Due giugno. Festa perché?
Festa per chi?
di Aldo A. Mola
Che cosa festeggiare questo 2
giugno 2020? La catastrofe del sistema scolastico italiano? Una vera vergogna
nella storia d'Italia, come mostra lo sciopero generale fissato per l'8 giugno
dal personale scolastico stufo di essere esposto al ludibrio e di finire
colpevolizzato da allievi e famiglie quale complice di una ministra del tutto
inadeguata, “esperti compresi”. Il collasso di migliaia di aziende e
l'azzeramento di un milione di posti di lavoro? Il conflitto di competenze tra
l'Esecutivo e le banche sulle quali Sua Emergenza Conte scarica la responsabilità
della mancata corresponsione di mance una tantum? L'indifferenza del governo e
della miriade di suoi “suggeritori”? La confusione dei “messaggi”
quotidianamente diffusi con decreti-legge e decreti del presidente del
Consiglio? I ritardi nelle grandi e piccole misure per prevenire, fronteggiare
e contenere il contagio del Covid19? Quelli, anche più gravi, nel prevedere il
baratro economico e la crisi sociale che ne deriverà? Il protervo soffocamento
di libertà costituzionali col pretesto di tutelare la salute dei cittadini? Il
rimpallo di responsabilità tra governo, regioni e comuni (quanto alle province,
parce sepulto...)?
Dietro la mascherina (un
addobbo facciale rapidamente fetido) si nasconde l'incapacità di governare, il
timore di questa compagine transitoriamente al timone di presentarsi non alle
videoconferenze ma alle urne. Sua Emergenza disse che attende il giudizio della
Storia, quasi sia quello di un dio; verrà espresso dagli elettori, perché,
piaccia o meno, prima o poi o verranno convocati o rovesceranno i “palazzi”.
Come stupirsi se gli altri Paesi europei escludono dalle mete turistiche
l'Italia, quando il suo governo, per primo, dichiara che essa è a rischio per i
suoi stessi cittadini?
Perciò è inevitabile
domandarsi cosa mai ci si sarebbe festeggiare questo Due giugno 2020.
I calendari a strappo
dovrebbero avere migliaia di foglietti per richiamare tutti i “ricordi”
ordinati o consentiti. Solo per stare al calendario civile dello Stato
d'Italia, sono festivi le domeniche e altre ricorrenze religiose quali
Capodanno (lo è dal 1874), Pasqua e il lunedì dell'Angelo, l'Assunta,
Ognissanti, l'Immacolata Concezione. Quando mette in programma eventi dal
valore legale (come gli esami e i concorsi pubblici) lo Stato tiene conto anche
delle festività delle religioni che hanno stipulato le intese previste dalla
Costituzione.
Lasciati dove sono i “Giorni”
memoriali (alcuni passano in sordina, altri imperversano per settimane), il
calendario è zeppo di festività (religiose e civili), di “giornate celebrative”,
sostitutive di antiche “feste” (i Patti Lateranensi nel 1930 oscurarono Porta
Pia, in vigore dal 1895; la Vittoria, durata dal 1922 al 1949; le ricorrenze
del “regime”: il Natale di Roma dal 1923, la Marcia su Roma dal 1930, la
proclamazione dell'Impero dal 1939, cioè due anni prima di perderlo) e di
solennità civili, come il “25 aprile” noto come “festa della Liberazione”. In
realtà quel giorno non finì affatto la guerra. Il “saldo” venne col trattato di
pace del 10 febbraio 1947: punitivo e irridente nei confronti del contributo
dell'Italia alla vittoria degli Alleati. Che cos'altro potevano toglierle in
più?
Tra le ricorrenze civili un
tempo fu in vigore persino la scoperta dell'America, oggi deplorata con tanto
di rimozione delle statue di Cristoforo Colombo quasi fosse sterminatore degli
amerindi e vessillifero della tratta dei negri.
Sulle poche festività civili
sopravvissute al diserbante del pensiero politicamente ottuso ancora svetta il
2 giugno, “festa della Repubblica”. Precedentemente “mobile” e dal 1974 fissata
in coincidenza della prima domenica di giugno (come era stata quella dello
Statuto albertino, in realtà promulgato nel marzo 1848), con legge 23 novembre
2012, n. 222 essa ha assunto la veste attuale.
