La prima crisi del parlamento
La vittoria del 1918 e i suoi effetti - Come si venne all'intervento nel
1915 - L'intimazione della piazza al Parlamento - Il Re costretto a scegliere
tra il Parlamento e l’opinione pubblica - Si fa avanti Mussolini - Le intemperanze
di Milano.
Nel novembre del 1918, al termine di una
guerra vittoriosa, ma evidentemente troppo lunga e sanguinosa per la nostra
compagine nazionale, si verificò un fenomeno straordinario ed insolito. La
vittoria non rafforzò gli istituti fondamentali del paese, quelli che avevano
costituito l'unità d’Italia e l’avevano sorretta dal 1861 al 1918: la
Monarchia, il parlamento, l’esercito. Questi istituti avevano guidato e
rappresentato l’Italia per sessanta anni. Ora avevano vinto l'ultima guerra di liberazione
e raggiunto le frontiere naturali del Regno. Ma fu facile notare che mentre lo
Stato aveva superato l’ardua prova e poteva vantarsi di aver liberato Trento e
Trieste e di aver accresciuto il proprio prestigio sedendo allo stesso tavolo
degli Stati Uniti, dell'Inghilterra e della Francia, il paese, esausto per lo
sforzo, appariva indebolito dalla guerra ed era percorso e minacciato da
correnti dissolventi e nemiche. Si verificavano da noi, non i fenomeni che si
notavano nei paesi vittoriosi, ma quelli caratteristici dei paesi vinti. Era
lecito ai combattenti, di fronte alle manifestazioni popolari, porsi le
domande: «Abbiamo noi vinto o perduto la guerra? Abbiamo noi meritato o
demeritato della Patria?». L'Italia non aveva compiuto grandi sforzi nelle
guerre del Risorgimento: guerre brevi e poco sanguinose: la maggiore, quella
del 1859, era stata vinta prevalentemente dal forte esercito francese comandato
da Napoleone III. Compiuta l’unità, la guerra d’Africa e quella di Libia non
uscivano dal quadro delle comuni guerre coloniali. La partecipazione popolare a
queste guerre e i sacrifici subiti erano stati modesti. Comunque esse non
avevano modificato il tessuto della classe politica del paese.
Il popolo, in senso proprio, era rimasto
pur dopo l’unità, quasi estraneo alla direzione politica del paese affidata al
Parlamento di formazione e di educazione culturale prevalentemente borghese. Vi
era stato, sì, uno spostamento da destra a sinistra nel 1876, con l’avvento,
appunto, della sinistra al potere, ma non si può dire che fosse mutata la
classe di governo. Si chiamò, quella, e fu già un'amplificazione retorica assai
frequente nella nostra letteratura politica, una rivoluzione parlamentare.
Piuttosto che mutare, la classe di
governo, venne a dilatarsi dando voce e rappresentanza ai nuovi ceti della vita
italiana specialmente a quelli del Mezzogiorno. Ma i Depretis, i Cairoli, i
Crispi non fecero politica sostanzialmente diversa dai Lanza, dai Minghetti,
dai Sella.
Anche il suffragio politico non fu
eccessivamente allargato fino alla riforma elettorale di Giolitti successiva
alla guerra libica. Bonomi che è, con Orlando, l’ultimo superstite di quella
sagace e benemerita classe politica che fondava tutto il suo giuoco sulla
meccanica del Parlamento, esamina con molta acutezza quella riforma giolittiana
nel suo ultimo libro: La politica italiana da Porta Pia a Vittorio Veneto. Il
suffragio universale largito da Giolitti non modificò profondamente
l’equilibrio politico del paese.
Il momento difficile venne dopo: quando,
scoppiata la guerra europea nell’agosto del 1914, il Governo dovette decidere
tra la neutralità e la guerra. La decisione di neutralità fu approvata da
tutti, ma la concordia cessò, quando, nei mesi successivi, si trattò di
decidere per l’intervento. Il giuoco politico cessò allora di svolgersi nello
stretto ambito del Parlamento. I partiti furono scossi nella loro struttura
dalla grandezza dell'avvenimento e dalla gravità della decisione.
La democrazia giolittiana fu
neutralista, mentre la democrazia massonica fu interventista. Repubblicani,
futuristi e nazionalisti furono interventisti e vennero acquistando nel paese
assai maggior peso di quanto non avessero in Parlamento. I socialisti riformisti
furono pure per l'intervento, e così i sindacalisti, mentre furono neutralisti
il socialismo ufficiale e la confederazione del lavoro. I cattolici nella
maggioranza furono per la neutralità, ma poi accettarono l'intervento. Le
minoranze politiche scarsamente o affatto rappresentate in Parlamento si
accesero al fuoco dell'interventismo e divennero vivaci e aggressive: le
agitazioni della piazza cominciarono a influenzare le decisioni della
rappresentanza parlamentare.
