furono adottate contro i militanti monarchici, che presto si divisero in fazioni. Sin dalla sua prima visita clandestina in Italia Luigi Federzoni distinse tra monarchici e monarchisti, tra quanti nella Corona vedevano l'Italia e chi invece dell'ideale monarchico fece “un mestiere”, un “partito”. Purtroppo nel corso dei decenni i monarchici uguagliarono il Partito repubblicano nella lotta fratricida.

Repubblica senza scudo
La repubblica non venne mai “proclamata” perché la legge sul referendum prevedeva solo la “comunicazione” dei risultati elettorali. Per radicarsi essa si dovette dotare di “attributi” e mostrarli festevolmente negli anni: un inno provvisorio per il giuramento dei militari il IV novembre, la bandiera (strappò lo stemma sabaudo dal Tricolore) e un emblema. Quest'ultimo è di interpretazione così ardua che in l'“Italia immaginata. Iconografia di una nazione” (il Mulino) Giovanni Belardinelli scrive che esso consta di “una stella dentro una croce dentata”, mentre, come sappiamo, la stella (antico simbolo d'Italia, della Monarchia, della massoneria e persino della Madonna) insiste in una ruota dentata: quella del Rotary, come venne spiegato a De Gasperi quando negli Stati Uniti d'America gli venne impartito un corso accelerato di tolleranza nei confronti di rotariani e di “fratelli” come l'ambasciatore Alberto Tarchiani.
Fra gli altri emblemi di quando in quando tornati in auge per evocare l'Italia vi sono anche i corbezzoli a suo tempo cantati da Giovanni Pascoli: arbusto patriottico dalle foglie verdissime, fiori bianchi e frutti rossi. Ai corbezzoli ci si può afferrare per scongiurare i guai del passato, del presente e quelli che attendono l'Italia al varco: non in autunno ma dalle settimane prossime se il governo continuerà a mostrarsi del tutto al di sotto delle attese minime per risalire la china. In questo Due giugno non si sente alcun bisogno di feste che ricordano la divisione degli italiani in fazioni contrapposte e la sopraffazione dei vinti da parte dei vincitori, maramaldi. Lo sussurrano sommessamente Vittorio Emanuele III e la Regina Elena dalle loro tombe nella quiete del Santuario di Vicoforte.
Emblema della Repubblica Italiana. Bozzetto di Paolo Antonio Paschetto (885-
1963), vincitore del primo concorso su 346 candidati e oltre 600 proposte. Approvato da apposita commissione presieduta dal demolaburista Ivanoe Bonomi e formata da artisti già affermati durante il regime, come Duilio Calbellotti ma bersagliato da critiche (ad alcuni parve una tinozza rovesciata) esso non non fu realizzato. Paschetto prevalse su 197 candidati anche nel secondo concorso. Approvato dall'Assemblea costituente il 31 gennaio 1948 il nuovo bozzetto (in bianco e nero) fu  sostituito con quello varato a fine aprile del 1948. Esso non è stemma (gli stemmi includono uno scudo) ma “emblema”. Artista versatile e di vasta cultura, docente di Ornato all'Accademia di Belle Arti di Roma, Paschetto professò la religione valdese.  


Io difendo la Monarchia Cap IX - 5


Già: «riuscì perfettamente», ma contro l'Italia, non contro i tedeschi che bisognava cacciare in luogo di farli rafforzare nella Penisola. Dopo pochi mesi durante la lunga sosta dinnanzi a Cassino molti compresero quell'errore. George Glascow nella Contemporary Review lamentava «la mancanza di chiaroveggenza e di immaginazione degli Alleati verso l'Italia dopo il 25 luglio». Più esplicitamente sul settimanale americano The Nation (dicembre 1944) Eric Sevareid sottolineava gli errori di tutta la campagna italiana. Egli scriveva: «Sono ora quattordici mesi che combattiamo in Italia... Abbiamo posto fuori combattimento i pochi fascisti italiani che ancora rimanevano. Abbiamo conquistato basi nell'Italia meridionale dalle quali pensiamo fare importanti bombardamenti strategici in Francia, Austria, Ungheria e Romania e dalle quali possiamo inviare rilevanti aiuti al maresciallo Tito. E se la cosa vi fa piacere abbiamo contribuito a distruggere e a impoverire la maggior parte d'Italia. I popoli alleati e la storia potranno chiedersi se la sanguinosa campagna d'Italia sia stata una vittoria e se in realtà essa abbia raggiunto un qualche decisivo risultato».
Ma vi è di più. Sotto la data del 9 settembre 1943 il Ministro della guerra americano Stimson scriveva nel suo diario (2): «La resa dell'Italia annunciata ieri è stata la notizia culminante di una settimana di buone nuove da tutti i fronti. Alcune ore dopo l'annuncio di resa, considerevoli forze alleate, fra cui unità della V Armata americana, tutte al comando del tenente generale Mark W. Clark, sono sbarcate in diversi punti nella zona di Napoli. Queste truppe sono già in contatto coi tedeschi e soddisfacenti progressi vengono fatti in questa operazione anfibia, fra cui la cattura di prigionieri germanici.
«La capitolazione dell'Italia costituisce una importante vittoria per le armi alleate, sebbene non significhi che tutta la penisola italiana sarà occupata rapidamente e senza opposizione nemica. Dobbiamo ancora fare i conti con i tedeschi che vi si trovano, i cui effettivi ammonteranno a 15 o 20 divisioni, forza questa più numerosa di quella con la quale abbiamo avuto a che fare sia in Tunisia che in Sicilia. Inoltre i tedeschi se lo vogliono, possono aumentare il numero delle loro forze in Italia, giacché se è vero che hanno subito un grave colpo è pur vero che sono tuttora capaci di una forte resistenza, per cui è probabile che dovremo sostenere duri combattimenti in Italia.
«L'armistizio italiano fu negoziato dal generale Eisenhower e dal suo Stato Maggiore; esso tratta soltanto di argomenti militari e non tocca problemi politici ed economici che vengono rimandati a più matura considerazione. Mentre le condizioni di armistizio non sono ancora state pubblicate si annuncia che esse stabiliscono la resa incondizionata di tutte le forze armate italiane.
«Il successo delle operazioni nel Mediterraneo costituisce' un grande tributo alla strategia ed intuizione del generale Eisenhower e dei suoi valenti associati britannici ed americani. Esso è direttamente derivato dall'occupazione del Nord Africa che iniziò la serie delle fortunate campagne culminate nella resa dell'Italia.
«Ma come ho detto questo successo non significa una prossima fine della guerra, in quanto i nostri principali due nemici devono ancora essere sopraffatti e nulla giustifica la supposizione che essi saranno eliminati. Avremo quindi tempo di celebrare la nostra vittoria quando essi saranno sconfitti.
Mentre procedono le operazioni nella zona di Napoli, truppe britanniche e canadesi stanno conquistando un forte punto di appoggio all'estremo della penisola italiana, e la scorsa settimana è stata impiegata nel consolidamento ed ampliamento delle posizioni conquistate. Le truppe italiane hanno opposto scarse resistenze e mano a mano che le truppe alleate avanzavano, tedeschi e italiani si ritiravano, ma nel ritirarsi distruggevano sistematicamente strade e ponti. Queste vaste demolizioni aggiunte all'aspra natura del terreno di questa parte della penisola italiana, hanno rallentato la nostra avanzata: tuttavia i progressi sono soddisfacenti ove si considerino queste difficoltà incontrate.
«Le forze aeree americane e britanniche hanno il dominio dell'aria sia in Sicilia che nella parte meridionale della penisola italiana. Tale dominio ha costituito un fattore importante nell'assicurare il successo delle nostre truppe nella penisola; i nostri aerei sono penetrati profondamente nell'interno del paese distruggendo comunicazioni ferroviarie e stradali attraverso le quali i tedeschi potevano rifornire o rafforzare le loro truppe in Italia, e i nostri bombardamenti pesanti hanno raggiunto le Alpi, estremo confine della penisola, dove hanno interrotto la ferrovia del passo del Brennero.
«Nell'analisi che procede ci siamo occupati soltanto dei fattori materiali e fisici della situazione, ma v'è un altro aspetto che non va perduto di vista quando si voglia valutare l'importanza di questa vittoria; si tratta del fattore morale. Ho notato stamane che uno dei nostri quotidiani metteva in rilievo il fatto che l'Italia si era arresa mentre i tedeschi tuttora occupavano con grandi forze la penisola, quando cioè la resa significava un atto di sfida ai tedeschi che avrebbero cagionato al popolo italiano inevitabili sofferenze per le sicure rappresaglie tedesche. In altre parole - gli italiani- si erano arresi quando tale resa non significava che avrebbero conseguito come risultato di essa la salvezza ed una pronta pace.
«Orbene, ciò che questo significa per noi è che esso dimostra, a mio parere, la fondamentale simpatia del popolo italiano per la causa delle libertà ed anche il fatto che esso riconosce che noi e le nostre forze rappresentiamo tale causa. Ebbene, questo è un importantissimo presagio, un presagio di grande speranza per le nostre campagne future, giacché dimostra che i popoli d'Europa riconoscono la causa che noi rappresentiamo.
«La memoria degli uomini è abbastanza corta e la nostra generazione è portata a dimenticare che meno di un secolo fa l'Italia scrisse un capitolo molto glorioso nella storia della libertà umana; Io che sono più vecchio sono rimasto più volte sorpreso nel riscontrare quanto siano poche le persone, con le quali ho avuto occasione di parlare, che hanno letto la storia di ciò che gli italiani chiamano il Risorgimento, vale a dire quel meraviglioso e rapido periodo durante il quale l'Italia fu unificata in un sistema di Governo; che noi chiamiamo liberale, nel quale cittadini italiani conseguirono la loro libertà individuale. È perciò di alta importanza per noi di metter sempre in chiaro che lo scopo nostro e del nostro esercito è di ricreare e di restaurare, non di distruggere quelle libertà che furono tanto gloriosamente conquistate in epoca sì recente.
Riteniamo perciò che una delle grandi lezioni di questa campagna finora sia la prova dell'esistenza nell'animo del popolo italiano, a differenza di quello dei suoi governanti, di un fondamentale amore per la libertà, lo stesso amore che noi tutti abbiamo nel nostro paese, ed inoltre, come ho detto sopra, che il popolo italiano riconosce che noi ne siamo i rappresentanti. Ritengo che sia tale sentimento che ha, in certa guisa, dato vita ai fattori morali e psicologici della campagna finora condotta contro gli italiani ».


