NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

lunedì 18 maggio 2020

Contro la Massoneria la prima legge “fascistissima” (1925)


di Aldo A. Mola

La vera emergenza è “lo Stato in Emergenza”
Ma davvero leggi, ordinanze e circolari vanno eseguite e rispettate con religiosa devozione? Se così fosse saremmo ancora al trapassato remoto, proni a Poteri via via implosi per corrosione interna o travolti perché non più rispondenti al “comune sentire”, cangiante nel tempo e nei luoghi.
Questa considerazione, apparentemente banale invero, si impone a cospetto del diluvio di “norme” da quattro mesi deliberate dal governo, dal presidente del Consiglio, Sua Emergenza Conte, da ministri (quali la dottoressa Lamorgese e l'on. Speranza) e via via discendendo per li rami. Ora l'INAIL pretende di imputare al datore l'eventuale contagio da Covid-19 del proprio dipendente: ciò sulla base della presunzione che esso sia avvenuto sul luogo di lavoro e non, magari, altrove e per chissà quali altre promiscuità. Ciò costituirebbe un precedente del tutto abnorme, anche perché privo di qualunque fondamento scientifico e di “prove” attendibili. Potrebbe valere per qualunque malattia, quasi che una persona, succuba del “negriero”, si ammali solo durante le ore di lavoro e non quando, nel tempo libero, va a fare bisboccia con chi gli pare.
“Le leggi son, ma chi pon mano ad  esse?” fa dire Dante Alighieri da Marco Lombardo dinnanzi alla servitù dell'Italia, prona ai famelici disegni “stranieri” e alla pochezza dei suoi “signori” locali, quasi sempre peggiori degli altri. La questione, oggi, non è di “porre mano” alle leggi, ma di passarle al setaccio per separare la farina di quelle buone dalla crusca delle oscure, farraginose, insensate e, in sintesi, “cattive”: parecchie da molti anni. Queste, anche se recenti, vanno abrogate alla svelta prima che la loro inapplicabilità e il rifiuto di piegarsi alla loro stolida tirannia salgano sino a divenire sfiducia totale nei confronti del legislatore e di una “legalità” da tempo in manifesto conflitto con i capisaldi della Costituzione. Se la Carta segna un prima e un poi nella storia d'Italia e, in quanto tale, è la cornice nella quale si riconoscono i suoi cittadini, quale ne sia la loro opinione sulla forma dello Stato, il primo a doverne rispettare i “principi  fondamentali” dev'essere appunto il legislatore, che è e rimane il Parlamento. Infatti “l'esercizio della funzione legislativa non può essere delegato al governo se non con determinazione di principi e criteri direttivi” e soltanto “per tempo limitato e per oggetti definiti”, mentre il governo “adotta provvedimenti provvisori con forza di legge” solo “per delegazione delle Camere” e “in casi straordinari di necessità e di urgenza”.
Quando discussero e approvarono gli articoli 76-78 della Carta, con una visione unitaria della loro concatenazione, i costituenti avevano ben presente che dall'agosto del 1917, molto prima di Caporetto, gran parte dell'Italia settentrionale fu dichiarata “zona di guerra”, perché manifestamente infetta da sobillazioni rivoluzionarie, come accadde a Torino. Tale misura comportava l'adozione della legge marziale, con quanto ne discendeva per il controllo di luoghi e persone, e l'impiego del codice penale militare, come sarebbe accaduto il 28-29 ottobre 1922 se Vittorio Emanuele III non avesse saggiamente rifiutato di decretare lo stato d'assedio, dal momento che la crisi extraparlamentare grazie a lui stava imboccando la via istituzionale. Guerra, rivolte e catastrofi naturali sono casi straordinari di necessità e urgenza. La diffusione di un morbo per sua natura non lo è perché quando assume carattere di epidemia o viene dichiarata pandemia ha superato i confini dell'urgenza e va affrontata con misure vaste e durevoli, l'opposto di quanto è avvenuto in Italia, ove da mesi dura l'improvvisazione.    
Ora, dopo centoventi giorni dal primo tardivo “allarme” lanciato da Sua Emergenza (all'epoca poco convinto e mai convincente), urge il ritorno all'articolo 70 della Costituzione: “La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere” e dagli “organi ed enti ai quali sia conferita da legge costituzionale” (le Regioni). Va pertanto fermato il proposito ventilato dal prof. Conte di protrarre lo stato di emergenza per altri sei mesi, magari a suon di decreti presidenziali o di decreti legge in “vacanza” delle Camere o per loro svaporamento nell'esercizio delle funzioni. L'emergenza sanitaria, enfatizzata oltre misura, non può degenerare e sboccare in uno “Stato in emergenza permanente” se non mettendo a rischio la democrazia parlamentare sopravvissuta alla decomposizione e alla scomparsa dei partiti del CLN (i cui acronimi suonano oscuri a giovani e meno giovani: DC, PCI, PSI, PLI, PdA, DL), agli “anni di piombo” (ne ha scritto recentemente Gianni Oliva) e alle ripercussioni degli ondivaghi pronunciamenti dell'elettorato sulla governabilità del Paese.