Ma il 2 giugno davvero è la
festa di tutti? In realtà, a differenza del 4 luglio degli USA e del 14 luglio
della Francia, quella data non rievoca affatto l'unanimità degli italiani:
ricorda, invece, la loro profonda divisione tra il Nord quasi tutto
repubblicano (con l'eccezione delle province di Cuneo, Asti, Bergamo e Padova)
e il Mezzogiorno compattamente monarchico. Rimanda alle radici profonde della
vittoria della repubblica che nel Centro-Nord molto deve ai due anni di
martellante campagna antimonarchica della Repubblica sociale italiana. Nel 1946
comunisti, socialisti, ex azionisti, da un canto, ed eredi della RSI,
dall’altro canto, erano divisi in tutto tranne che dall'odio nei confronti di
Vittorio Emanuele III, del suo successore, Umberto II, e dei loro ministri, da
Pietro Badoglio ai liberali come Benedetto Croce e Luigi Einaudi. I
democristiani se la sfangarono perché i loro maggiorenti alla vigilia del voto
di schierarono per la Repubblica mentre buona parte del clero, anche al Nord,
sconsigliò il “salto nel buio”. Avevano già dato e non volevano finire sotto il
calcagno dell'Armata Rossa.
Premesso che un giorno festivo
fa sempre piacere alla quasi totalità di quanti se ne giovano, perché malgrado
Ciampi, Napolitano e altri il 2 giugno ha stentato a entrare nelle corde della
popolazione?Per comprenderlo occorre ripassare le cronache del referendum del
1946.
Una “festa” proclamata con
anticipo di dieci giorni
“Né di venere né di marte non
si sposa, non si parte né si dà principio all'arte”.
La Repubblica in Italia prese
corpo un martedì: l’11 giugno 1946.
Sabato 8 giugno, tre giorni
prima che la Suprema Corte di Cassazione comunicasse l'esito del referendum Monarchia/repubblica,
il presidente del Consiglio dei ministri, Alcide De Gasperi, democristiano,
informò il governo che avrebbe assunto “i poteri di Capo Provvisorio di uno
Stato repubblicano”. Il liberale Leone Cattani, ministro per i Lavori pubblici,
si oppose fermamente. Altri ministri liberali e demolaburisti, come il torinese
Manlio Brosio (ministro per la Guerra) e Mario Cevolotto (Aeronautica), nonché
l'ammiraglio Raffaele De Courten (Marina) erano per la repubblica. Quel giorno
il socialista Pietro Nenni (ministro per la Costituente, probabilmente non “al
di sopra delle parti”) propose che martedì 11 fosse dichiarato festivo “a tutti
gli effetti civili”.
Doveva essere la prima
celebrazione della Repubblica. La storia, però, ebbe altro corso.
Alle 20 del 10 giugno il
governo si radunò per decidere cosa fare dinnanzi allo stallo generato
dal rinvio dei risultati finali a martedì 18 giugno. Secondo Mario
Bracci, esponente del Partito d'azione (già sminuzzato in vari frammenti) e
ministro per il Commercio con l'estero, l'esito ormai era indiscutibile e
quindi i poteri di capo dello Stato dovevano passare subito a De Gasperi. Con
lui, a parte Cattani, si schierarono tutti i presenti, tra i quali il
socialista Giuseppe Romita, ministro dell'Interno, e il democristiano Giovanni
Gronchi. De Gasperi propose che un ministro riferisse al Re che a parere del
governo l'esito del referendum aveva prodotto la decadenza della Monarchia.
Cattani obiettò che toccava a
lui recarsi dal sovrano, per individuare la soluzione atta a “salvare le
pretese di ogni parte e salvare così la pace del paese”. Il Consiglio riprese
alle 0.45 di martedì 11.
De Gasperi riferì l'esito del
colloquio con il Re. Umberto II era disposto a delegare i poteri al presidente
del Consiglio e ad allontanarsi da Roma in attesa dell'esito finale, nel
rispetto della legge.
Inizialmente Nenni e altri
videro con favore la soluzione: De Gasperi avrebbe avuto funzione di
“Luogotenente”. Però il segretario del partito comunista Palmiro Togliatti la
respinse, poiché avrebbe significato un’“investitura” da parte del sovrano.
Ebbe il sostegno di Bracci, Brosio, Cevolotto e De Courten. Alle 2.30, con il
voto contrario di Cattani, il governo approvò un “comunicato” che sanciva la
vittoria della Repubblica e proclamava festivo il giorno ormai iniziato.
Come farlo sapere alla
popolazione? In realtà ben altro premeva. In Italia il clima non era affatto
esultante. In molte città si verificavano manifestazioni di monarchici,
duramente represse dalla polizia a Napoli. A Taranto militari monarchici si
scontrarono con commilitoni repubblicani. Si riaffacciava lo spettro della
guerra civile mentre tutti sapevano che il partito comunista aveva una corposa
riserva di armi bene oliate: non decisive ma pericolosissime in caso di
coinvolgimento di potenze estere.