(1) Politica Estera, 1945, n. 2, pag. 80.
(2) H. L. Stimson : Prelude to invasion. Casa Editrice Corso, Roma, 1915.

sabato 30 maggio 2020

Uno spettro si aggira per l’Europa: la denatalità



di Domenico Giglio

No, non è quello ipotizzato cento ottanta anni fa da Carlo Marx, cioè il comunismo, ma qualcosa di molto più recente e cioè lo scarso incremento demografico dell’Europa in questi ultimi decenni. Oggi i settecentocinque milioni di abitanti, tra i quali ormai sono milioni specie in Francia, Germania e Regno Unito, quelli in realtà provenienti da altri continenti e praticanti religioni diverse da quella cristiana, rappresentano il 9% della popolazione mondiale e sono solo aumentati del 13,37% rispetto a quella che era la popolazione del 1940. D’accordo che bisogna conteggiare le pesantissime perdite dovute alla seconda guerra mondiale, ma egualmente la differenza è modesta, tenuto conto degli ottanta anni trascorsi e le nascite diminuiscono di anno in anno, tranne per gli europei non originari, i quali, e questo è grave, non intendono assimilare i principi della nostra civiltà, anche a prescindere dalla religione. Si parla molto e giustamente dei “beni culturali”, di cui è ricca tutta l’Europa, con in testa il nostro paese, dove da alcuni furono definiti il nostro “petrolio”, ma per tutelarli e valorizzarli bisogna conoscerli, approfondire la loro epoca, il relativo clima politico, culturale ed artistico, compresa in questo caso anche la religione allora praticata. Una “Ascensione” di Raffaello Sanzio, una “Assunta” del Tiziano non sono solo dei meravigliosi dipinti, ma qualcosa di più, come lo sono gli affreschi di Giotto o di un Beato Angelico e fermiamoci qui perché l’elenco sarebbe lunghissimo, non dimenticando un Michelangelo Buonarroti. E la sua Cappella Sistina.
Ora se per gli altri continenti, in primo luogo l’Africa, andrebbe frenato il ritmo delle nascite, con bambini denutriti che ispirano una grande pietà, o.con città che hanno perso ogni aspetto umano, come Lagos, capitale della Nigeria, con i suoi 16.300.000 abitanti, più di tanti interi paesi europei, scandinavi e del Benelux, e lo stesso dicasi per altre megalopoli, non più metropoli, dell’America Meridionale come la capitale del Perù, Lima, 10.683.240.,o dell’Asia come l’indiana Mumbay ( ex Bombay) 12.400.000, per non parlare dei 24.500.000 di Pechino, l’Europa dovrebbe gradualmente riprendere la natalità. Perché se poi ai settecentocinque milioni di abitanti togliamo quelli della Russia e del Regno (ancora) Unito, cioè se ci limitiamo all’attuale Unione Europea il divario si fa ancora maggiore ed il confronto con la potenza economica e militare della Cina comunista si fa schiacciante, rendendo fondamentale ancor oggi la NATO con il supporto militare degli USA, attualmente recalcitranti.
Vedere Francia, Germania, ora anche Austria ed Olanda, per via della crisi economica dovuta alla pandemia del corona virus, muoversi e parlare come fosse l’Europa del 1914, con i loro nazionalismi sterili, gli egoismi puerili, di potenze un tempo mondiali ( ricordiamo l’enorme impero coloniale olandese, oggi Indonesia o l’impero europeo austroungarico ) fa riflettere sul livello di questa classe dirigente, come fanno riflettere gli altrettanti puerili e politicamente diseducativi sovranismi, da nobili decaduti, e populismi, che sembrano ignorare queste realtà numeriche,alle quali, esclusa la già citata Cina, non corrisponde, fortunatamente ancora per noi europei, una analoga forza economica e soprattutto militare ! E come non bastasse ricordiamo anche le non sopite, velleitarie minacce secessioniste di una Catalogna con i suoi 7.566.000 abitanti, con la grande Barcellona di 1.608.000,e la Scozia di 5.373.000 con Edimburgo di 464.990. Credo che i loro orologi si siano fermati al 1700. Li rimettano a posto quanto prima perché siamo nel 2020 d.C. !

