INTERVENTO
DI EDGARDO SOGNO AL CONVEGNO
"UMBERTO
DI SAVOIA, PRINCIPE DI PIEMONTE A TORINO"
DEL 1
GIUGNO 1993
Devo
confessare che nello stendere questi appunti su Re Umberto mi sono più di una
volta commosso. Meglio così perché spero che non mi accada più con voi questa
sera. Il Principe Umberto, il Principe Ereditario, anzi Sua Altezza Reale il
Principe Reale Umberto di Savoia, Principe di Piemonte. Sono questi i titoli
con i quali un tempo si usava indicarlo nelle carte ufficiali. E sono certo che
tutti coloro che conservano per Umberto II dei sentimenti e dei legami
personali preferirebbero ricordarlo soltanto così. Fu il suo periodo
felicemente migliore, ma non credo che nel caso di un personaggio che
appartiene alla storia il farne soltanto dell'agiografia aulica o sentimentale
sarebbe per me e per noi il modo migliore di coltivarne e onorarne la memoria.
Dobbiamo ormai affrontare con il distacco e la serenità dei posteri quel
complesso destino, fatto come per tutte le figure storiche, di luci e di ombre,
di giornate luminose e di momenti oscuri, talvolta tragici e talvolta patetici,
ma che concorrono tutti a disegnare un profilo nel quale non trovano posto le
passioni politiche contingenti, sempre così decisive nel deformare i giudizi
dei contemporanei. Farò dunque lo sforzo, difficile e forse nella sua pienezza
ancora impossibile, di vedere questo Re, l'ultimo Re d'Italia, non nella luce
affettuosa dell'uomo che in vita abbiamo conosciuto ed amato, ma nella luce
impersonale dell'ultimo di una serie di ritratti che, da Umberto Biancamano a
Emanuele Filiberto, da Vittorio Amedeo a Vittorio Emanuele II, compongono il
millenario medagliere della Casa di Savoia.
Considerando
l'arco intero della sua vita cosciente, quella che ha fatto storia e che della
storia è sottoposto a giudizio, nella vita di Umberto si possono distinguere
nettamente tre periodi. Il primo, quello facile e spensierato di erede di
un trono che si riteneva ancora saldo e indiscusso e che, in piena coincidenza
con il ventennio mussoliniano, va dal '22 al '43. Un secondo periodo, quello
difficile e duro delle responsabilità dirette nei confronti dello Stato
italiano e della Dinastia che va dal '43 al '46. Infine quello silenzioso e
triste dell'esilio, un periodo lungo quasi quarant'anni, che va dal '46 alla
morte senza mai più rivedere l'Italia. Ciascuno di questi tre periodi si svolge
in un contesto di circostanze storiche del tutto mutate rispetto alle
precedenti, presenta delle caratteristiche proprie per quanto riguarda
l'atteggiamento di Umberto e comporta quindi valutazioni e giudizi
indipendenti. La mia franchezza in questi giudizi potrà dispiacere a qualcuno e
lo comprendo. Ma penso che le vere infedeltà alla Casa e all'amicizia che
purtroppo si sono verificate siano di ben altro segno e non abbiano nulla. in
comune con la rievocazione lucida di momenti difficili di cui insieme abbiamo
sofferto.
Del
primo periodo ci ha parlato diffusamente e dottamente Giorgio Lombardi.
Osserverò soltanto che si tratta del periodo della giovinezza spensierata, del
pensare leggero e lontano dalle responsabilità politiche dirette (i Savoia
regnano uno alla volta) ma anche il periodo nel quale ad Umberto risulta
affidato, nel gioco delle forze presenti, un compito personale e preciso.
