di Waldimaro Fiorentino
Il 28 dicembre 1947 si spegneva nell’esilio di Alessandria d’Egitto
Vittorio Emanuele III; era stato Re d’Italia per 46 anni, durante i quali aveva
dato l’avvio alla lotta per la fame nel mondo istituendo l’Istituto
Internazionale di Agricoltura, progenitore della FAO (febbraio 1905); aveva
promosso la fondazione a Milano della prima «Clinica di medicina del lavoro»
(1910) con 20 anni di anticipo su ogni altro paese del mondo; e l’«Istituto
nazionale Vittorio Emanuele III per lo studio e la cura del cancro», che fu uno
dei primi nel mondo intero.
Nel 1907, Vittorio Emanuele III fondò la
«Società italiana per il progresso delle scienze», che aveva il compito di
razionalizzare il progresso scientifico, attraverso lo scambio di conoscenza
tra gli studiosi italiani, in congressi che si svolgevano ogni anno in città
diverse della Penisola, di modo che non vi fossero solo le assise di vertice,
ma che la cultura scientifica si diffondesse anche ai diversi strati di un
Paese che era più conosciuto per i prodotti della creatività artistica, che non
per le scoperte scientifiche e le produzioni tecnologiche.
Nel 1917, il Sovrano aveva istituito,
primo esempio al mondo, il «sussidio alla disoccupazione involontaria» ed aveva
fondato l’Opera nazionale Combattenti, per la distribuzione ad ex Combattenti
di terre di proprietà della Corona e di terre bonificate. Nel 1919, Vittorio
Emanuele III equiparò i cittadini d’Oltremare ai cittadini Metropolitani; nel
1921, istituì in Cirenaica il primo Parlamento liberamente eletto nella storia
dell’intero Continente Africano.
In 46 anni di regno, il suo appannaggio
non aumentò di una sola lira; anzi, diminuì di quattro milioni, perché,
all'indomani della prima guerra mondiale, fu lo stesso Re a chiederne la
riduzione, per dare un esempio di rigore al Paese; e lo fece con una lettera
inviata all'allora presidente del Consiglio Francesco Saverio Nitti; lettera
della quale vi voglio dare lettura, ma che sarebbe opportuno fosse fatta
conoscere a tutti gli italiani; rileggiamolo:
"Caro presidente,
dopo la nostra grande guerra che ha
riunito tutti gli italiani in uno sforzo tenace, dopo le vittorie che hanno
dato all'Italia più grande sicurezza e dignità nel mondo, dobbiamo ora
riprendere con rinvigorita lena il nostro pacifico lavoro.
Un più modesto tenore di vita deve
coincidere con un più grande fervore di opere. E' mio desiderio che parte dei
beni fin qui di godimento della Corona ritorni al demanio dello Stato e quanti
costituiscono fonte di rendita siano ceduti all 'Opera nazionale combattenti.
L'antico voto di sistemare nel modo più
conveniente il patrimonio artistico nazionale, che è tanta gloria italiana,
dovrebbe compiersi in questa occasione.
I tesori dell'arte nostra potrebbero
essere degnamente raccolti in palazzi dei quali ha fin qui goduto la corona e
che potrebbero essere devoluti all'amministrazione delle antichità e delle
belle arti.
Vorrei, infine, che la lista civile fosse
nello stesso tempo ridotta di tre milioni; ferma mantenendo la restituzione
allo Stato, che sarà da me operata come nel passato, del milione rappresentante
il dovario della mia genitrice.
Le sarò molto tenuto se ella vorrà
formulare questo mio desiderio in un disegno di legge.
La ringrazio fin d'ora e le stringo
cordialmente la mano.
Vittorio Emanuele"
Ed è inutile dire che allorché, l'11
settembre 1919, Francesco Saverio Nitti lesse alla Camera quella lettera, i
rappresentanti della Nazione, in piedi, applaudirono lungamente.
Con quelle poche e semplici parole, il
piccolo grande Re aveva indicato, incamminandovisi per primo, la via del
sacrificio, come l'unica che potesse condurre al superamento della crisi.
Da quello stesso momento, infatti, egli
rinunziava a 3 milioni di lire (non inflazionati) ad un altro milione aveva
rinunciato in precedenza; e rinunziava anche ai palazzi reali di Genova,
Milano, Venezia, Firenze, Napoli, Caserta, Palermo (si riservava soltanto
quelli di Torino e di Roma), ai castelli di Moncalieri e di Stupinigi, alle
ville di Monza, Milano, del Poggio a Caiano, dì Castello della Petraia, di
Capodimonte, della Favorita e ad altre minori, alle tenute di Coltano, Poggio a
Caiano, Carditeilo, Licola, Astroni e ad altre vaste proprietà fondiarie cedute
all' "Opera nazionale combattenti".
Nessun presidente di repubblica, forse in
nessuna parte dei mondo, ha mai fatto altrettanto !