Domenico Giglio

martedì 19 maggio 2020

Fancesco Grisi, intellettuale dimenticato


di Emilio Del Bel Belluz  

Leggo nelle pagine del libro pubblicato dalla casa editrice Ceshina nel 1961, dello scrittore Francesco Grisi, le considerazioni che fa su alcuni scrittori del nostro novecento  letterario. 
Francesco Grisi ha conosciuto molti di questi letterati, non solo attraverso le loro opere, ma anche personalmente. Credo che dopo avere letto le pagine di uno scrittore si senta anche il bisogno di conoscerlo. Grisi nacque a Vittorio Veneto da genitori calabresi e specifica nella quarta di copertina del libro che è nato per pura casualità in un vagone ferroviario in transito. 
Poi ha vissuto a Roma, la sua città per sempre. Il libro inizia con la figura di Corrado Alvaro. 
Riporto alcune frasi che avevo sottolineato: “A ognuno è data una parte. Noi siamo abbastanza obbiettivi per renderci conto che ognuno di noi rappresenta una parte, e non può rappresentare che quella”. Credo che risulti difficile sapere quale sia quella parte che noi rappresentiamo.  Questa parte per me è quella di cui non ho ancora compreso il significato. Ogni uomo lascia nel cuore delle persone che incontra un segno, che rimarrà oltre la sua morte. Ognuno porta nel suo cuore le ferite che infligge agli altri e queste sono le più difficili  da dimenticare e di cui deve vergognarsi. Il peso del rimorso è la maggior condanna che una persona possa avere. 
Il Signore che vede i nostri passi può essere l’unico che ci aiuta a lenire il dolore della nostra anima. Ho letto i libri che scrisse Francesco Grisi pubblicati da Mondadori, Thule e Volpe. Vinse con il libro La penna e la clessidra , nel 1980, il premio Salvator Gotta. A mio giudizio,  non raggiunse la popolarità che avrebbe meritato, anche se nel 1986 il suo libro A futura memoria fu finalista al premio Strega. La lettura dei suoi libri mi fu consigliata da un professore di Motta, per il suo scrivere nobile e convincente. 
Mi ricordo alcune pagine che Grisi scrisse su Giorgio Bassani, uomo di grande fascino. Mi associo alla solitudine che Grisi  evidenzia in Bassani,  tutta la vita l’ho cercata, anche se ne avevo paura. La solitudine è una spada che può ferire, ma vi è una sola possibilità per vincerla, quella di accettarla e di amarla.  Grisi scrisse : “ -Tutto passa e si scorda” perché, a bene riflettere, niente passa definitivamente nella sua storia. Niente passa perché tutto si rinnova, si adegua, si ammanta di luce nuova, e, assorbendo motivi del passato, crea il presente. Niente passa anche perché la tradizione è un elemento di civiltà che, si voglia o non si voglia, non fa capitolo a sé ma – se é civiltà – è un tutt’uno con il divenire sintetico della vita ”.  
La vita di uno scrittore è un libro aperto, un diario che condivide con gli altri, perché ha il compito di donare quello che ha visto. Nel mare del mondo letterario, uno scrittore è una goccia, ma una goccia importante, che aiuta a capire i valori della vita.   Il 18 maggio 2020 si ricorda il centenario della nascita del Papa Giovanni Paolo II, che ci ha lasciati ormai da tanto tempo, ma la sua immagine l’abbiamo davanti e ci confortano le sue parole, specialmente in questi tempi – Non abbiate paura - . 
Lo scrittore Francesco Grisi in un suo articolo, comparso sul settimanale il Borghese del 5 novembre 1978, ricorda un incontro con il futuro Papa. Francesco Grisi fa delle considerazioni, di cui due sono molto interessanti. ” 

Oggi è Papa. Forse, senza il Vaticano II non sarebbe diventato il successore di Pietro. L’ ecumenicità non è soltanto del popolo di Dio. La Provvidenza ha una sua logica con la quale opera nella storia. E’ quasi sempre impossibile nel presente intuire i segreti di Dio. La secolarizzazione spesso è un grande ostacolo. Ma il mistero è vicino e ci accompagna. Il Sacro, il senso del Sacro, può aiutarci.  Un pescatore un giorno abbandonò il suo lago in Palestina e venne a Roma. Un sacerdote ha abbandonato la  sua Cracovia ed è venuto a Roma. Questi due seguaci di Cristo, questi due viaggi, sono soltanto storia? O sono anche il mistero che il Sacro alimenta per noi? Ieri come oggi? “ Siamo nel mese di maggio, dedicato alla Madre di Gesù e per me, anche al mio Re, Umberto II. Non posso non pensare all'abbraccio che il Re d’Italia scambiò con il Santo Padre, Giovanni Paolo II il 14 maggio 1982, a Lisbona. Il papa sapeva quanta tristezza dominava il cuore del nostro Re in esilio. Il Papa Giovanni Paolo II, nel suo ultimo periodo di vita, aveva incontrato l’Imperatrice Zita di Borbone, moglie dell’imperatore Carlo d’Asburgo, e con il sorriso le aveva detto che suo padre era stato un sottufficiale dell’Impero.  Nella stupenda Roma, Papa Giovanni Paolo Il proclamò beato, l’Imperatore Carlo d’Asburgo.

Nel libro Intervista all'intellettuale reazionario a cura di Tommaso Romano Francesco Grisi alla domanda:   E le biografie sulla  Famiglia Reale ? Perché tanto successo? Rispose: “Perché gli italiani stanno scoprendo la Monarchia con i pregi e i difetti. L’aristocrazia non ha amato mai le biografie quando era al potere. In ogni biografia c’è sempre qualcosa di pettegolo. Oggi gli italiani sono desiderosi di conoscere le paure, gli amori, le passioni dei personaggi reali. Non vi è dubbio che tra i Savoia la figura e l’opera di Umberto II è la più alta. Lo stesso Vittorio Emanuele II non resiste. Umberto II, invece, appare come un re-templare. C’è un carisma che viene a consacrarlo nell'esilio. E’ un nobile con il suo silenzio e la grande dignità. Non soltanto evita la guerra civile dopo il referendum, ma, poi, non implora e non scrive lettere al partito comunista…” Queste parole mi fanno bene al cuore, il Re Umberto II.