Mussolini, artefice del regime di partito unico
All'inizio del “regime di partito unico”, cioè del “fascismo” come esercizio del potere da parte del “capo del governo”, vi fu una legge approvata dalle Camere: passaggio al quale Benito Mussolini non si sottrasse, perché, gli piacesse o meno, per lo Statuto Albertino (come poi per la Costituzione della Repubblica) erano esse fonte del diritto. Ma il “duce del fascismo” (movimento? rivoluzione? regime? gli storici sono ancora divisi al riguardo, ma si veda almeno la trilogia di Roberto Vivarelli sulle origini del fascismo) riuscì nell'intento di estorcere l'assenso del Parlamento usando metodi brutali per piegarlo ai suoi disegni, nell'apparente continuità statutaria. Per giungervi mirò a isolare il Re, a tarparne l'esercizio palese della funzione, ad avvolgere la monarchia nelle nebbie delle organizzazioni di massa allestite per oscurare i pilastri portanti dell'Italia unita (le Forze Armate e l'ordine giudiziario) con la Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, con le organizzazioni para-fasciste e con la fascistizzazione di quelle di antica data, dapprima neutre ma da un certo momento in poi contaminate dall'aggiunta sistematica dell'aggettivo “fascista”. Questo inizialmente fu accettato o subìto quale orpello esornativo ma via via divenne scorza per separare i cittadini buoni dai cattivi, gli allineati col regime dagli altri. Quel processo si sostanziò in oltre tre milioni di tesserati al partito (quando nel 1942 esso raggiunse l'acme del “consenso”) e una decina di milioni di associati al “Dopolavoro” e alla pletora di enti, istituti e sodalizi debitamente ornati dalla fatidica “F”. Così accadde, per esempio, che per assicurarsi una supplenza in una scuola di Saluzzo il giovane Cesare Pavese chiese la tessera del PNF mentre Ada Gobetti, vedova di Piero, obtorto collo rimediò l'iscrizione all’Associazione “fascista” degli insegnanti, che comportava vantaggi nella vita quotidiana per chi da Torino doveva raggiungere la cattedra al liceo di Savigliano. Poste dinnanzi all'alternativa tra fascistizzazione e difesa della propria identità, molti sodalizi scelsero l'auto-scioglimento. Fu il caso del Circolo 'L Caprìssi di Cuneo, che contava centinaia di associati liberi, di buoni costumi, mai proni.
L'incipiente regime di partito unico sapeva di dover fare i conti non solo con la Monarchia (nel cui ambito il governo Mussolini fu sempre come il meno nel più: se n'ebbe conferma il 25 luglio 1943) ma anche con due Entità metastoriche: la Chiesa cattolica e la Massoneria. Con la Santa Sede il duce avviò una composizione disputante. Iniziò con il salvataggio del vaticanesco Banco di Roma nel 1923 e approdò ai Patti Lateranensi l'11 febbraio 1929. Questi non furono affatto “Conciliazione”, se per tale s’intende convergenza di amorosi sensi, ma segnarono i confini tra Stato e Chiesa, tra il Regno d’Italia e lo Stato della Città del Vaticano: preludio di tensioni, anche aspre, quanto più il regime mirò ad andare oltre l'amministrazione dei corpi, puntò al possesso delle anime ed entrò in collisione con l'Azione Cattolica e la FUCI, Federazione Universitaria Cattolica Italiana, vivaio della classe dirigente postbellica, prevalentemente democristiana, alternativa ai Gruppi Universitari Fascisti (GUF), che contarono nelle loro file Giorgio Bocca e Leonilde Jotti.