In precedenza, aveva fatto approvare le
seguenti leggi:
- sulla tutela giuridica degli emigranti
(1901);
- per la tutela del lavoro delle donne e
dei minori (1902);
- contro la malaria e per la chinizzazione
(1902);
- per la istituzione dell’Ufficio del
lavoro (1902);
- per la realizzazione delle case popolari
(1903);
- il testo unico sugli infortuni sul
lavoro (1904);
- sull’obbligo del riposo settimanale
(1907);
- sull’istituzione della Cassa nazionale
delle assicurazioni sociali (1907);
- sulla mutualità scolastica e sulla
istituzione della Cassa nazionale per la maternità (1910);
Tappe di questo programma furono
l’istituzione dei «Cavalieri del Lavoro» (1901), che comprendeva anche i
«Maestri del lavoro», distinti solo nel 1923.
Sta di fatto che, tra il 1900 ed il 1921,
l'Italia recuperò molti dei suoi ritardi storici, corresse i conti pubblici,
realizzò opere pubbliche che ancora oggi costituiscono la spina dorsale del
Paese; basti pensare che, nel 1921 la nostra rete ferroviaria era pari a quella
attuale; e l'Italia, come ha scritto il massimo storico dell'industria italiana
Valerio Castronovo, da area quasi esclusivamente agricola, già alla vigilia
della prima guerra mondiale era divenuta la 7a potenza industriale del mondo;
l'Italia era tra i pochissimi Stati ad avere raggiunto il pareggio di bilancio
ed era il solo Paese al mondo nel quale la carta-moneta era tanto stabile, da
fare aggio sull'oro; venne ridotto verticalmente l'analfabetismo e sostenuta la
cultura scientifica.
Lo spirito sociale di Vittorio Emanuele
III apparve chiaro sin dal suo primo «discorso della Corona» (20 febbraio
1902), scritto di suo pugno e fu di sorprendente apertura alle ragioni della contestazione,
che pure era costata la vita al padre, del quale non mancò rammentare
l’impegno: «Conviene ora con prudente risolutezza proseguire sulla strada che
la giustizia sociale consiglia...in sollievo delle classi lavoratrici... sono
felici portati della civiltà nuova l’onorare il lavoro, il confortarlo di equi
compensi e di preveggente tutela, l’innalzare le sorti degli obliati dalla
fortuna».
Il tema della pace sociale ricorse
frequentemente nelle raccomandazioni di Vittorio Emanuele III; nel «discorso
della Corona» del 30 novembre 1904, annunciò l’introduzione di un nuovo
istituto del quale si sente la mancanza ancor oggi: «L’ardente contrasto fra
capitale e lavoro che ora si combatte con la sola arma dello sciopero, fonte di
tanti dolori e nel quale vince solamente il più forte, potrà essere in molti
casi composto con l’arbitrato che assicuri la vittoria alla giustizia e
all’equità,...così un nuovo grande passo nelle vie della civiltà farà regnare
sovrana la giustizia nei rapporti tra le classi sociali».
Nel «discorso» del 24 marzo 1909,
sostenne: «La politica di ampia libertà ha assicurato, col miglioramento delle
classi lavoratrici, le condizioni di una feconda pace sociale, senza arrestare,
né ritardare il progresso delle industrie e dei commerci... vorrà il Parlamento
proseguire quell’opera di legislazione sociale alla quale coraggiosamente
l’Italia si è accinta».
Un nuovo appello al tema sociale lo si
ritrova nel «discorso della Corona» del 27 novembre 1913, nel quale Vittorio
Emanuele III definì «necessaria conseguenza un indirizzo legislativo ed
un’opera di governo diretti ad un tempo a conseguire una più elevata condizione
intellettuale, morale ed economica delle classi popolari e a promuovere una più
intensa produzione che innalzi il livello della ricchezza nazionale ricordando
sempre che massimo coefficiente di prosperità per un popolo è la pace sociale e
che solamente un’agricoltura ed un’industria fiorenti possono assicurare il
benessere delle classi popolari. Dovremo quindi perfezionare e completare la
legislazione sociale a favore dei lavoratori, proseguire ed intensificare
quella politica di lavoro alla quale si devono in molta parte i progressi
economici compiuti; curare i grandi interessi dell’agricoltura e
dell’industria... e poiché il valore di un popolo si commisura dal grado della
sua cultura, dobbiamo coi mezzi più efficaci assicurare che l’istruzione
popolare sia rapidamente estesa a tutti i cittadini e resa sempre più completa;
che si intensifichi l’insegnamento di arti e mestieri e di agricoltura».
Dunque, Vittorio Emanuele III non fu solo
il «Re soldato»; soprattutto, non merita di essere ricordato per ciò che di
negativo accadde successivamente e che, semmai, il Sovrano tentò di correggere,
scontrandosi contro faziosità e neghittosità di chi poi ha rimproverato al
Sovrano colpe da addebitare ai suoi detrattori.
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