lunedì 18 maggio 2020

Contro la Massoneria la prima legge “fascistissima” (1925)


di Aldo A. Mola

La vera emergenza è “lo Stato in Emergenza”
Ma davvero leggi, ordinanze e circolari vanno eseguite e rispettate con religiosa devozione? Se così fosse saremmo ancora al trapassato remoto, proni a Poteri via via implosi per corrosione interna o travolti perché non più rispondenti al “comune sentire”, cangiante nel tempo e nei luoghi.
Questa considerazione, apparentemente banale invero, si impone a cospetto del diluvio di “norme” da quattro mesi deliberate dal governo, dal presidente del Consiglio, Sua Emergenza Conte, da ministri (quali la dottoressa Lamorgese e l'on. Speranza) e via via discendendo per li rami. Ora l'INAIL pretende di imputare al datore l'eventuale contagio da Covid-19 del proprio dipendente: ciò sulla base della presunzione che esso sia avvenuto sul luogo di lavoro e non, magari, altrove e per chissà quali altre promiscuità. Ciò costituirebbe un precedente del tutto abnorme, anche perché privo di qualunque fondamento scientifico e di “prove” attendibili. Potrebbe valere per qualunque malattia, quasi che una persona, succuba del “negriero”, si ammali solo durante le ore di lavoro e non quando, nel tempo libero, va a fare bisboccia con chi gli pare.
“Le leggi son, ma chi pon mano ad  esse?” fa dire Dante Alighieri da Marco Lombardo dinnanzi alla servitù dell'Italia, prona ai famelici disegni “stranieri” e alla pochezza dei suoi “signori” locali, quasi sempre peggiori degli altri. La questione, oggi, non è di “porre mano” alle leggi, ma di passarle al setaccio per separare la farina di quelle buone dalla crusca delle oscure, farraginose, insensate e, in sintesi, “cattive”: parecchie da molti anni. Queste, anche se recenti, vanno abrogate alla svelta prima che la loro inapplicabilità e il rifiuto di piegarsi alla loro stolida tirannia salgano sino a divenire sfiducia totale nei confronti del legislatore e di una “legalità” da tempo in manifesto conflitto con i capisaldi della Costituzione. Se la Carta segna un prima e un poi nella storia d'Italia e, in quanto tale, è la cornice nella quale si riconoscono i suoi cittadini, quale ne sia la loro opinione sulla forma dello Stato, il primo a doverne rispettare i “principi  fondamentali” dev'essere appunto il legislatore, che è e rimane il Parlamento. Infatti “l'esercizio della funzione legislativa non può essere delegato al governo se non con determinazione di principi e criteri direttivi” e soltanto “per tempo limitato e per oggetti definiti”, mentre il governo “adotta provvedimenti provvisori con forza di legge” solo “per delegazione delle Camere” e “in casi straordinari di necessità e di urgenza”.
Quando discussero e approvarono gli articoli 76-78 della Carta, con una visione unitaria della loro concatenazione, i costituenti avevano ben presente che dall'agosto del 1917, molto prima di Caporetto, gran parte dell'Italia settentrionale fu dichiarata “zona di guerra”, perché manifestamente infetta da sobillazioni rivoluzionarie, come accadde a Torino. Tale misura comportava l'adozione della legge marziale, con quanto ne discendeva per il controllo di luoghi e persone, e l'impiego del codice penale militare, come sarebbe accaduto il 28-29 ottobre 1922 se Vittorio Emanuele III non avesse saggiamente rifiutato di decretare lo stato d'assedio, dal momento che la crisi extraparlamentare grazie a lui stava imboccando la via istituzionale. Guerra, rivolte e catastrofi naturali sono casi straordinari di necessità e urgenza. La diffusione di un morbo per sua natura non lo è perché quando assume carattere di epidemia o viene dichiarata pandemia ha superato i confini dell'urgenza e va affrontata con misure vaste e durevoli, l'opposto di quanto è avvenuto in Italia, ove da mesi dura l'improvvisazione.    
Ora, dopo centoventi giorni dal primo tardivo “allarme” lanciato da Sua Emergenza (all'epoca poco convinto e mai convincente), urge il ritorno all'articolo 70 della Costituzione: “La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere” e dagli “organi ed enti ai quali sia conferita da legge costituzionale” (le Regioni). Va pertanto fermato il proposito ventilato dal prof. Conte di protrarre lo stato di emergenza per altri sei mesi, magari a suon di decreti presidenziali o di decreti legge in “vacanza” delle Camere o per loro svaporamento nell'esercizio delle funzioni. L'emergenza sanitaria, enfatizzata oltre misura, non può degenerare e sboccare in uno “Stato in emergenza permanente” se non mettendo a rischio la democrazia parlamentare sopravvissuta alla decomposizione e alla scomparsa dei partiti del CLN (i cui acronimi suonano oscuri a giovani e meno giovani: DC, PCI, PSI, PLI, PdA, DL), agli “anni di piombo” (ne ha scritto recentemente Gianni Oliva) e alle ripercussioni degli ondivaghi pronunciamenti dell'elettorato sulla governabilità del Paese.

Mussolini, artefice del regime di partito unico
All'inizio del “regime di partito unico”, cioè del “fascismo” come esercizio del potere da parte del “capo del governo”, vi fu una legge approvata dalle Camere: passaggio al quale Benito Mussolini non si sottrasse, perché, gli piacesse o meno, per lo Statuto Albertino (come poi per la Costituzione della Repubblica) erano esse fonte del diritto. Ma il “duce del fascismo” (movimento? rivoluzione? regime? gli storici sono ancora divisi al riguardo, ma si veda almeno la trilogia di Roberto Vivarelli sulle origini del fascismo) riuscì nell'intento di estorcere l'assenso del Parlamento usando metodi brutali per piegarlo ai suoi disegni, nell'apparente continuità statutaria. Per giungervi mirò a isolare il Re, a tarparne l'esercizio palese della funzione, ad avvolgere la monarchia nelle nebbie delle organizzazioni di massa allestite per oscurare i pilastri portanti dell'Italia unita (le Forze Armate e l'ordine giudiziario) con la Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, con le organizzazioni para-fasciste e con la fascistizzazione di quelle di antica data, dapprima neutre ma da un certo momento in poi contaminate dall'aggiunta sistematica dell'aggettivo “fascista”. Questo inizialmente fu accettato o subìto quale orpello esornativo ma via via divenne scorza per separare i cittadini buoni dai cattivi, gli allineati col regime dagli altri. Quel processo si sostanziò in oltre tre milioni di tesserati al partito (quando nel 1942 esso raggiunse l'acme del “consenso”) e una decina di milioni di associati al “Dopolavoro” e alla pletora di enti, istituti e sodalizi debitamente ornati dalla fatidica “F”. Così accadde, per esempio, che per assicurarsi una supplenza in una scuola di Saluzzo il giovane Cesare Pavese chiese la tessera del PNF mentre Ada Gobetti, vedova di Piero, obtorto collo rimediò l'iscrizione all’Associazione “fascista” degli insegnanti, che comportava vantaggi nella vita quotidiana per chi da Torino doveva raggiungere la cattedra al liceo di Savigliano. Poste dinnanzi all'alternativa tra fascistizzazione e difesa della propria identità, molti sodalizi scelsero l'auto-scioglimento. Fu il caso del Circolo 'L Caprìssi di Cuneo, che contava centinaia di associati liberi, di buoni costumi, mai proni.
L'incipiente regime di partito unico sapeva di dover fare i conti non solo con la Monarchia (nel cui ambito il governo Mussolini fu sempre come il meno nel più: se n'ebbe conferma il 25 luglio 1943) ma anche con due Entità metastoriche: la Chiesa cattolica e la Massoneria. Con la Santa Sede il duce avviò una composizione disputante. Iniziò con il salvataggio del vaticanesco Banco di Roma nel 1923 e approdò ai Patti Lateranensi l'11 febbraio 1929. Questi non furono affatto “Conciliazione”, se per tale s’intende convergenza di amorosi sensi, ma segnarono i confini tra Stato e Chiesa, tra il Regno d’Italia e lo Stato della Città del Vaticano: preludio di tensioni, anche aspre, quanto più il regime mirò ad andare oltre l'amministrazione dei corpi, puntò al possesso delle anime ed entrò in collisione con l'Azione Cattolica e la FUCI, Federazione Universitaria Cattolica Italiana, vivaio della classe dirigente postbellica, prevalentemente democristiana, alternativa ai Gruppi Universitari Fascisti (GUF), che contarono nelle loro file Giorgio Bocca e Leonilde Jotti.

