La vera emergenza è “lo Stato in Emergenza”
Ma davvero leggi, ordinanze e circolari vanno
eseguite e rispettate con religiosa devozione? Se così fosse saremmo ancora al
trapassato remoto, proni a Poteri via via implosi per corrosione interna o
travolti perché non più rispondenti al “comune sentire”, cangiante nel tempo e
nei luoghi.
Questa considerazione, apparentemente banale
invero, si impone a cospetto del diluvio di “norme” da quattro mesi deliberate
dal governo, dal presidente del Consiglio, Sua Emergenza Conte, da ministri
(quali la dottoressa Lamorgese e l'on. Speranza) e via via discendendo per li
rami. Ora l'INAIL pretende di imputare al datore l'eventuale contagio da
Covid-19 del proprio dipendente: ciò sulla base della presunzione che esso sia
avvenuto sul luogo di lavoro e non, magari, altrove e per chissà quali altre
promiscuità. Ciò costituirebbe un precedente del tutto abnorme, anche perché
privo di qualunque fondamento scientifico e di “prove” attendibili. Potrebbe
valere per qualunque malattia, quasi che una persona, succuba del “negriero”,
si ammali solo durante le ore di lavoro e non quando, nel tempo libero, va a
fare bisboccia con chi gli pare.
“Le leggi son, ma chi pon mano ad esse?” fa dire Dante Alighieri da Marco
Lombardo dinnanzi alla servitù dell'Italia, prona ai famelici disegni
“stranieri” e alla pochezza dei suoi “signori” locali, quasi sempre peggiori
degli altri. La questione, oggi, non è di “porre mano” alle leggi, ma di
passarle al setaccio per separare la farina di quelle buone dalla crusca delle
oscure, farraginose, insensate e, in sintesi, “cattive”: parecchie da molti
anni. Queste, anche se recenti, vanno abrogate alla svelta prima che la loro
inapplicabilità e il rifiuto di piegarsi alla loro stolida tirannia salgano
sino a divenire sfiducia totale nei confronti del legislatore e di una
“legalità” da tempo in manifesto conflitto con i capisaldi della Costituzione.
Se la Carta segna un prima e un poi nella storia d'Italia e, in quanto tale, è
la cornice nella quale si riconoscono i suoi cittadini, quale ne sia la loro
opinione sulla forma dello Stato, il primo a doverne rispettare i
“principi fondamentali” dev'essere
appunto il legislatore, che è e rimane il Parlamento. Infatti “l'esercizio
della funzione legislativa non può essere delegato al governo se non con
determinazione di principi e criteri direttivi” e soltanto “per tempo limitato
e per oggetti definiti”, mentre il governo “adotta provvedimenti provvisori con
forza di legge” solo “per delegazione delle Camere” e “in casi straordinari di
necessità e di urgenza”.
Quando discussero e approvarono gli articoli
76-78 della Carta, con una visione unitaria della loro concatenazione, i costituenti
avevano ben presente che dall'agosto del 1917, molto prima di Caporetto, gran
parte dell'Italia settentrionale fu dichiarata “zona di guerra”, perché
manifestamente infetta da sobillazioni rivoluzionarie, come accadde a Torino.
Tale misura comportava l'adozione della legge marziale, con quanto ne
discendeva per il controllo di luoghi e persone, e l'impiego del codice penale
militare, come sarebbe accaduto il 28-29 ottobre 1922 se Vittorio Emanuele III
non avesse saggiamente rifiutato di decretare lo stato d'assedio, dal momento
che la crisi extraparlamentare grazie a lui stava imboccando la via
istituzionale. Guerra, rivolte e catastrofi naturali sono casi straordinari di
necessità e urgenza. La diffusione di un morbo per sua natura non lo è perché
quando assume carattere di epidemia o viene dichiarata pandemia ha superato i
confini dell'urgenza e va affrontata con misure vaste e durevoli, l'opposto di
quanto è avvenuto in Italia, ove da mesi dura l'improvvisazione.
