di Aldo A. Mola
Centocinquant'anni orsono
Regno d'Italia e Stato Pontificio concordarono nella lotta contro il
brigantaggio. Il 24 febbraio 1867 Leopoldo Lauri, comandante dei papalini per
la zona di Frosinone, e il maggior generale Luigi Fontana dell'Esercito
italiano siglarono a Cassino la “convenzione” che autorizzò i propri militari a
inseguire i briganti oltre i confini dei rispettivi Stati. Scese la spada di
Dàmocle sui delinquenti che da anni sfruttavano il terreno favorevole per le
loro imprese. Senza enfasi e in tono sommesso il governo di Pio IX riconobbe il
diritto dell'Italia ad annientare il banditismo, dal 1860 spacciato come
opposizione legittimista all'annessione del Mezzogiorno alla corona sabauda.
L'accordo fu preceduto dai bandi del delegato apostolico, monsignor Luigi
Pericoli, per “la più efficace e pronta repressione del flagello brigantaggio
che infesta le province di Velletri e Frosinone”.
Esso maturò in un contesto
preciso: in forza della Convenzione italo-francese del 15 settembre 1864 (che
comportò anche il trasferimento della capitale da Torino a Firenze), Vittorio
Emanuele II garantiva l'incolumità dello Stato pontificio, dal quale Napoleone
III ritirò le sue truppe, ma Pio IX era tenuto a mantenere l'ordine al proprio
interno. Il via-vai di “bande” (fossero briganti, fossero insorgenti politici,
magari anche mazziniani, protocialisti e anarchici) sul confine tra i due Stati
avrebbe legittimato l'intervento italiano. Il papa non aveva riconosciuto il re
d'Italia, ai suoi occhi usurpatore, anzi aveva scomunicato lui, il suo governo
e parlamentari e tutti gli “agenti” del sovrano, ma non aveva mai “benedetto” il
“grande brigantaggio”, ormai privo di supporti internazionali mentre l'Italia
si accingeva a sedere per la prima volta nella Comunità internazionale (Londra,
aprile 1867). Neppure Pio IX aveva mai pensato di classificare il banditismo
come “guerra civile”.
In effetti, per sua fortuna,
l'Italia non ha mai vissuto una vera guerra civile. Meno che meno nel
Mezzogiorno, che, con il plebiscito del 21 ottobre1860, dichiarò anzi di volere
“l'Italia una e indivisibile con Vittorio Emanuele II re costituzionale e suoi
legittimi discendenti”: una scelta senza alternative, una prima grande “festa
nazionale”. Il Paese è stato ed è teatro di lotte tra bande (e tante
banderuole), ma neppure nell'antichità conobbe guerre civili. Le parole hanno
un significato preciso: “guerra civile” è quella combattuta tra cittadini di
uno stesso Stato per l'avvento di un regime diverso. Fu Teodoro Mommsen a
classificare “guerre civili” quelle dell'antica Roma, tra Caio Mario e Lucio
Cornelio Silla, tra Cesare e Pompeo: una formula generica, posticcia e
anacronistica. La successiva contrapposizione tra Caio Ottaviano Augusto e
Marco Antonio fu tra due modelli di Impero: fra l'Egitto di Cleopatra e Roma,
tra Potere Sacro e potere elettivo, tra Oriente e Occidente. A suo modo “guerra
di religione”, semmai.
Crollato l'Impero Romano,
dopo secoli durante i quali fu ridotta a preda di vari potentati e di diverse
etnie e dopo la greve età franco-napoleonica (1796-1815), l'Italia risorse con
due generazioni di patrioti e di guerre per l'indipendenza, l'unità e la
libertà. Ora Fabio Andriola, saggista autorevole, afferma che “il tema del
Risorgimento e del Regno delle Due Sicilie è dettata (sic) anche da una
semplice constatazione: fu una guerra civile perché combattuta da italiani...”
(“Storia in rete”, maggio 2017, p. 38). Avvalora questa interpretazione
aggiungendo che nelle vene dei Borbone di Napoli “scorreva sangue italiano (…)
come sono italiani quanti guardano oggi a quel regno con nostalgia e
rimpianto”.