Nei confronti dell'altra Entità metastorica, la Massoneria, Mussolini puntò alla soluzione perseguita da quando nel 1914 fece espellere i “fratelli” dal Partito socialista italiano, nella cui ala rivoluzionaria militava. Era sicuro che il suo annientamento sarebbe stato gradito all'altra riva del Tevere. Perciò la genesi e il varo della “legge contro la Massoneria”, che occupò l'intero 1925, merita più attenzione di quella sinora dedicatagli dalla storiografia, ordinariamente riluttante a occuparsi della Setta Verde. Mentre all'Università di Cuba esistono da anni Istituti e cattedre di storia della massoneria e in Costa Rica non ci si occupa solo di ananas e banane ma anche di esoterismo, misteriosofia e massonismo, in Italia il tema rimane un tabù, tra sussiegosa irrisione e allarmato sospetto verso chi se ne occupa non in termini apologetici ma scientifici.

Il 16 giugno 1925: unica sconfitta di Mussolini...
Il 17 maggio 1925 i quotidiani uscirono a titoli cubitali. Contro tutte le previsioni, il giorno prima la ormai famosa “legge contro la Massoneria” non era stata approvata dalla Camera dei deputati, presieduta da Antonio Casertano, originariamente socialisteggiante, massone e infine fascista. Fu l'unica bruciante sconfitta parlamentare di Mussolini nei ventun anni dal novembre 1922 alla sua destituzione da capo del governo. Il duce s'infuriò anche perché, sicuro del trionfo, aveva presenziato alla seduta e era intervenuto ripetutamente nel dibattito. Che cosa accadde? Quasi al termine della seduta, dopo una serqua di leggine irrilevanti, la Camera approvò l'ammissione delle donne alle elezioni dei consigli comunali e provinciali: una vittoria di Pirro per i fautori del voto femminile, poiché pochi mesi dopo quegli stessi organi furono sostituiti da podestà e “prèsidi” (poi governatori), di nomina governativa o prefettizia. La legge fu approvata da 212 deputati sui 242 presenti; 28 votarono contro, due si astennero. Subito dopo si aprì la vera partita del giorno: la discussione preliminare della “regolarizzazione di Associazioni, Enti e Istituti e sull'appartenenza ai medesimi del personale dipendente dallo Stato, dalle province, dai comuni e da enti sottoposti per legge alla loro tutela”. Poiché al termine dell'esame generale fu astutamente chiesta la votazione per appello nominale prima del passaggio alla discussione degli articoli, il segretario della Camera, Angelo Manaresi, iniziò a far votare partendo dal deputato Amato Di Fausto, ragioniere, estratto a sorte. Al termine della “chiama”, il presidente prese atto che la Camera non era in numero legale per deliberare. Il verbale non dice quanti abbiano risposto. Di certo erano anche meno dei 242 di poco prima, un numero molto lontano dai 535 deputati in carica. Anche a non contare le opposizioni (socialisti, repubblicani, popolari, democratici seguaci di Giovanni Amendola: arroccati sul cosiddetto “Aventino”, un colle politicamente sterile), balzò agli occhi l'assenza compatta dei liberali e, scandalosa per Mussolini, anche di molti fascisti. Il “Serpente Verde”, come la Libera Muratorìa era detta dai massonofagi, ancora una volta aveva affondato i suoi denti avvelenati nelle carni di chi la voleva morta?
Un puntuale confronto tra i presenti e l'elenco dei deputati fascisti in carica e assenti giustificati non è mai stato compiuto. Di sicuro a favore della legge votarono fascisti di spicco certamente massoni, anche se da tempo “in sonno”, cioè non più usi a frequentare le logge. Fu il caso di Giacomo Acerbo, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, di Italo Balbo e di Edmondo Rossoni, tutti affiliati alla Gran Loggia d'Italia, e di Alessandro Dudan, Roberto Farinacci e Achille Starace, iniziati al Grande Oriente d'Italia. Tra i massoni “di passo” e da tempo in congedo votarono Giuseppe Bottai e Araldo Crollalanza, entrambi della Gran Loggia.
La seduta del 16 maggio 1925 rimase memorabile per l'elevato tenore degli interventi svolti dallo storico Gioacchino Volpe, dal paleo-fascista Massimo Rocca, dal clericale Egilberto Martire e soprattutto da Antonio Gramsci, secondo il quale la massoneria era stata il partito della borghesia e quindi sarebbe divenuta un'ala del fascismo che ne era l'espressione sorta dalla guerra. Votò contro la legge non per simpatia verso le logge ma perché essa preludeva al regime di partito unico attraverso il divieto dei partiti di opposizione, incluso il partito comunista d'Italia, depositario della rivoluzione del proletariato. Nel suo intervento, in linea con la Terza Internazionale di Mosca, ispirata da Lenin e Trotzky, Gramsci implicitamente precorse la condanna dei riformisti come social-fascisti.