Ora, dopo centoventi giorni dal primo tardivo
“allarme” lanciato da Sua Emergenza (all'epoca poco convinto e mai
convincente), urge il ritorno all'articolo 70 della Costituzione: “La funzione
legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere” e dagli “organi ed
enti ai quali sia conferita da legge costituzionale” (le Regioni). Va pertanto
fermato il proposito ventilato dal prof. Conte di protrarre lo stato di
emergenza per altri sei mesi, magari a suon di decreti presidenziali o di
decreti legge in “vacanza” delle Camere o per loro svaporamento nell'esercizio
delle funzioni. L'emergenza sanitaria, enfatizzata oltre misura, non può
degenerare e sboccare in uno “Stato in emergenza permanente” se non mettendo a
rischio la democrazia parlamentare sopravvissuta alla decomposizione e alla
scomparsa dei partiti del CLN (i cui acronimi suonano oscuri a giovani e meno
giovani: DC, PCI, PSI, PLI, PdA, DL), agli “anni di piombo” (ne ha scritto
recentemente Gianni Oliva) e alle ripercussioni degli ondivaghi pronunciamenti
dell'elettorato sulla governabilità del Paese.
Mussolini, artefice del regime di partito unico
All'inizio del “regime di partito unico”, cioè
del “fascismo” come esercizio del potere da parte del “capo del governo”, vi fu
una legge approvata dalle Camere: passaggio al quale Benito Mussolini non si
sottrasse, perché, gli piacesse o meno, per lo Statuto Albertino (come poi per
la Costituzione della Repubblica) erano esse fonte del diritto. Ma il “duce del
fascismo” (movimento? rivoluzione? regime? gli storici sono ancora divisi al
riguardo, ma si veda almeno la trilogia di Roberto Vivarelli sulle origini del
fascismo) riuscì nell'intento di estorcere l'assenso del Parlamento usando
metodi brutali per piegarlo ai suoi disegni, nell'apparente continuità
statutaria. Per giungervi mirò a isolare il Re, a tarparne l'esercizio palese
della funzione, ad avvolgere la monarchia nelle nebbie delle organizzazioni di
massa allestite per oscurare i pilastri portanti dell'Italia unita (le Forze
Armate e l'ordine giudiziario) con la Milizia volontaria per la sicurezza
nazionale, con le organizzazioni para-fasciste e con la fascistizzazione di
quelle di antica data, dapprima neutre ma da un certo momento in poi
contaminate dall'aggiunta sistematica dell'aggettivo “fascista”. Questo
inizialmente fu accettato o subìto quale orpello esornativo ma via via divenne
scorza per separare i cittadini buoni dai cattivi, gli allineati col regime
dagli altri. Quel processo si sostanziò in oltre tre milioni di tesserati al
partito (quando nel 1942 esso raggiunse l'acme del “consenso”) e una decina di
milioni di associati al “Dopolavoro” e alla pletora di enti, istituti e
sodalizi debitamente ornati dalla fatidica “F”. Così accadde, per esempio, che
per assicurarsi una supplenza in una scuola di Saluzzo il giovane Cesare Pavese
chiese la tessera del PNF mentre Ada Gobetti, vedova di Piero, obtorto collo
rimediò l'iscrizione all’Associazione “fascista” degli insegnanti, che
comportava vantaggi nella vita quotidiana per chi da Torino doveva raggiungere
la cattedra al liceo di Savigliano. Poste dinnanzi all'alternativa tra
fascistizzazione e difesa della propria identità, molti sodalizi scelsero
l'auto-scioglimento. Fu il caso del Circolo 'L Caprìssi di Cuneo, che contava
centinaia di associati liberi, di buoni costumi, mai proni.
L'incipiente regime di partito unico sapeva di
dover fare i conti non solo con la Monarchia (nel cui ambito il governo
Mussolini fu sempre come il meno nel più: se n'ebbe conferma il 25 luglio 1943)
ma anche con due Entità metastoriche: la Chiesa cattolica e la Massoneria. Con
la Santa Sede il duce avviò una composizione disputante. Iniziò con il
salvataggio del vaticanesco Banco di Roma nel 1923 e approdò ai Patti
Lateranensi l'11 febbraio 1929. Questi non furono affatto “Conciliazione”, se
per tale s’intende convergenza di amorosi sensi, ma segnarono i confini tra
Stato e Chiesa, tra il Regno d’Italia e lo Stato della Città del Vaticano:
preludio di tensioni, anche aspre, quanto più il regime mirò ad andare oltre
l'amministrazione dei corpi, puntò al possesso delle anime ed entrò in
collisione con l'Azione Cattolica e la FUCI, Federazione Universitaria
Cattolica Italiana, vivaio della classe dirigente postbellica, prevalentemente
democristiana, alternativa ai Gruppi Universitari Fascisti (GUF), che contarono
nelle loro file Giorgio Bocca e Leonilde Jotti.
