Articolo del 1961, uscito sul notiziario monarchico dell'UMI.
di Luigi Salvatorelli
Nella fioritura di studi
riguardanti il Centenario della proclamazione del Regno è di preminente
importanza il seguente sintetico articolo del Prof. Luigi Salvatorelli, apparso
su «La Stampa» di Torino VII gennaio scorso. Specie considerando che il dotto
autore non ha certo preferenze monarchiche, lo studio sembra perciò nel modo
migliore celebrare nel rispetto della verità storica, non solo la figura del
Padre della Patria come massimo artefice dell’unità, ma con l’accenno che vi si
fa alla benemerenza del Re nel 1876 «per aver assicurato il passaggio pacifico
del governo dalla destra alla sinistra consacrando definitivamente il regime
parlamentare», diventa di particolare attualità politica mettendo in evidenza
quale garanzia offra sempre l’Istituto monarchico, con il contrappeso della
forza della tradizione, alla continua e travagliata aspirazione dei popoli
verso più estese ’’aperture” sociali.
E’ di dominio comune il
detto, che la grandezza di Vittorio Emanuele II consistè essenzialmente nel
comprendere che per lui si poneva necessariamente la scelta fra il salire a Re
d'Italia, o il discendere a monsù Savoia: espressioni che risalgono a lui
stesso.
Possiamo anche oggi, nel
primo centenario dello Stato italiano unitario, ripetere il detto, ma con una
modificazioni importante: la soppressione dell’avverbio « necessariamente ». La
storia umana non è fatalità; e non lo fu neanche in questo caso. Quella scelta
consapevole di Vittorio Emanuele II, fu atto di volontà libera, in risposta a
una situazione non escludente per sé stessa una terza via: che egli rimanesse
Re di Sardegna, con un regno diminuito o ingrandito, o rimasto tal quale.
La scelta libera ci fu: ma
sarebbe errato considerarla come effettuata «ab origine» e perpetuamente
rimasta senza modificazione. Il politico riuscito si distingue dal fallito —
opportunista, o fazioso, o dottrinario, o moralista — innanzi tutto per questo:
che non svolge un programma prestabilito in articoli e paragrafi, come un
progetto di legge o un regolamento amministrativo; bensì pone innanzi a sé
certe finalità generali, certi obbiettivi d’insieme, e cammina verso di essi
con una continuità d’indirizzo includente ogni inflessione, in un senso o in un
altro, richiesta dalle circostanze.
Vittorio Emanuele II, la
sera di Novara, non disse certamente a nessuno, e neanche a se stesso: voglio
divenire Re d’Italia, a rischio di finire come un privato qualunque. Si propose
invece — mentre la notte calava sul terreno della disfatta, e Carlo Alberto
abdicatario si avviava verso l’esilio, e vicino al nuovo Re c’era appena un
ministro — due obbiettivi, ch’egli vedeva indissolubilmente connessi fra loro:
mantenere e consolidare il regno costituzionale di Piemonte; mantenere e
consolidare la rappresentanza e il promovimento, per parte del regno medesimo,
della causa nazionale italiana.
Vittorio Emanuele II fu
politico autentico, di prima grandezza, secondo — nel campo governativo — solamente
a Cavour, della cui superiorità ebbe sempre un certo fastidio e contro la quale
egli recalcitrò talvolta; ma pur fastidiendo e recalcitrando, fornì all'opera
di lui il fondamento necessario, con lo sprone o il freno (più il primo che il
secondo) opportuno.
Nel quadro storico che
conosciamo, è altrettanto inconcepibile una creazione dello Stato unitario
senza l’uno, come senza l’altro.
Ambizioso certamente,
Vittorio Emanuele II, e autoritario; e perfino, talora, millantatore. Ma in lui
meglio che in altri si vede bene come il fattore personale sia indissociabile
da quello politico-etico. Esso è il sale della vivanda, il motore della
macchina. Stimolato dal desiderio dì grandezza, dall'autocoscienza di capacità,
il politico crea la sua opera, che non sorgerebbe, o riuscirebbe diversa e
inferiore, senza quello stimolo personale. La differenza in ciò, da un politico
autentico all'altro si ritrova nel dissimulare più o meno, meglio o peggio, lo
stimolo: affare di gusto, di estetica, piuttostochè portata storica e dì
giudizio morale.