...e la sua rivincita e “orma profonda”.
Il 19, debitamente rimessa in linea, la Camera approvò la legge da tutti detta “contro la Massoneria” anche se nel suo titolo la “parolaccia” non compariva. La partita si spostò in Senato, presieduto da Tommaso Tittoni (sospettato di affiliazione massonica), ove i “patres” in camicia nera erano una minoranza esigua e sembrava prevalere la tradizione liberal-risorgimentale, laica e tollerante, condivisa dalla Corona. Come venirne a capo? Mussolini adottò le maniere forti. Ripresero gli assalti squadristi alle logge, che furono saccheggiate, mentre callidi camaleonti ne asportarono gli archivi per far sparire la traccia della loro affiliazione. Il colpo da maestro fu pilotare l'organizzazione dell'attentato a Mussolini da parte dell'ingenuo Tito Zaniboni (mai massone), il 4 novembre. L'indomani il generale Luigi Capello, alto dignitario del Grande Oriente, fu arrestato a Torino per supposta ma mai provata complicità con Zaniboni. Seguì un'impennata di attentati alle logge e di delitti, mentre ministro dell'Interno era il nazional-fascista Luigi Federzoni, da sempre massonofago. La canaglia invocò l'immediato ripristino della pena di morte per gli antifascisti.
Dopo tre giorni di dibattito il Senato approvò. Contro la legge parlarono Benedetto Croce e Francesco Ruffini, docente insigne di diritto ecclesiastico. Fu il canto del cigno del liberalismo italiano. Non intervennero senatori massoni, come Salvatore Barzilai, per non incattivire il duce. Quella “timidezza” indignò i “fratelli di base” che temevano di finire cacciati dagli impieghi, malmenati, costretti all'esilio.
Fu una pagina buia della storia d'Italia. Ignorando o fingendo di non sapere, Mussolini continuò a circondarsi di massoni “capaci e meritevoli” sia del Grande Oriente sia della Gran Loggia d'Italia. La libertà della ricerca umanistica ne rimase pesantemente condizionata. La plurisecolare Accademia dei Lincei cedette il passo all'Accademia d'Italia. Con le leggi razziali del 1938 avvenne di peggio. Tornò in auge l'autore di Giudaismo-bolscevismo-plutocrazia-massoneria, uno spretato che nel 1920 pubblicò per primo in Italia I protocolli dei Savi anziani di Sion.
Ma va detto che anche oggi, con i decreti-legge governativi e quelli di Sua Emergenza si riaprono bar, ristoranti, palestre e piscine e si spalancano le porte dei centri estetici ma non quelle dei centri culturali. E' il segno più emblematico della distrazione di massa inoculata nella società italiana dal regime emergenziale, con effetti che solo alcuni presaghi intuiscono. Per gli altri, la stragrande maggioranza, di cultura e di libertà dello spirito poco importava prima, poco importerà domani.
Sul Parlamento che si piegò supino al diktat massonofago del “Truce” scende lapidario il brocardo (che vale anche per altri o altre comparse dei giorni nostri): “Coactus voluit, sed voluit”. La sua connivenza col fascismo pertanto non può essere considerata “nulla”, anche se poi venne “annullata” dalla riscossa antifascista. La legge del 1925 fu approvata da persone consapevoli delle loro azioni e di quanto ne sarebbe derivato. Essa rimane una macchia indelebile nella storia del Parlamento. L'antimassonismo ha poi proiettato la sua ombra lugubre sui tre quarti di secolo che separano l'Italia odierna dalla fine del regime di partito unico. Anche in questo Mussolini ha lasciato “orma profonda”, più di quanto solitamente si ammetta.

Aldo A. Mola


domenica 17 maggio 2020

Il Duca D’Aosta e i fiori del soldato

di Emilio Del Bel Belluz

Il caro amico professore di lettere, Antonio La Placa mi parlava spesso di alcuni scrittori che riteneva fondamentali per conoscere la nostra letteratura. A Padova, un giorno, mentre stavo consultando dei libri in una bancarella, mi consigliò di comperare i cinque volumi Cose viste dello scrittore Ugo Oietti.  Si trattava di cinque libri che raccoglievano gli articoli che il giornalista, che fu anche direttore, aveva scritto nel Corriere della  Sera. Questi libri furono un buon acquisto, li lessi con entusiasmo e lo ringraziai caramente. 
Quando si ha un buon maestro non si sbaglia mai nell’ascoltarlo, ora in questi tempi è difficile dare un consiglio letterario, le perone sono assorte in un mondo lontano dai libri. Luigi Volpicelli in un volume per la scuola media, Scrittori del novecento , da dello spazio al caro Ugo Oietti, e vi trovo un episodio della Grande Guerra in cui è protagonista il Duca D’Aosta.  Il racconto s’intitola,  I fiori del Duca D’Aosta.  
“ Quante volte nelle ore più difficili della guerra s’era diffusa la voce che il Duca avrebbe preso il posto di Cadorna? La smentiva subito egli stesso con la ragione più pratica : - Il cugino di Sua Maestà, capo di Stato Maggiore dell’Esercito di Sua Maestà? Sono matti…. Che conoscesse gli uomini, era certo. Dopo tanti anni e tanti eventi di guerra, di pace, di rivoluzione potrei dire che dei giudizi di lui su piccoli e su grandi ben pochi erano errati, perché egli parlava solo di quello che aveva veduto con gli occhi suoi e udito con i suoi orecchi”.  
Nella storia italiana ha occupato un grande posto, spiace solo che non lo si ricordi come dovrebbe. Il racconto continua con il dialogo tra il duca e un soldato che gli porge un omaggio floreale. Il gesto del Regio soldato è davvero commovente. “Una mattina nel settembre del 1917 l’incontrai presso il laghetto di Pietrarossa e veniva con i suoi ufficiali da sopra Jamiano, lui avanti, solo, appoggiandosi a un bastone ricurvo, di legno bianco, un bastone da boaro. Sulla sponda orientale del laghetto contro la roccia erano baracche, baracchette, ricoveri, e i fanti ne uscivano facendo ala per guardare il Duca. Uno aveva un mazzo di poveri fiori rossi, perché ne nascevano radi e diritti, come stupiti, fin nel pantano di quella gran pozza. Era un grano di pepe, gli occhi tondi e neri, i denti bianchi , i capelli rasi. Quando il Duca gli fu vicino, egli fece un passo avanti e il Duca capì:- Come ti chiami? Mi vuoi dare questi fiori? Grazie. Dì la verità: tu sei innamorato. Coraggio. Sei fidanzato? E dove hai la fidanzata? A Cosenza? Fai vedere il ritratto. Piano, piano cerca senza fretta. Bella ragazza. Bionda, mi  pare. Già tu sei bruno. Bene, facciamo a metà. Questi fiori li prendo io, questi altri li spedisci alla fidanzata e le dici che glieli manda il Duca d’Aosta. Contento?- 
E continuò il cammino. 
Quando l’ultimo ufficiale del seguito fu passato, quel ragazzo cominciò una specie di danza, in tondo, battendo i tacchi, brandendo in alto i suoi fiori, tanto era pazzo di gioia. Lo scrittore è un testimone del tempo, una sentinella che ha vissuto l’attimo. Una volta i giornalisti, avevano modo di stare assieme a grandi persone che si comportavano con naturalezza, con bellezza. 
Il Duca sapeva essere umile con quei soldati così preziosi al bene dell’Italia, che lontani da casa combattevano per la bandiera del Re.  
Sono passati tanti anni da allora, e il Duca riposa, a Redipuglia, assieme ai suoi valorosi soldati che avevano sacrificato la loro vita per la patria. Uno scritto importante è quello relativo al suo ultimo pensiero al Re e all’Italia, si tratta del suo testamento spirituale.