Nei confronti dell'altra Entità metastorica, la Massoneria, Mussolini puntò alla soluzione perseguita da quando nel 1914 fece espellere i “fratelli” dal Partito socialista italiano, nella cui ala rivoluzionaria militava. Era sicuro che il suo annientamento sarebbe stato gradito all'altra riva del Tevere. Perciò la genesi e il varo della “legge contro la Massoneria”, che occupò l'intero 1925, merita più attenzione di quella sinora dedicatagli dalla storiografia, ordinariamente riluttante a occuparsi della Setta Verde. Mentre all'Università di Cuba esistono da anni Istituti e cattedre di storia della massoneria e in Costa Rica non ci si occupa solo di ananas e banane ma anche di esoterismo, misteriosofia e massonismo, in Italia il tema rimane un tabù, tra sussiegosa irrisione e allarmato sospetto verso chi se ne occupa non in termini apologetici ma scientifici.

Il 16 giugno 1925: unica sconfitta di Mussolini...
Il 17 maggio 1925 i quotidiani uscirono a titoli cubitali. Contro tutte le previsioni, il giorno prima la ormai famosa “legge contro la Massoneria” non era stata approvata dalla Camera dei deputati, presieduta da Antonio Casertano, originariamente socialisteggiante, massone e infine fascista. Fu l'unica bruciante sconfitta parlamentare di Mussolini nei ventun anni dal novembre 1922 alla sua destituzione da capo del governo. Il duce s'infuriò anche perché, sicuro del trionfo, aveva presenziato alla seduta e era intervenuto ripetutamente nel dibattito. Che cosa accadde? Quasi al termine della seduta, dopo una serqua di leggine irrilevanti, la Camera approvò l'ammissione delle donne alle elezioni dei consigli comunali e provinciali: una vittoria di Pirro per i fautori del voto femminile, poiché pochi mesi dopo quegli stessi organi furono sostituiti da podestà e “prèsidi” (poi governatori), di nomina governativa o prefettizia. La legge fu approvata da 212 deputati sui 242 presenti; 28 votarono contro, due si astennero. Subito dopo si aprì la vera partita del giorno: la discussione preliminare della “regolarizzazione di Associazioni, Enti e Istituti e sull'appartenenza ai medesimi del personale dipendente dallo Stato, dalle province, dai comuni e da enti sottoposti per legge alla loro tutela”. Poiché al termine dell'esame generale fu astutamente chiesta la votazione per appello nominale prima del passaggio alla discussione degli articoli, il segretario della Camera, Angelo Manaresi, iniziò a far votare partendo dal deputato Amato Di Fausto, ragioniere, estratto a sorte. Al termine della “chiama”, il presidente prese atto che la Camera non era in numero legale per deliberare. Il verbale non dice quanti abbiano risposto. Di certo erano anche meno dei 242 di poco prima, un numero molto lontano dai 535 deputati in carica. Anche a non contare le opposizioni (socialisti, repubblicani, popolari, democratici seguaci di Giovanni Amendola: arroccati sul cosiddetto “Aventino”, un colle politicamente sterile), balzò agli occhi l'assenza compatta dei liberali e, scandalosa per Mussolini, anche di molti fascisti. Il “Serpente Verde”, come la Libera Muratorìa era detta dai massonofagi, ancora una volta aveva affondato i suoi denti avvelenati nelle carni di chi la voleva morta?
Un puntuale confronto tra i presenti e l'elenco dei deputati fascisti in carica e assenti giustificati non è mai stato compiuto. Di sicuro a favore della legge votarono fascisti di spicco certamente massoni, anche se da tempo “in sonno”, cioè non più usi a frequentare le logge. Fu il caso di Giacomo Acerbo, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, di Italo Balbo e di Edmondo Rossoni, tutti affiliati alla Gran Loggia d'Italia, e di Alessandro Dudan, Roberto Farinacci e Achille Starace, iniziati al Grande Oriente d'Italia. Tra i massoni “di passo” e da tempo in congedo votarono Giuseppe Bottai e Araldo Crollalanza, entrambi della Gran Loggia.
La seduta del 16 maggio 1925 rimase memorabile per l'elevato tenore degli interventi svolti dallo storico Gioacchino Volpe, dal paleo-fascista Massimo Rocca, dal clericale Egilberto Martire e soprattutto da Antonio Gramsci, secondo il quale la massoneria era stata il partito della borghesia e quindi sarebbe divenuta un'ala del fascismo che ne era l'espressione sorta dalla guerra. Votò contro la legge non per simpatia verso le logge ma perché essa preludeva al regime di partito unico attraverso il divieto dei partiti di opposizione, incluso il partito comunista d'Italia, depositario della rivoluzione del proletariato. Nel suo intervento, in linea con la Terza Internazionale di Mosca, ispirata da Lenin e Trotzky, Gramsci implicitamente precorse la condanna dei riformisti come social-fascisti.