Nei confronti dell'altra Entità metastorica, la
Massoneria, Mussolini puntò alla soluzione perseguita da quando nel 1914 fece
espellere i “fratelli” dal Partito socialista italiano, nella cui ala
rivoluzionaria militava. Era sicuro che il suo annientamento sarebbe stato
gradito all'altra riva del Tevere. Perciò la genesi e il varo della “legge
contro la Massoneria”, che occupò l'intero 1925, merita più attenzione di
quella sinora dedicatagli dalla storiografia, ordinariamente riluttante a
occuparsi della Setta Verde. Mentre all'Università di Cuba esistono da anni
Istituti e cattedre di storia della massoneria e in Costa Rica non ci si occupa
solo di ananas e banane ma anche di esoterismo, misteriosofia e massonismo, in
Italia il tema rimane un tabù, tra sussiegosa irrisione e allarmato sospetto
verso chi se ne occupa non in termini apologetici ma scientifici.
Il 16 giugno 1925: unica sconfitta di
Mussolini...
Il 17 maggio 1925 i quotidiani uscirono a
titoli cubitali. Contro tutte le previsioni, il giorno prima la ormai famosa
“legge contro la Massoneria” non era stata approvata dalla Camera dei deputati,
presieduta da Antonio Casertano, originariamente socialisteggiante, massone e
infine fascista. Fu l'unica bruciante sconfitta parlamentare di Mussolini nei
ventun anni dal novembre 1922 alla sua destituzione da capo del governo. Il
duce s'infuriò anche perché, sicuro del trionfo, aveva presenziato alla seduta
e era intervenuto ripetutamente nel dibattito. Che cosa accadde? Quasi al
termine della seduta, dopo una serqua di leggine irrilevanti, la Camera approvò
l'ammissione delle donne alle elezioni dei consigli comunali e provinciali: una
vittoria di Pirro per i fautori del voto femminile, poiché pochi mesi dopo
quegli stessi organi furono sostituiti da podestà e “prèsidi” (poi
governatori), di nomina governativa o prefettizia. La legge fu approvata da 212
deputati sui 242 presenti; 28 votarono contro, due si astennero. Subito dopo si
aprì la vera partita del giorno: la discussione preliminare della
“regolarizzazione di Associazioni, Enti e Istituti e sull'appartenenza ai
medesimi del personale dipendente dallo Stato, dalle province, dai comuni e da
enti sottoposti per legge alla loro tutela”. Poiché al termine dell'esame
generale fu astutamente chiesta la votazione per appello nominale prima del
passaggio alla discussione degli articoli, il segretario della Camera, Angelo
Manaresi, iniziò a far votare partendo dal deputato Amato Di Fausto, ragioniere,
estratto a sorte. Al termine della “chiama”, il presidente prese atto che la
Camera non era in numero legale per deliberare. Il verbale non dice quanti
abbiano risposto. Di certo erano anche meno dei 242 di poco prima, un numero
molto lontano dai 535 deputati in carica. Anche a non contare le opposizioni
(socialisti, repubblicani, popolari, democratici seguaci di Giovanni Amendola:
arroccati sul cosiddetto “Aventino”, un colle politicamente sterile), balzò
agli occhi l'assenza compatta dei liberali e, scandalosa per Mussolini, anche
di molti fascisti. Il “Serpente Verde”, come la Libera Muratorìa era detta dai
massonofagi, ancora una volta aveva affondato i suoi denti avvelenati nelle
carni di chi la voleva morta?
Un puntuale confronto tra i presenti e l'elenco
dei deputati fascisti in carica e assenti giustificati non è mai stato
compiuto. Di sicuro a favore della legge votarono fascisti di spicco certamente
massoni, anche se da tempo “in sonno”, cioè non più usi a frequentare le logge.
Fu il caso di Giacomo Acerbo, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, di
Italo Balbo e di Edmondo Rossoni, tutti affiliati alla Gran Loggia d'Italia, e
di Alessandro Dudan, Roberto Farinacci e Achille Starace, iniziati al Grande
Oriente d'Italia. Tra i massoni “di passo” e da tempo in congedo votarono
Giuseppe Bottai e Araldo Crollalanza, entrambi della Gran Loggia.