Questo compito era di assicurare il miglior possibile collegamento fra la
Monarchia e il popolo attraverso un'immagine largamente accettata e diffusa,
quella appunto del principe ereditario e futuro sovrano, quella del principe
bello e cortese distaccato dalla politica del regime, ma presente nella vita
giornaliera del cittadino comune. Di questa sua popolarità e presenza
nell'immaginario popolare, ben distinta dai suoi legami diretti con la
ristretta cerchia di corte e dei circoli mondani e militari, esistono
testimonianze precise che vanno dalle canzoni goliardiche e le fotografie sui
campi di corse e sui campi di sci alle comparse nel cinema, nella rivista e
nel teatro popolare. La più significativa in questo senso la troviamo nel
personaggio quasi irreale, nel segno dell'eleganza e del successo, che Fellini
colloca nel suo film "Amarcord" fra i simboli dominanti della
retorica e dell'orgoglio nazionale come il transatlantico Rex e
l'automobilismo sportivo. Ma non erano tutte rose per Umberto neppure in questo
periodo relativamente felice se più tardi, pensando a Carlo Alberto, dirà in
un'intervista "Se sapesse quanto è difficile la parte di principe
ereditario". In effetti, nel quadro della ventennale diarchia, da una
parte Re Vittorio, chiuso nella sua incomunicabilità, lasciava che il figlio
rappresentasse una parte a lui negata, ma interveniva con rigore sugli eventuali
sbandamenti, come avvenne con il brusco trasferimento da Torino a Napoli negli
anni trenta e con la severa tirata di redini nel '43. Dall'altra parte
Mussolini che aveva tollerata, utilizzata e ridimensionata la Monarchia, lasciava
fare, ma con scarsa simpatia, collezionando ricattatori rapporti di polizia,
coltivando la relazione speciale con il ramo di Aosta, ideologicamente più
vicino, e preparandosi a dire la sua sulla successione al trono con la
minacciosa facoltà di veto attribuita al Gran Consiglio. Queste invadenze della
dittatura non sfuggivano alla delicata sensibilità del Principe, come provano
le sue proteste, riservate agli intimi, contro i molteplici aspetti della
prevaricazione: dalle mancanze di forma come i comunicati sul Duce che
"ha ricevuto il Principe Umberto" e le visite promozionali della
famiglia reale al cimitero di Predappio ("l'omaggio dei Reali ai genitori
del Duce") a quelle più sostanziali come la parificazione del Duce e del
Re nel grado militare di Maresciallo dell'Impero e nell'assunzione da parte di
Mussolini del comando supremo in guerra che i Savoia, dinastia militare, mai
fino a quel momento avevano ceduto. Ma nel rilevarlo, in tono talvolta ironico,
talvolta dolente, ma senza oltrepassare i limiti di una sottomessa discrezione,
Umberto già rilevava quella incapacità di rompere di fronte all'inaccettabile,
frutto di una ferrea formazione disciplinare, che sarà, nelle prove future, la
sua forma caratteriale più evidente. Di questo fare di ogni scelta un piegarsi
al dovere, una sottomissione al destino, anzi un'accettazione religiosa e
francescana della Provvidenza, resta la maggior prova in questo periodo il suo
matrimonio. Matrimonio dinastico e di stato, non scelta sua, con una sua pari
che invece appassionatamente l’amò, riuscendo, lei sì, per una breve stagione,
a fare coincidere scelta e dovere.
Ma
veniamo al secondo periodo, quello delle scelte e delle responsabilità. E qui
ci troviamo subito di fronte alla domanda fondamentale: quali e quanto grandi
sono le responsabilità di Umberto nella caduta della monarchia?
Nell'inverno
'42-'43 il cielo del regno d'Italia era basso e grigio e minacciava l'uragano
ormai imminente. Il Principe, come la maggioranza dei cittadini lo sentiva
vicino. Altri membri della famiglia reale, Re Vittorio, la principessa Maria
José, già avevano deciso e lavoravano nell'ombra per una svolta. Nella sua ridotta
autonomia, sotto l'occhio sospettoso del padre e quello della polizia, il
Principe iniziò la sua fronda in una cerchia ristretta di confidenti, ma come
quasi tutti fu colto di sorpresa dal 25 luglio, poi soprattutto dall' 8
settembre e dall'ordine di lasciare Roma con Re Vittorio e Badoglio. Di ciò che
gli accadde la mattina del 9 Re Umberto me ne ha parlato più volte con
insistenza, come sentisse il bisogno di giustificarsi, e benché' lo abbia già
scritto altrove, devo ripeterlo qui. Mi raccontò che la sera dell'8 settembre,
dopo la pubblicazione dell'armistizio, che esponeva immediatamente lo stato
italiano all'attacco e alla rappresaglia dei tedeschi, Badoglio se n'era
andato irresponsabilmente a dormire come se nulla fosse. Alle 2 di quella
notte fu sorpreso a letto dai primi colpi di cannone. All'alba Umberto si recò
al Ministero della Guerra, in via XX Settembre, dove già, sui divani del
grande corridoio al primo piano, sedevano il Re, la Regina e Badoglio. Questi
poco dopo gli disse che la famiglia reale, con un piccolo seguito di alti gradi
militari, stabiliva che la forma istituzionale dello stato sarebbe stata
sottoposta a referendum.