...e la sua rivincita e “orma profonda”.
Il 19, debitamente rimessa in linea, la Camera approvò la legge da tutti detta “contro la Massoneria” anche se nel suo titolo la “parolaccia” non compariva. La partita si spostò in Senato, presieduto da Tommaso Tittoni (sospettato di affiliazione massonica), ove i “patres” in camicia nera erano una minoranza esigua e sembrava prevalere la tradizione liberal-risorgimentale, laica e tollerante, condivisa dalla Corona. Come venirne a capo? Mussolini adottò le maniere forti. Ripresero gli assalti squadristi alle logge, che furono saccheggiate, mentre callidi camaleonti ne asportarono gli archivi per far sparire la traccia della loro affiliazione. Il colpo da maestro fu pilotare l'organizzazione dell'attentato a Mussolini da parte dell'ingenuo Tito Zaniboni (mai massone), il 4 novembre. L'indomani il generale Luigi Capello, alto dignitario del Grande Oriente, fu arrestato a Torino per supposta ma mai provata complicità con Zaniboni. Seguì un'impennata di attentati alle logge e di delitti, mentre ministro dell'Interno era il nazional-fascista Luigi Federzoni, da sempre massonofago. La canaglia invocò l'immediato ripristino della pena di morte per gli antifascisti.
Dopo tre giorni di dibattito il Senato approvò. Contro la legge parlarono Benedetto Croce e Francesco Ruffini, docente insigne di diritto ecclesiastico. Fu il canto del cigno del liberalismo italiano. Non intervennero senatori massoni, come Salvatore Barzilai, per non incattivire il duce. Quella “timidezza” indignò i “fratelli di base” che temevano di finire cacciati dagli impieghi, malmenati, costretti all'esilio.
Fu una pagina buia della storia d'Italia. Ignorando o fingendo di non sapere, Mussolini continuò a circondarsi di massoni “capaci e meritevoli” sia del Grande Oriente sia della Gran Loggia d'Italia. La libertà della ricerca umanistica ne rimase pesantemente condizionata. La plurisecolare Accademia dei Lincei cedette il passo all'Accademia d'Italia. Con le leggi razziali del 1938 avvenne di peggio. Tornò in auge l'autore di Giudaismo-bolscevismo-plutocrazia-massoneria, uno spretato che nel 1920 pubblicò per primo in Italia I protocolli dei Savi anziani di Sion.
Ma va detto che anche oggi, con i decreti-legge governativi e quelli di Sua Emergenza si riaprono bar, ristoranti, palestre e piscine e si spalancano le porte dei centri estetici ma non quelle dei centri culturali. E' il segno più emblematico della distrazione di massa inoculata nella società italiana dal regime emergenziale, con effetti che solo alcuni presaghi intuiscono. Per gli altri, la stragrande maggioranza, di cultura e di libertà dello spirito poco importava prima, poco importerà domani.
Sul Parlamento che si piegò supino al diktat massonofago del “Truce” scende lapidario il brocardo (che vale anche per altri o altre comparse dei giorni nostri): “Coactus voluit, sed voluit”. La sua connivenza col fascismo pertanto non può essere considerata “nulla”, anche se poi venne “annullata” dalla riscossa antifascista. La legge del 1925 fu approvata da persone consapevoli delle loro azioni e di quanto ne sarebbe derivato. Essa rimane una macchia indelebile nella storia del Parlamento. L'antimassonismo ha poi proiettato la sua ombra lugubre sui tre quarti di secolo che separano l'Italia odierna dalla fine del regime di partito unico. Anche in questo Mussolini ha lasciato “orma profonda”, più di quanto solitamente si ammetta.

Aldo A. Mola


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