S.A.R. il Duca d'Aosta ha lasciato il seguente testamento spirituale:

"La sera scende sulla mia giornata laboriosa e mentre le tenebre inondano e sommergono la mia vita terrena e sento avvicinarsi la fine innalzo a Dio il mio pensiero riconoscente per avermi concesso nella vita infinite grazie ma soprattutto quella di servire la Patria e il mio Re con onore e umiltà. Grande ventura è stata per me quella di vedere prima di chiudere gli occhi alla luce terrena avverato il sogno giovanile della completa redenzione d'Italia e di avere potuto mercé il valore dei miei soldati concorrere alla Vittoria che ha coronato di alloro i sacrifici compiuti. 
Muoio perciò serenamente sicuro che un magnifico avvenire si dischiuderà per la Patria nostra sotto l'illuminata guida del Re ed il sapiente Governo del Duce. 
Al mio Augusto Sovrano che ho servito sempre con lealtà con ardore e con fede rivolgo le più care espressioni del mio animo grato per l'affetto che ha sempre avuto per me. 
Al carissimo Nipote Umberto promessa e speranza d'Italia il mio augurio più affettuoso e più fervido. A S. M. la Regina alla mia Sposa Helène ai miei Figli Amedeo ed Aimone ai miei fratelli Vittorio e Luigi a tutti miei Congiunti il mio pensiero riconoscente per il bene che mi hanno voluto e che ho contraccambiato con pari tenerezza. In quest'ora della triste dipartita desidero esprimere particolarmente tutta la mia gratitudine ad Helène per le cure che sempre mi ha prodigato e pregare per i miei due Figli di continuare nella via che ad essi ho tracciato e che si compendia nel motto - Per la Patria e per il Re- .
Il mio estremo saluto va a tutti i miei amici collaboratori e cari compagni d'Arme del Carso e del Piave cui esprimo ancora tutta la mia riconoscenza per quanto ai miei ordini hanno fatto per la gloria della Terza Armata e per la grandezza della Patria. Desidero che la mia tomba sia se possibile nel Cimitero di Redipuglia in mezzo agli Eroi della Terza Armata. 
Sarò con essi vigile e sicura scolta alle frontiere d'Italia al cospetto di quel Carso che vide epiche gesta ed innumeri sacrifici vicino a quel Mare che accolse le Salme dei Marinai d'Italia."

Torino 4 luglio 1931

venerdì 15 maggio 2020

Umberto di Savoia - Aosta, Conte di Salemi


 di Paolo Casotto

Umberto di Savoia, Conte di  Salemi morì pochi giorni prima della vittoria, trascorse la sua vita di soldato con umiltà e abnegazione. All’inizio delle ostilità si era arruolato volontario come soldato semplice nei “Cavalleggeri Catania”, era stato  più volte spinto a concorrere per il corso da aspirante ufficiale, ma non accettava e non voleva agevolazioni.  Il Conte di Salemi voleva essere soldato fra i soldati, desiderava condividere le fatiche e le passioni degli uomini comuni, soffrire e gioire semplicemente.

Dai “Cavalleggeri Catania” fu trasferito  alle “Guide” e assegnato alla sezione mitragliatrici. Dopo poche settimane ricevette la promozione a Sergente, primo grado della categoria dei Sottufficiali. La sua Unità operava sul fronte trentino, lui viveva con serenità e impegno la trincea, il freddo e l’altitudine.

Venne obbligato ad accettare il grado di Aspirante, fu assegnato ai “Cavalleggeri Treviso”, e combatté con i reparti appiedati sulla Quota 144 sul Carso. Legato affettivamente al suo comandante di Squadrone lo seguì nel nuovo Corpo di assegnazione e diventò bombardiere. Combatté sul monte “Trappola” in Trentino e sul campo di battaglia ricevette la promozione a Sottotenente. Nel maggio 1917 ritornò sul fronte orientale, combatté sulla Plava e poi  a Castagnevizza, venne citato sull’Ordine del Giorno, ricevette la promozione con la seconda stelletta da Tenente e fu decorato con la medaglia d’Argento al Valor militare con una splendida motivazione: “Comandante di sezione della 145^ batteria sulla dolina Conigli, controbattuta da artiglieria pesante rimaneva travolto da terra e rocce assieme ai suoi bombardieri, miracolosamente incolume, pensò subito ai suoi soldati gravemente feriti liberandoli dai rottami e trascinandoli in luogo sicuro”. Vegliava sulla vita dei suoi uomini e ne era di esempio. Il suo titolo gli dava grandi doveri umani, ma anche non voleva ricevere privilegi. Quando gli si offriva sulla linea del fronte, un passaggio in automobile rispondeva: “La guerra l’ho sempre fatta a piedi o tutt’al più in un carro-bagaglio”. Rimase ferito alle gambe a causa  del rovesciamento del camion dove era salito a cassone, attraversando il fiume Isonzo. Appena guarito rientrò alla sua batteria e partecipò alla conquista della Bainsizza dove si guadagnò la seconda medaglia d’Argento al Valor militare. Anche in questa occasione salvò la vita a dei suoi bombardieri travolti dalle rovine dei ricoveri. Dopo la tragedia dello sfondamento del fronte a Caporetto, il Conte di Salemi venne destinato alla 152^ batteria bombarde da 70 sul monte Asolone, nel massiccio del Grappa. Anche sull’Asolone era sempre in prima linea per studiare le azioni e riconoscere il territorio. Il 14 gennaio 1918 rischiò la vita vicino al suo osservatorio, per l’esplosione di un grosso calibro, con tranquillità continuò a operare vicino ai suoi camerati, sentiva fortemente la sua responsabilità di Ufficiale e di Italiano. La batteria rientrò a Bassano per qualche giorno di riposo, in cui continuavano le incursioni notturne con frequenti bombardamenti. Il Conte di Salemi, di notte, operava come barelliere a favore di feriti civili e militari portandoli all’ospedale e per questo suo impegno meritò un encomio. La mattina del 5 febbraio 1918 fu conquistata la prima trincea del Cornone sotto il Sasso Rosso in Valsugana e la batteria di Salemi fu subito inviata sul posto dove perse dodici uomini. Lui si salvò dal destino che non lo volle premiare con una morte in battaglia. In quei mesi operò assieme ai suoi uomini su Col del Rosso, su Col dell’Orso, sempre sulla linea del fuoco, assieme agli umili fanti e costantemente a piedi. La malattia lo colse a Crespano ai piedi del Grappa, una malattia silenziosa, poco conosciuta: la spagnola, ma egli non credeva di morire. Quando intuì, accettò con fermezza il suo destino dopo tante fatiche e tanti pericoli. Morì nella sera del 19 ottobre 1918. Al funerale, avvenuto il 21 ottobre 1918, presenziò S.M. il Re Vittorio Emanuele III, assieme ai vari Principi di casa Savoia.  Celebrò la Santa Messa l’arciprete di Crespano, don Giobatta Ziliotto.


giovedì 14 maggio 2020

Vittorio Amedeo II

di Gianluigi Chiaserotti

Il 14 maggio 1666, 354 anni or sono, nasceva in Torino Vittorio Amedeo II di Savoia, decimoquinto Duca di Savoia. Figlio di Carlo Emanuele II di Savoia (1634-1675) e di Giovanna Battista di Savoia-Nemours.