Lasciati dove sono gli alberi
genealogici delle varie dinastie europee (solo da Carlo Alberto i Savoia
predilessero la propria “italianità” rispetto a precedenti opzioni: tutt'uno
con la sostituzione dell'“azzurra coccarda sabauda” col “tricolore italiano”
ideato da Luigi Zamboni e Gianbattista De Rolandis), occorrono alcune
precisazioni di metodo e di merito per evitare che dilaghino nuove fiabe nella
“narrazione” della storia d'Italia.
Richiederebbe molto spazio ma
basta un rigo per ricordare la separazione logico-cronologica fra “italici” (abitanti
del luogo geografico detto Italia) e“italiani” (cittadini del regno d'Italia
dal marzo 1861). Persino i fautori delle leggi razziali proposero di
considerare “italiani” quanti documentassero di avere antenati residenti in
Italia dall'inizio dell'Ottocento. Per secoli gli abitanti dello “spazio
Italia” si scannarono a vicenda, sia per conto dei dominatori di turno sia per
appetiti propri. Ma le loro erano lotte di fazioni, non “guerre civili”. Certo,
anche Alighieri e Petrarca invocarono l'“'Italia”. Ma Dante se l'aspettava
dall'imperatore Arrigo VII; Petrarca la sognava mentre era ad Avignone, alla
corte del papa “captivo”. Come detto, seguirono secoli di dominazioni straniere
e di umiliazioni. Gli “italiani” servirono i potenti di passo. Succubi.
Tra il 1859 e il 1860, grazie
alla sequenza di eventi, parte preparati da tempo parte fortuiti, ed anche con
patenti violazioni del diritto internazionale (che del resto era agli albori ed
è tuttora un cerotto sulle ferite aperte dal braccio di ferro tra potenze
grandi e/o piccole, basta che siano armate e temibili), Vittorio Emanuele II di
Savoia, re di Sardegna, acquisì gran parte dell'Italia Centro-settentrionale e
le Due Sicilie.
Fu una guerra “tra italiani”?
Fu una “guerra civile”? No.
Anche se è ben noto, va
ricordato che nel 1859 l'Italia era frantumata in sette diversi Stati. Il “Lombardo-Veneto” era parte dell'Impero
d'Austria. Il ducato di Modena e Reggio e il Granducato di Toscana avevano
sovrani due Asburgo. Il ducato di Parma e Piacenza, “a noleggio”, era tornato a
un Borbone, la stessa Casa che ancora regnava sulle Due Sicilie: re spergiuri,
usi a promulgare e a revocare costituzioni.
Loro unica sponda era rimasta Isabella II di Borbone, regina di una Spagna
da decenni insanguinata dalla lotta dei fautori di don Carlos contro
cristinisti e isabellini: non guerra civile, ma dinastica. Altrettanto era
avvenuto in Portogallo. L'intera Europa era un groviglio di lotte di potere
spacciate per “nazionali”, sulle cui pulsioni vennero catapultati, per imbrigliarle,
sovrani eterodiretti: Saxe-Coburgo, Hohenzollern... Nel 1870 Amedeo di Savoia,
duca d'Aosta, fu eletto re di Spagna dalle Cortes di Madrid, per meditata
pressione del generale Prim, vittima di un attentato mortale proprio mentre il
nuovo sovrano vi metteva piede (l'evento è stato ricordato ieri a Reano, vicino
a Torino, che ha conferito la cittadinanza onoraria al Principe Amedeo, Duca
d'Aosta, capo della Real Casa di Savoia, e a suo figlio, Aimone, Duca delle
Puglie, presente il presidente della Consulta dei Senatori del Regno).
Il “riassetto” dell'Europa
orientale andò avanti per secoli nelle terre già soggette ai turco-ottomani.
Meglio un qualunque euro-occidentale che un “governatore” del Sultano. Lì non
ci furono “guerre civili” ma d’indipendenza, con il sostegno estero e
pattuizioni internazionali, pilotate dalle Grandi Potenze - Francia, Russia,
Prussia - e infine accettate obtorto collo dalla Sublime Porta di
Istanbul.