La maggioranza di Montecitorio era
allora giolittiana e Giolitti era contrario all’intervento. Minoranze aspre e
combattive: garibaldine, futuriste, nazionaliste, massoniche, repubblicane,
socialiste riformiste, sindacaliste riuscirono a tenere la piazza e a
commuovere le folle. Ora quegli avvenimenti sono lontani e possono essere
giudicati con il necessario distacco. Quasi tutti i libri dedicati a
quell'argomento, scritti per lo più in medias res, ancora caldi degli eventi
vissuti difendono l’intervento italiano nella prima guerra mondiale. La
corrente neutralista della democrazia, non ha lasciato scritti in difesa del
proprio operato. Lo stesso Giolitti e i giolittiani, subito dopo il primo
atteggiamento negativo, votarono per la guerra e non negarono più l'opportunità
dell’intervento per se stesso, ma si limitarono ad avanzare delle riserve sulla
tempestività della nostra entrata in campagna e sulla preparazione militare e
diplomatica della guerra.
I socialisti, invece hanno sempre
riaffermato la loro dottrina contraria alla guerra. Quando
Mussolini, direttore dell’Avanti! si
pronunciò nell’autunno del 1914 per l’intervento, essi lo espulsero dal loro
Partito. Sta bene. Ma se l’Italia avesse seguito la politica del socialismo e
la Germania avesse vinto la guerra, il germanesimo, tanto temuto e detestato
da, socialisti, non sarebbe divenuto fin da allora padrone dell’Europa?
Questa breve osservazione dimostra
quanto sia, arduo per i partiti, agire e giudicare fuori della contingenza
immediata e presumere di disegnare dottrine e programmi sub specie
aeternitatis.
i furono, nelle giornate procellose del
maggio 1915, dopo le dimissioni di Salandra, moti di piazza per l'inter-vento,
e varie riunioni di parlamentari autorevoli. Giolitti, capo della maggioranza,
manifestò con chiarezza il suo pensiero. Aveva poca fiducia nell’esercito che
non avrebbe resistito ad una lunga guerra. Era ormai intervenuto, è vero, il
patto di Londra (21 aprile 1915) ma da esso, a giudizio di Giolitti, ci si
poteva liberare con un voto della maggioranza parlamentare. Più tardi Giolitti
affermerà di non aver avuto precisa notizia del patto di Londra: Salandra dirà
il contrario ed è probabile che almeno la notizia dell’impegno sottoscritto dal
Governo in carica fosse giunta all’insigne statista di Dronero.
Après coup, e cioè al termine del
conflitto, Giolitti dirà che egli era contrario a una nuova guerra anche perché
essa avrebbe distrutto l’equilibrio europeo e avrebbe sconvolto l’equilibrio
economico tra le classi del nostro paese con l’avvento di una grossa categoria
di speculatori. In fine dirà che, a ogni modo, egli sarebbe intervenuto più
tardi, in un’ora favorevole all’Italia. Queste considerazioni ed altre ancora,
sono sempre possibili, ma non riguardano il nostro tema che non è quello di
ricercare se Giolitti, così esperto e così prudente, aveva ragione o torto. Le
ragioni dell’intervento italiano sono consolidate e rafforzate dalla seconda
guerra mondiale. Nel conflitto delle nazioni europee minacciate di soffocamento
dal tentativo ripetuto di dominazione tedesca, l’Italia doveva essere nel 1915
con l’Inghilterra e la Francia.
Del resto, fu sempre convinzione dei più
assennati uomini di governo italiani, che l’Italia non dovesse mai trovarsi in
conflitto con l’Inghilterra. Lo stesso Crispi, fervido fautore della triplice
alleanza, amico di Bismarck, usava ricordare, quando era ministro, e più volte
disse a Re Umberto, che la fedeltà alla Triplice non poteva e non doveva mai
escludere il buon accordo con la Gran Bretagna: specialmente dopo il patto
mediterraneo del 1887. Fece dunque bene il Governo del tempo a denunciare la
Triplice e a schierarsi con le democrazie.
Fu follia di Mussolini seguire altra via
nel 1939 e nel 1940 sbagliando tutte le previsioni e tutti i calcoli. Ma non è
questo che ora vogliamo dimostrare. Noi vogliamo osservare che per la prima
volta, nel maggio 1915, la volontà del Parlamento italiano fu forzata da un
moto di piazza. E per la prima volta la Corona fu chiamata in causa dal popolo
per decidere su di una questione capitale nel supremo interesse della nazione.
La maggioranza parlamentare abbandonò, sotto la pressione della piazza, il suo
atteggiamento neutralista: atteggiamento, si noti bene, che non aveva dato
luogo a nessuna manifestazione esteriore in Parlamento. La poesia, nella sua
più celebrata espressione, contribuì a inasprire e, in sostanza, a intorbidare
la politica. D’Annunzio secondo il pessimo e provinciale costume della nostra
letteratura eroica, coprì d'insolenze pittoresche e di accuse infondate e
calunniose, Giolitti: la folla applaudì al poeta e urlò che voleva la
fucilazione del «traditore».
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