* * *
La prima vocazione di
Vittorio Emanuele II (rimasta poi sempre in fondo al suo animo) fu quella
militare, bellica, colorata di romanticismo ottocentesco. Giova qui richiamare
l’episodio del Duca di Savoia (questo era il titolo dell’erede al trono), che
la sera del 23 marzo 1848 affronta a notte per via, imbacuccato in un mantello
coprentegli la faccia, il presidente del primo Gabinetto costituzionale, Cesare
Balbo, per chiedergli istantaneamente di non essere dimenticato nel formare i
quadri dell’esercito che varcherà il Ticino.
Ma già dopo Custoza, nel
periodo dell’armistizio, il suo interesse politico si sviluppò. Al generale
Dabormida, suo familiare, domanda di essere messo al corrente sullo stato della
mediazione franco-inglese, come sulla situazione ministeriale, lagnandosi di
essere «perfettamente al buio degli avvenimenti politici del nostro paese».
Indubbiamente, il suo interesse finale è quello di sapere se e quando ci sarà
la ripresa della guerra; ma è caratteristica la connessione accentuata da lui
fra situazione politica e militare. Ed è anche caratteristico che la sua
preoccupazione per una rigida disciplina militare sia accompagnata da uno
schietto umorismo: «Dobbiamo ciecamente obbedire a coloro che ciecamente ci
comandano»; «Fatti soldato di cavalleria in tempo di guerra, se vuoi vivere
lungamente su questa terra». Il suo primo proclama del 27 marzo 1849 (senza
controfirma dei ministri) delinea concisamente tutto il programma necessario in
quel primo momento: mantener salvo l’onore, rimarginare le ferite, consolidare
le istituzioni costituzionali.
La sua veduta freddamente
realistica. della situazione è scolpita nelle parole quasi beffarde al deputato
Menabrea, per poco non rimasto accoppato dalla caduta di un pezzo di volta a
Palazzo Madama (il Re andava a prestare il giuramento): «Ch’a i fassa nen
attension, i’ n’a vedroma ben d’autre».
Nonostante qualche
incertezza iniziale, qualche momentaneo scoraggiamento, i primi anni del regno
sono una testimonianza di equilibrio, di consapevolezza, di tatto. Fra le
pressioni di destra (a cominciare da quelle della madre) e le provocazioni di
sinistra, la linea costituzionale è seguita con autorità, con fermezza, con
lealtà, a cominciare dalla scelta del nuovo presidente del Consiglio, Massimo
d’Azeglio, dopo il provvisorio Delaunay indicatogli dal padre. Nel primo
proclama di Moncalieri, del 3 luglio, è troppo colorita la frase (rispondente,
peraltro, agli umori dei dirigenti europei): «L’Europa, minacciata nella sua esistenza
sociale, è costretta oramai a scegliere fra questa e la libertà». Ma essa serve
di rafforzamento all’ammonizione: «Sta in voi, nel vostro senno, preservarvi da
questi estremi, non rendere la libertà impossibile, né impraticabile Io
Statuto». Motivo ripreso nel secondo e più noto proclama per il nuovo
scioglimento della Camera: ma ripresa dietro cui c’è qualche motivo di ritenere
che non si nascondesse nessun disegno di soppressione, o sospensione, dello
statuto ma semplicemente una messa in vigore del trattato di pace con l’Austria
per sola autorità regia.
I reazionari in attesa di
colpi di Stato, o almeno di leggi severamente restrittive, rimasero delusi. Né
riuscirono più fortunate le pressioni di cui sarebbe ora di fare (in tanto
diluvio dì pubblicazioni documentarie) una analitica e sintetica storia.
Già l’anno seguente, 1850,
per l’abolizione del Foro ecclesiastico, il Re si trovò a dover affermare la
sua costituzionalità e insieme con essa quella dello Stato, di fronte ai
tradizionali privilegi ecclesiastci, e Vittorio Emanuele l’affermò, superando
personali, forti sentimenti di devozione alla Chiesa e al papa Pio IX.
Prima fase di una battaglia
che durerà sino alla fine della vita, sempre più ardua, ma anche più
vittoriosa; battaglia che allora concorse, quanto e più di quelle militari,
alla fondazione dello Stato italiano, e che nell'insieme conserva ancora oggi
valore esemplare.