L'unione del Mezzogiorno alla
corona di Vittorio Emanuele II nel 1860 fu tutt'altra cosa, anche se coeva.
Ricordiamo i fatti, fondamento di ogni valutazione. Il 6 settembre Francesco II
di Borbone, abbandonato da gran parte dei sudditi (a cominciare da molti
ufficiali) lasciò Napoli e si asserragliò tra Capua e Gaeta per organizzare
l'offensiva contro Giuseppe Garibaldi, che l'indomani arrivò in treno nella
capitale con appena sei persone al seguito e ne prese possesso, come ricorda
Aldo G. Ricci in “Obbedisco” (Ed. Palombi). L'autorità del re era evaporata da
quando, assunto il controllo della Sicilia, passato in Calabria e spezzata
l'ultima resistenza borbonica a Soveria Mannelli, Garibaldi mostrò di
rappresentare l'Ordine Nuovo. La sua impresa non era “guerra civile” ma
detonatore dell'insorgenza della Sicilia contro il Borbone, come nel 1820 e nel
1848, quando l'Assemblea dell'Isola del Sole conferì la corona a Ferdinando di
Savoia, secondogenito di Carlo Alberto. memore che Vittorio Amedeo II ne era
stato Re dal 1713.
Il 2 ottobre Garibaldi
sconfisse i borbonici al Volturno: una battaglia vera, campale e di manovra. Il
Borbone rimase assediato in attesa di aiuti dall'estero: Napoleone III? La
Spagna? Un Congresso europeo? In settembre, previa dichiarazione di guerra,
l'esercito di Vittorio Emanuele II avanzò nell'Umbria e nelle Marche e travolse
l'esercito pontificio a Castelfidardo col viatico di Napoleone III che aveva
raccomandato “fate, ma fate in fretta”. Fra Terra del Lavoro, Molise e Abruzzi
bande di borbonici e di popolani aggredirono i “liberali”. Il 30 settembre ne
massacrarono molti a Isernia. Il 3 ottobre Vittorio Emanuele assunse il comando
dell'Esercito ad Ancona e avanzò verso Sulmona-Isernia. Con aspri
combattimenti, il 20 ottobre un corpo dell'Armata sarda agli ordini di Enrico
Cialdini sbaragliò i borbonici comandati da Luigi Scotti-Douglas e sorretti da
“bande” contadine, forzò il passo del Macerone e irruppe verso Gaeta. Il 26
Garibaldi, a Vairano Catena, presso Teano, salutò “il primo re d'Italia” e gli
“passò le consegne”. Giunto a cavallo, Vittorio Emanuele II, proseguì verso
Napoli per assicurare ordine e stabilità. L'Eroe si ritirò a Caprera. La sua
“missione” era conclusa.
Francesco II di Borbone
ordinò la resistenza. Quel conflitto può essere classificato in vari modi: un
re contro un altro, il Borbone contro i patrioti, anche meridionali, che da
decenni chiedevano l'unità nazionale. Nessuno, però, né allora né poi, parlò di
“guerra civile”. Arroccato a Gaeta, Francesco II non si arrese. Dopo un lungo
assedio e il pesante bombardamento della città fortificata, il 15 febbraio ne
partì con la consorte, Maria Sofia di Wittelsbach, sorella dell'imperatrice
d'Austria, Elisabetta (“Sisi”, erroneamente detta Sissi), sul vascello inviato
da Napoleone III: alla volta di Terracina, donde proseguì per Roma, accolto dal
papa come sovrano. Non abdicò mai. In suo nome ufficiali e volontari accorsi da
vari paesi europei (Spagna, Francia, Austria, Svizzera...) organizzarono
l'opposizione armata contro il regime avallato dal plebiscito, proclamato dal
Parlamento nazionale il 14 marzo 1861 e via via riconosciuto da potenze estere.