Lo stesso martedì 11 il
governo si radunò tra le 12 e le 13, poi alle 18 e alle 21. La terza seduta fu
decisiva. Bracci propose di conferire a De Gasperi i poteri di capo dello
Stato. Secondo il democristiano Mario Scelba ormai il Re non era che “un
privato cittadino”. Quindi era intollerabile che De Gasperi si recasse ancora a
colloquio con lui. De Gasperi obiettò che era “vero in teoria”, ma
politicamente sarebbe stato un errore: non era il momento di “fare un passo che
può determinare la guerra civile”.
Il governo camminava su una
corda esile
Chi aveva votato per chi? Il
caos dello scrutinio e della verifica Appena un giorno prima, alle 18 di lunedì
10, il presidente della Corte di Cassazione aveva comunicato l'esito del
referendum: 12.672.767 voti per la Repubblica contro 10.688. 905 per la Monarchia.
Ufficialmente mancavano i dati di circa 150 seggi. Il Presidente si riservò di
emettere in altra adunanza il giudizio definitivo su contestazioni, proteste e
reclami e di comunicare il numero complessivo degli elettori votanti, le loro
scelte e quello dei voti nulli, che in prima battuta nessuno si era preso la
briga di computare.
Il governo sapeva bene che in
realtà mancavano i dati definitivi di almeno 21.000 sezioni.
Pendevano molti ricorsi.
Nessuno aveva conteggiato le schede bianche, nulle, contestate e non assegnate.
Per venirne in chiaro sarebbe stato necessario controllare le schede; ma
secondo Togliatti questa verifica era impossibile perché, come egli
seraficamente asserì ai colleghi, forse erano già state distrutte. Il governo
era al bivio: attendere la pronuncia della Suprema Corte annunciata per
mercoledì 18 giugno, come chiedeva il Re, o varcare il Rubicone?
Gli elettori erano 28 milioni.
Secondo Nenni alle urne ne andarono circa 24.837.000. Più di tre milioni furono
esclusi: i militari ancora prigionieri di guerra, gli abitanti di province “in
forse” (Bolzano, l'intera Venezia Giulia e le altre città italiane ormai nelle
grinfie della Jugoslavia di Tito), i cittadini privati del diritto di voto per
motivi politici o non reperiti dagli uffici elettorali comunali.
La repubblica aveva ottenuto
il consenso del 52% dei voti validi ma appena del 42% del corpo elettorale. Era
manifestamente minoritaria. Che fare? Il Consiglio si riunì alle 0.30 di
mercoledì 12.
Togliatti avvertì allarmato
che se fosse stato accolto il ricorso presentato da Enzo Selvaggi la
maggioranza si sarebbe ridotta di molto. Bracci prospettò allora che a decidere
la partita potesse essere l'ammiraglio Ellery Stone. La decisione ultima andava
rimessa agli anglo-americani.
Quando De Gasperi assunse le
funzioni di capo dello Stato
Il governo tornò a riunirsi
alle 21 dello stesso mercoledì 12 giugno. Togliatti informò che le verifiche
dei ricorsi avrebbero richiesto quattro giorni e ammise: “C'è del caos”. Per
sveltire le procedure si computavano solo i voti validi. Dopo ore di dibattito
al calor bianco e un’interruzione, De Gasperi preparò la dichiarazione in forza
della quale assumeva le funzioni (non i poteri) di capo
dello Stato e alle 23.45 ne
dette lettura. Curiosamente il testo non è allegato ai Verbali del Consiglio
dei ministri pubblicati nel 1996 a cura di Aldo Giovanni Ricci, all'epoca
sovrintendente dell'Archivio Centrale dello Stato (vol. VI, 2, p. 1388). Il suo
testo è in Il referendum Monarchiarepubblica del 2-3 giugno 1946 (ed. Bastogi
Libri con prefazione della Principessa Maria Gabriella di Savoia). Esso afferma
che sulla base della comunicazione dell'esito provvisorio dei risultati del
referendum (10 giugno) l'esercizio delle funzioni di capo dello Stato spettava
al presidente del Consiglio sino a quando l'Assemblea costituente non avesse
nominato il presidente provvisorio della repubblica. Ancora una volta Cattani
si dichiarò contrario ed esortò a “evitare la guerra civile”.
Dal canto suo Epicarmo
Corbino, ministro per il Tesoro, domandò a De Gasperi se la decisione
rispondesse al suo pensiero intimo. Il presidente democristiano confermò:
“accipio”. Così nacque la Repubblica. Era ormai il 13 giugno. Per gli
scaramantici quella cifra non porta bene, ma a Roma il giovedì è giorno di
trippa.
