di ELENA LOEWENTHAL
170 anni fa il decreto che estendeva i diritti
civili ai non cattolici
Quest’anno
la Pasqua avrà un sapore particolare per gli ebrei del Piemonte. Nei giorni
intermedi della settimana di festa, se nella piccola sinagoga torinese dove un
tempo c’era il forno per le azzime capiterà di rivolgere uno sguardo
all’armadio santo - che contiene i rotoli della Torah - dipinto di nero in
segno di lutto accorato per la morte di re Carlo Alberto, lo si farà con
pizzico di malinconia tutta particolare e una gratitudine
indimenticabile.
Perché proprio cento e settant’anni fa - il 29 marzo 1848 - il
sovrano piemontese firmò sul campo di battaglia di Voghera un decreto col quale
concedeva tutti i diritti civili agli ebrei e agli altri «acattolici», aprendo
quel processo di emancipazione che fu fondamentale non soltanto per i figli
d’Israele - e fra gli altri anche per i Valdesi del Piemonte - ma prima ancora
per la civiltà. Fino a quello storico momento e per quasi duemila anni,
infatti, gli ebrei avevano vissuto rinchiusi dentro un’emarginazione fisica e
teologica: erano i «perfidi giudei», cioè gli infedeli per eccellenza, erano
l’unico «diverso» dentro una società europea perfettamente uniforme. Ma in
quanto testimoni viventi della passione di Gesù e del messaggio cristiano
andavano preservati come una sorta di reperto archeologico a vista. In questo
equilibrio fra colpa e sopravvivenza a uso teologico gli ebrei erano stati
sempre sottoposti a una ricca serie di divieti e privazioni e trattati non da
cittadini ma da stranieri spregevoli, anche se come nel caso del nostro Paese
potevano vantare una continuità e delle radici millenarie.
Con la firma di Carlo Alberto, che da quel giorno in poi fu per
gli ebrei piemontesi un vero e proprio idolo - con tutto il rispetto per il
rigoroso monoteismo biblico - gli ebrei divennero «come gli altri» pur nella
loro diversità. E se oggi la parità di diritti civili è giustamente un dogma
della democrazia, bisogna pensare che a quel tempo rappresentò un passo
sorprendente.
E Carlo Alberto diede prova di una straordinaria lungimiranza,
degna di un grande sovrano, pur senza derogare al rinomato (mai abbastanza
rinomato, a dire il vero) understatement piemontese:
«Sulla proposta del nostro Ministro Segretario di Stato per gli affari
dell’Interno, abbiamo ordinato ed ordiniamo: Gli Israeliti regnicoli godranno,
dalla data del presente, di tutti i diritti civili e della facoltà di
conseguire i gradi accademici. Nulla è innovato quanto all’esercizio del loro
culto ed alle scuole da essi dirette. Deroghiamo alle leggi contrarie al
presente». In questo scarno frasario del Regio Decreto del 29 marzo del 1848
sta racchiusa quella rivoluzione epocale che ha reso gli ebrei dei veri
italiani. Anche se esattamente novant’anni dopo di allora il regime fascista
emanava quelle infami leggi razziali cui i figli d’Israele guardarono
innanzitutto con sgomenta incredulità.
La storia è molto spesso capace di stupire, nel male come allora.
Nel bene di coincidenze che paiono costruite a tavolino, con mano sapiente e
cuore partecipe. Proprio come la doppia ricorrenza di questi giorni, in cui i
figli d’Israele celebrano, ricordano ma soprattutto si immedesimano
nell’avventura della conquista della libertà. Perché soprattutto questo è il
Pesach, cioè la Pasqua: «passaggio», come dice la parola ebraica, dalla
schiavitù d’Egitto all’autodeterminazione nel deserto, al di là del Mar Rosso.
Non un mero transito bensì una vera e propria trasfigurazione, perché quando
arriva dopo tanto tempo e tanta fatica e non meno sofferenza, la libertà ti
cambia.
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