La seduta del 16 maggio 1925 rimase memorabile
per l'elevato tenore degli interventi svolti dallo storico Gioacchino Volpe,
dal paleo-fascista Massimo Rocca, dal clericale Egilberto Martire e soprattutto
da Antonio Gramsci, secondo il quale la massoneria era stata il partito della
borghesia e quindi sarebbe divenuta un'ala del fascismo che ne era
l'espressione sorta dalla guerra. Votò contro la legge non per simpatia verso
le logge ma perché essa preludeva al regime di partito unico attraverso il
divieto dei partiti di opposizione, incluso il partito comunista d'Italia,
depositario della rivoluzione del proletariato. Nel suo intervento, in linea
con la Terza Internazionale di Mosca, ispirata da Lenin e Trotzky, Gramsci
implicitamente precorse la condanna dei riformisti come social-fascisti.
...e la sua rivincita e “orma profonda”.
Il 19, debitamente rimessa in linea, la Camera
approvò la legge da tutti detta “contro la Massoneria” anche se nel suo titolo
la “parolaccia” non compariva. La partita si spostò in Senato, presieduto da
Tommaso Tittoni (sospettato di affiliazione massonica), ove i “patres” in
camicia nera erano una minoranza esigua e sembrava prevalere la tradizione
liberal-risorgimentale, laica e tollerante, condivisa dalla Corona. Come
venirne a capo? Mussolini adottò le maniere forti. Ripresero gli assalti
squadristi alle logge, che furono saccheggiate, mentre callidi camaleonti ne
asportarono gli archivi per far sparire la traccia della loro affiliazione. Il
colpo da maestro fu pilotare l'organizzazione dell'attentato a Mussolini da
parte dell'ingenuo Tito Zaniboni (mai massone), il 4 novembre. L'indomani il
generale Luigi Capello, alto dignitario del Grande Oriente, fu arrestato a
Torino per supposta ma mai provata complicità con Zaniboni. Seguì un'impennata
di attentati alle logge e di delitti, mentre ministro dell'Interno era il
nazional-fascista Luigi Federzoni, da sempre massonofago. La canaglia invocò
l'immediato ripristino della pena di morte per gli antifascisti.
Dopo tre giorni di dibattito il Senato approvò.
Contro la legge parlarono Benedetto Croce e Francesco Ruffini, docente insigne
di diritto ecclesiastico. Fu il canto del cigno del liberalismo italiano. Non
intervennero senatori massoni, come Salvatore Barzilai, per non incattivire il
duce. Quella “timidezza” indignò i “fratelli di base” che temevano di finire
cacciati dagli impieghi, malmenati, costretti all'esilio.
Fu una pagina buia della storia d'Italia.
Ignorando o fingendo di non sapere, Mussolini continuò a circondarsi di massoni
“capaci e meritevoli” sia del Grande Oriente sia della Gran Loggia d'Italia. La
libertà della ricerca umanistica ne rimase pesantemente condizionata. La
plurisecolare Accademia dei Lincei cedette il passo all'Accademia d'Italia. Con
le leggi razziali del 1938 avvenne di peggio. Tornò in auge l'autore di Giudaismo-bolscevismo-plutocrazia-massoneria,
uno spretato che nel 1920 pubblicò per primo in Italia I protocolli dei Savi
anziani di Sion.
Ma va detto che anche oggi, con i decreti-legge
governativi e quelli di Sua Emergenza si riaprono bar, ristoranti, palestre e
piscine e si spalancano le porte dei centri estetici ma non quelle dei centri
culturali. E' il segno più emblematico della distrazione di massa inoculata
nella società italiana dal regime emergenziale, con effetti che solo alcuni
presaghi intuiscono. Per gli altri, la stragrande maggioranza, di cultura e di
libertà dello spirito poco importava prima, poco importerà domani.
Sul Parlamento che si piegò supino al diktat
massonofago del “Truce” scende lapidario il brocardo (che vale anche per altri
o altre comparse dei giorni nostri): “Coactus voluit, sed voluit”. La sua
connivenza col fascismo pertanto non può essere considerata “nulla”, anche se
poi venne “annullata” dalla riscossa antifascista. La legge del 1925 fu
approvata da persone consapevoli delle loro azioni e di quanto ne sarebbe
derivato. Essa rimane una macchia indelebile nella storia del Parlamento.
L'antimassonismo ha poi proiettato la sua ombra lugubre sui tre quarti di
secolo che separano l'Italia odierna dalla fine del regime di partito unico.
Anche in questo Mussolini ha lasciato “orma profonda”, più di quanto
solitamente si ammetta.
Aldo A. Mola
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