Maramaldi...
E il Re? Posto dinnanzi al
dilemma se arroccarsi al Quirinale, appellarsi ai monarchici, lasciare
temporaneamente Roma o allontanarsi dall'Italia e protestare contro il “gesto
rivoluzionario”, optò per quest’ultima soluzione. Gli anglo-americani gli
fecero sapere che non ne avrebbero garantito l'incolumità personale. Tutto
voleva tranne che uno spargimento di sangue. Dal 5 giugno aveva ordinato alla Regina
Maria José di raggiungere Napoli con i quattro figli e di salpare per il
Portogallo con lo stesso incrociatore che aveva recato Vittorio Emanuele III e
la Regina Elena ad Alessandria d'Egitto. Nel corso di una cena al Quirinale
chiese ai congiunti di lasciare l'Italia. Già si era congedato da Pio XII in
visita privata. Ne ottenne un piccolo prestito per le minute spese perché
partiva senza una lira. Restituì. Alle 15 di giovedì 13 lasciò il Quirinale e
poi il suolo d'Italia, da Ciampino alla volta del Portogallo.
Sciolse dal giuramento di
fedeltà alla Monarchia, ma non alla Patria, quanti l'avevano prestato.
Per milioni e milioni di
italiani fu un giorno di profonda mestizia. Aprì anni amari. La sola
esposizione del tricolore con lo scudo sabaudo divenne reato.
Il 18 giugno la Suprema Corte
compì un colpo di stato linguistico: a maggioranza, contro il parere del
Procuratore Generale Massimo Pilotti e del presidente Pagano, essa stabilì che
per votanti si intendono i voti validi. Ignorò le schede bianche, nulle, non
assegnate. In tal modo la differenza tra le due opzioni sarebbe rimasta di
circa 2 milioni, anziché di soli 250.000 voti, e nessuno avrebbe insistito per
il controllo delle schede. D'altronde il Re era ormai all'estero, seppur nella
convinzione di tornare prima o poi in Italia. Ma la Costituente interdisse il
rientro e il soggiorno a lui, alla Regina e ai discendenti maschi, confondendo
discendente con erede al trono. Altre severe misure furono adottate contro i
militanti monarchici, che presto si divisero in fazioni. Sin dalla sua prima
visita clandestina in Italia Luigi Federzoni distinse tra monarchici e
monarchisti, tra quanti nella Corona vedevano l'Italia e chi invece dell'ideale
monarchico fece “un mestiere”, un “partito”. Purtroppo nel corso dei decenni i
monarchici uguagliarono il Partito repubblicano nella lotta fratricida.
Repubblica senza scudo
La repubblica non venne mai
“proclamata” perché la legge sul referendum prevedeva solo la “comunicazione”
dei risultati elettorali. Per radicarsi essa si dovette dotare di “attributi” e
mostrarli festevolmente negli anni: un inno provvisorio per il giuramento dei
militari il IV novembre, la bandiera (strappò lo stemma sabaudo dal Tricolore)
e un emblema. Quest'ultimo è di interpretazione così ardua che in l'“Italia
immaginata. Iconografia di una nazione” (il Mulino) Giovanni Belardinelli
scrive che esso consta di “una stella dentro una croce dentata”, mentre, come
sappiamo, la stella (antico simbolo d'Italia, della Monarchia, della massoneria
e persino della Madonna) insiste in una ruota dentata: quella del Rotary, come
venne spiegato a De Gasperi quando negli Stati Uniti d'America gli venne
impartito un corso accelerato di tolleranza nei confronti di rotariani e di
“fratelli” come l'ambasciatore Alberto Tarchiani.
Fra gli altri emblemi di
quando in quando tornati in auge per evocare l'Italia vi sono anche i
corbezzoli a suo tempo cantati da Giovanni Pascoli: arbusto patriottico dalle
foglie verdissime, fiori bianchi e frutti rossi. Ai corbezzoli ci si può
afferrare per scongiurare i guai del passato, del presente e quelli che
attendono l'Italia al varco: non in autunno ma dalle settimane prossime se il
governo continuerà a mostrarsi del tutto al di sotto delle attese minime per
risalire la china. In questo Due giugno non si sente alcun bisogno di feste che
ricordano la divisione degli italiani in fazioni contrapposte e la
sopraffazione dei vinti da parte dei vincitori, maramaldi. Lo sussurrano
sommessamente Vittorio Emanuele III e la Regina Elena dalle loro tombe nella
quiete del Santuario di Vicoforte.
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