Di carattere "impétueux et sensible", nonchè "caché et secrèt", ma di un'indole scontrosa e riservata, nascondeva una viva intelligenza, una notevole capacità di osservazione ed una forza di volontà contenuta od abilmente dissimulata.
A lui è dovuta la splendida vittoria, coadiuvato dal Principe Eugenio di Savoia, dopo l'assedio di Torino del 7 settembre 1706.
Con le paci di Utrecht (da Lui sottoscritta il 13 agosto 1713) e di Rastatt (7 marzo 1714) il Duca di Savoia ottenne l'elevazione del Ducato in Regno, divenendo Re di Sicilia.
Al riguardo scrisse Pietro Mellarede: "col Piemonte piglierà il Milanese, con la Sicilia piglierà Napoli".
Nel 1718 il Re scambiò la Sicilia con la Sardegna, assumendo il nuovo e definitivo titolo di Re di Sardegna, divenendone quindi il Primo Re.
Morì il 31 ottobre 1732.
Il regno di Vittorio Amedeo II, la "Volpe" sabauda, è da ricordare dal punto di vista giuridico, culturale, scientifico, ma soprattutto artistico: la Basilica di Superga, il castello della Venaria Reale, la Cittadella di Alessandria, la palazzina di Caccia di Stupinigi, grazie anche alla preziosa collaborazione dello architetto messinese Juvara.
La Basilica di Superga fu edificata grazie al voto che Vittorio Amedeo II fece alla Madonna affinchè intercedesse nella vittoria del 7 settembre 1706. Celebrata la messa sulla chiesetta del Colle di Superga. Fu cantato "Ave Maris Stella", al versetto "monstra Te esse matrem", Vittorio Amedeo si prostrò ai piedi della statua mariana e fece appunto voto che se avesse vinto la battaglia avrebbe costruito sul colle un tempio dedicato alla Madonna. Fu vittoria, come abbiamo visto.
Ancora una volta l'intercessione della Vergine (da Lepanto in poi) fu determinante per una vittoria.
Il 7 settembre, data gloriosa per Torino, è anche la vigilia della Natività di Maria.
Nella Cappella del voto, all'interno della Basilica di Superga, c'è la seguente epigrafe: "Virgini Genitrici/Victorius Amedeus, Sardiniae Rex/Bello Gallico, vovit/Et pulsis hostibus fecit, dedicavitque".
A Vittorio Amedeo II, successe Carlo Emanuele III, poi Vittorio Amedeo III, poi Carlo Emanuele IV, Vittorio Emanuele I, Carlo Felice, ed infine Carlo Alberto.
Sovrani tutti non inclini, anzi contrari, a quella visione liberale del Regno, la quale, per ritrovarla, dovranno trascorrere oltre 100 anni dalla morte di Vittorio Amedeo II, e che si personificò nell'ultimo Re di Sardegna e primo Re d'Italia, Vittorio Emanuele II.
Il Regno di Vittorio Amedeo II fu un'anticipazione di quello che sarà il Regno d'Italia, sotto l'illuminata guida sabauda.

martedì 12 maggio 2020

Il libro azzurro sul referendum - XIX cap - 2


Il verbale delle Corte di Cassazione - 18 giugno 1946
(Relativo al giudizio definitivo sulle contestazioni, le proteste e i reclami di
cui all'art. 19 D.L.L. 29 aprile 1946, n. 219).
L'anno millenovecentoquarantasei il giorno 18 giugno alle ore 18 nel Palazzo del Parlamento.
La Corte Suprema di Cassazione si è riunita per procedere alle operazioni
di cui all'art. 19 Decreto Legislativo Luogotenenziale 23 aprile 1946, n. 219.
Sono presenti i signori:
Pagano dott. Giuseppe, Primo Presidente;
Brigante dott. Saverio, Presidente di Sezione;
Pellegrini dott. Francesco, Presidente di Sezione;
Dato dott. Giuseppe, Presidente di Sezione;
Colagrosso dott. prof. Enrico, Presidente di Sezione;
Curcio dott. Francesco, Presidente di Sezione;
Vitali dott. Giovanni, Consigliere;
Piacentini dott. Mariano, Consigliere;
Martorana dott. prof. Michele, Consigliere;
Zappulli dott. Carlo, Consigliere;
Pasquale dott. Rocco, Consigliere;
Chieppa dott. Pasquale, Consigliere;
Gabrieli dott. prof. Francesco Pantaleo, Consigliere;
Pasquera dott. Filippo, Consigliere;
Fierimonte dott. Giuseppe, Consigliere;
Mancini dott. Rodolfo, Consigliere;
Chieppa dott. Vincenzo, Consigliere;
D'Apolito dott. Giuseppe, Consigliere;
Interviene il signor Pilotti dott. Massimo - Procuratore Generale presso la Corte Suprema;
Assiste il signor Cesareo Emilio - Cancelliere Capo della Corte Suprema di Cassazione con, funzioni di Segretario.
Con riferimento all'ultima parte del verbale della sua precedente adunanza
in data 10 corrente mese di giugno.
La Corte
I. Dà atto che, sentite le conclusioni del Procuratore Generale, ha emesso giudizio definitivo, sulle contestazioni, le proteste ed i reclami concernenti lo svolgimento delle operazioni relative al referendum.
Si uniscono- all'esemplare del presente verbale, che sarà depositato nella Cancelleria della Corte Suprema di Cassazione, i fascicoli contenenti le decisioni relative a tutti i reclami, le contestazioni e le proteste sottoposti all'esame della Corte; fascicoli che costituiscono gli allegati dai numeri I a 12 e che formano parti integranti del verbale medesimo.
Da tali decisioni risulta che complessivamente sono da apportare alle som­me dei voti proclamate nella adunanza del 10 corrente le modificazioni di cui appresso:
a)  da sottrarre ai voti attribuiti alla repubblica : n. 4 voti;
b) da sottrarre ai voti attribuiti alla monarchia : n. 30 voti;
c)  da aggiungere ai voti attribuiti alla repubblica : n. 18 voti;
d) da aggiungere ai voti attribuiti alla monarchia : n. 25 voti.
2° Integra i risultati suddetti coi dati delle sezioni mancanti all'atto della proclamazione del 10 giugno.
Si unisce, come sopra, al presente verbale un elenco (allegato n. 23) dei dati relativi alle sezioni mancanti, in base al quale sono da apportare ai risul­tati del referendum pubblicati il 10 giugno le seguenti aggiunzioni:
a)   voti attribuiti alla Repubblica : n. 45.142;
b)  voti attribuiti alla Monarchia : n. 30.384.
3° Premesso che la Corte ha ritenuto che per «maggioranza degli elettori votanti» di cui parla l'art. 2 del Decreto Legislativo Luogotenenziale 16 marzo 1946, n. 98, deve intendersi maggioranza degli elettori che hanno espresso voti validi.
Dà atto ché i voti validi complessivi a favore della
Repubblica sono 12.717.923 (dodicimilioni settecentodiciassettemila novecentoventitre)
e quelli a favore della
Monarchia sono 10.719.284 (diecimilionisettecentodiciannovemiladuecentottantaquattro)
e che pertanto la maggioranza degli elettori votanti si è pronunciata in favore della Repubblica.
4° Dà atto che i voti nulli sono complessivamente in numero di 1.498.136 (unmilionequattrocentonovantottomilacentotrentasei).
Del che è verbale.

Il Cancelliere Capo
E. CESAREO

Il Primo Presidente 
G. PAGANO