Dunque l'insorgenza armata,
presto degenerata nel “grande brigantaggio, non fu “guerra civile”: semmai fu
la coda del conflitto iniziato con lo sbarco di Garibaldi a Marsala l'11 maggio
e proseguito con l'irruzione di Cialdini. Il rifiuto di Francesco II di
accettare la debellatio ebbe due conseguenze: anzitutto i militari
borbonici catturati e refrattari alla nuova legittimità rimasero prigionieri di
guerra, nelle condizioni dell'epoca; in secondo luogo, l'opposizione fu
alimentata da tre componenti: nuclei di militari sguinzagliati e finanziati dal
sovrano sconfitto in vista di possibile riscossa; antico malessere
socio-economico di vaste plaghe oggettivamente arretrate (non certo per colpa
dei Savoia), aggravato dal collasso del regime borbonico; clero terrorizzato
dalla statizzazione dei beni ecclesiastici e forte di vasto seguito popolano,
oscurantista e illiberale, in terre ove
persino la Costituzione del 1848 aveva “vietato” qualunque culto diverso dal
cattolico, ai danni di ortodossi, evangelici, riformati e israeliti. Nel
Mezzogiorno accorsero inoltre volontari, parte idealisti parte venturieri,
taluni fanatici, con le spalle volte alla modernità, per alzare insieme la
bandiera del Borbone e quella del papa.
Messo alle strette, il regno
d'Italia dovette cauterizzare la piaga del brigantaggio mentre la maggior parte
degli Stati stava a guardare, dubbioso che reggesse alla prova. A tutti faceva
comodo che l'Italia rimanesse lacerata e sanguinante. Sarebbe stata condannata
per sempre al rango di ultima potenza, perpetuamente debole. Tanto valeva
sconfessare Risorgimento e unità nazionale. Alcuni, delusi, lo scrissero. Il
governo seguì invece la linea dettata dal generale Manfredo Fanti sin dal bando
di Isernia del 23 ottobre 1860: applicazione del codice penale militare contro
quanti si opponessero alle autorità legalmente costituite. Il 15 agosto 1863 il
Parlamento approvò la legge proposta del deputato abruzzese Giuseppe Pica: più
attento accertamento della colpevolezza di ribelli e malavitosi, assegnazione
dei sospetti a domicilio coatto e mano tesa a quanti volessero rientrare nei
ranghi. Pur riconosciuto da importanti Stati (ma non ancora dalla borbonica
Spagna), il regno rimaneva in ansia. Non aveva ancora né codici unitari, né una
sola banca di emissione della moneta (questa per decenni rimase un sogno). Però
dal 1866, dopo l'annessione di Venezia e la fallita insurrezione repubblicana
di Palermo, fu chiaro che lo Stato avrebbe retto. Perciò anche Pio IX concluse
che i monasteri non dovessero più fare da base o rifugio di criminali e che
bisognava trovare un modus vivendi con lo “scomunicato” Monsù Savoia.
Nel 1869 il brigantaggio
meridionale risultò praticamente estinto: proprio mentre iniziavano rivolte
nell'Italia settentrionale contro la tassa sulla macinazione delle farine e,
per una delle tante svolte della Storia (che procede a zig-zag, anziché secondo
linee rette), grazie alla sconfitta di Napoleone III a Sedan il governo
italiano decise di irrompere nel Lazio e annettere Roma (previo plebiscito)
prima che qualcuno vi proclamasse una terza repubblica. Era il Venti Settembre
1870: una data da festeggiare. Neppure Porta Pia fu un capitolo di “guerra
civile”: quel giorno venne realizzato il sogno di Camillo Cavour e di due
generazioni di patrioti. Vide il coronamento del “miracolo” del Risorgimento,
ricostruito da Domenico Fisichella, politologo e storico designato Premio alla
Carriera nel 50° del Premio Acqui Storia.
Molto più che di presunte
“guerre civili” tempo è venuto di scrivere la storia della cosiddetta“zona
grigia”, cioè di quella stragrande maggioranza di Italiani che rimasero
spettatori delle tenzoni ideologiche e partitiche e che allo Stato chiesero
sicurezza e servizi in cambio dell'esosa fiscalità che li opprime. E' quanto
chiedono anche oggi al di là del baccano di tanti “movimentisti” e “marciatori” senza meta. Occorre fare: in
direzione dell'Italia. Anche la chiesa è chiamata a fare la sua parte, come al
tempo del resipiscente Pio IX.
Aldo A. Mola
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