Un valore analogo possiamo
assegnare al comportamento di Vittorio Emanuele n rispetto al «connubio» Cavour
- Rattazzi, e alla conseguente ascesa e lunga permanenza di Cavour al potere,
di necessità e utilità politica somma, ma non facile sempre a ingranare con
quella funzione direttiva che il Re riteneva suo diritto e dovere.
Impossibile, per mancanza di
spazio, rievocare qui le singole fasi del decennio di collaborazione fra i due,
con gli episodi di accordo e di contrasto; diciamo qui che, a parte gli urti
personali (con la ordinaria mescolanza di diritto e di torto), l’accordo finì
per prevalere sempre sulla linea migliore per la patria italiana. Con Cavour, e
forse prima ancora di lui, Vittorio Emanuele II volle la spedizione di Crimea;
dietro Cavour egli fu, con tutta la propria risolutezza e audacia, per il
congresso di Parigi e la successiva sempre più ardita esplicazione della
missione italiana del Piemonte; e non tanto «dietro» quanto a fianco, o
addirittura avanti (grazie alla responsabilità costituzionale del grande
ministro), stette di fronte a Napoleone III e al resto d’Europa, per la tutela
dell’indipendenza e dignità dello Stato, per il promovimento dell’alleanza e
della guerra, per la riunione dell’Italia centrale e meridionale. Al momento
della spedizione dei Mille, è Vittorio Emanuele II a strappare il consenso di
Cavour, reluttante per gravissime ragioni. Ma è soprattutto di fronte a
Garibaldi che la funzione di re Vittorio si rivelò benefica, e anzi decisiva.
Fu il fascino della
personalità regia, insieme col buon senso del grande condottiero, a rendere
possibile la opera decisiva di Garibaldi, mantenendola al tempo stesso nel
quadro interno e internazionale unico possibile. L’anticavouriano Vittorio
Emanuele seppe dir «no» senza esitazione alla richiesta di Garibaldi del
licenziamento di Cavour; il Re « ultimo dei conquistatori» (secondo il detto di
Sella) seppe imporre il suo veto all'avanzata di Garibaldi da Napoli su Roma.
Dopo la morte di Cavour,
Vittorio Emanuele fu fortemente aiutato dall’alto sentimento di sè, dalla sua
spregiudicatezza di azione, e al tempo stesso dalla veduta realistica interna e
internazionale, a mantenere la continuità e a stimolare e controllare
l’avanzamento dell’opera nazionale. Ricordiamo, come particolarmente
caratteristica, là trattativa segreta con Mazzini; come particolarmente
meritoria, l’accettazione del trasporto della capitale da Torino a Firenze,
fatta preferire a Napoli, con la considerazione di buon senso, che sarebbe
stato molto più facile venir via dalla prima che dalla seconda; come altamente
significativa, la relazione al «jamais» di Rouher dopo Mentana, che costrinse
questo a rimangiarselo.
Anche dopo il 20 settembre
1870 la funzione direttiva superiore del «Padre della Patria» non cesssò ; e
trovò applicazione, sia nella risoluta affermazione del diritto nazionale su
Roma, accompagnata dai doverosi riguardi al Pontefice, sia nella cura di buone
relazioni internazionali con la Francia da una parte, con gli imperi centrali
dall'altra. (E’ rimasta famosa la franchezza con cui egli disse all’imperatore
Guglielmo I di essere stato lì lì, nel 1870, per fargli la guerra). Ma il fatto
maggiore del Re, in questi ultimi anni, fu di aver assicurato il passaggio
pacifico del governo dalla destra alla sinistra, consacrando definitamente il
regime parlamentare. Scomparendo precocemente, in mezzo al compianto profondo e
unanime della nazione, egli avrebbe potuto ripetere: « Cursum consummavi, fidem
servavi ».
In questo centenario non
solo dell’unità italiana, ma di Roma acclamata capitale, non si può meglio
chiudere la rievocazione del primo Re d’Italia, se non ripetendo le parole dette
da lui alla deputazione romana che gli presentava il plebiscito del 2 ottobre:
«L’ardua impresa è compiuta,
e la patria ricostituita. Il nome di Roma, il più grande che suoni sulle bocche
degli uomini, si ricongiunge oggi a quello dell'Italia, il nome più caro al mio
cuore».
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