Posso
comunque testimoniare, per averli vissuti, sul carattere umanamente straziante
di certi momenti cruciali della vita di Umberto come luogotenente del Regno,
momenti in cui appariva più dolorosa ed insormontabile quella contraddizione
fra la disarmata innocenza della sua buona volontà e la spietata durezza
dell'aggressione politica. Alcuni di questi momenti riguardano tempestosi
rapporti con la stampa, che spinta dalla passione repubblicana, distorceva e
sfruttava a suo danno ogni meno cauta dichiarazione. Una prova di questa
disarmata innocenza la ritrovo nella frase di una sua lettera con la quale mi
restituiva il testo di un'intervista opportunamente corretto (disastrose
esperienze avevano consigliato qualche prudenza). "Mi sembra così vada
bene", scrive Umberto "per le ultime due domande si può forse
migliorare ma nel senso semplice e sincero che nulla vuole -nascondere".
Ancora candore democratico opposto a brutali distorsioni.
Un
altro momento, l'ultimo di un lungo calvario, fu la sera che precedette la
partenza per l'esilio. Ci riunimmo al Quirinale, al lume delle candele, in un
piccolo Consiglio della Corona, per esaminare ed approvare il testo del messaggio
che Umberto avrebbe diretto, partendo, ai cittadini italiani. Ma, a parte la
questione del tono più o meno di rottura da tenere nei confronti del Governo
De Gasperi, che, forzando i tempi, aveva proclamato la repubblica, la vera
domanda che incombeva su di noi era un'altra: se avremmo dovuto incoraggiare o
scoraggiare una frattura nel paese sulla questione istituzionale. Ma tutti noi
sapevamo che Umberto aveva irrevocabilmente scelto e irrevocabilmente abdicato:
non una sola goccia di sangue italiano si doveva spargere per la sua causa e
per causa sua.
La
storia non si fa con i se né con le ipotesi gratuite di ciò che non è avvenuto.
Ma queste servono talvolta a chiarire come e perché' le cose si sono
effettivamente svolte e quali sono le responsabilità dei protagonisti. Nei
passaggi storici decisivi, dalla firma del decreto sul referendum alla partenza
del '46, Umberto diede prova di comportarsi secondo una logica rigorosamente
democratica. Ora, al di fuori di ogni mitizzazione, il metodo democratico è il
registratore imparziale dell'equilibrio delle forze che esiste in un dato
momento e serve a scoraggiare la minoranza dall'affrontare uno scontro fisico
in cui sarebbe perdente. Non rientra invece nella logica del metodo democratico
un qualsiasi vincolo che escluda futuri cambiamenti nella volontà della
maggioranza. Se dunque la Monarchia è un istituto di natura diversa ed
autonoma possono i suoi sostenitori ed il suo rappresentante affidarsi nei
momenti decisivi, e per di più vincolandosi per il futuro, esclusivamente al
metodo democratico? Questa è la domanda storica dalla risposta alla quale
dipende il giudizio sulle responsabilità di Umberto nella caduta dell'istituto
millenario che gli era affidato. È fuori discussione in ogni modo che i
repubblicani, da parte loro, si sono allontanati dal rispetto della logica
democratica, tentando di forzarla a proprio vantaggio. La più grave di queste
forzature è l'articolo 138 della Costituzione che stabilendo l’irrevocabilità
della forma repubblicana, non soltanto ha cancellato la volontà di dieci
milioni di votanti, ma ha voluto impedire ogni controllo democratico futuro
sui possibili cambiamenti di quella maggioranza.
Ancora
poche parole sull'ultimo periodo di vita del Re, quello dell'esilio. Buona
parte di voi lo ha incontrato e lo ricorda in qualche occasione di questo
periodo. Ma come è accaduto a me ripensando a questi incontri, non ci tornano
alla mente quelli in Inghilterra, in America, a Parigi o sulla Costa Azzurra.
Ci viene in mente Cascais. Perché' nonostante lo negasse per via di quella sua
ritrosia a togliere il velo dai sentimenti, nel costruire la perfetta
testimonianza di vita che fu la lunga permanenza lontano dalla sua terra,
Umberto tenne lo sguardo fisso, come a un modello e una guida, in Re Carlo Alberto.
Ci sono fra i due personaggi e le loro vicende personali delle impressionanti
analogie fisiche e morali, alcune imposte dalla sorte, altre deliberatamente
cercate. La grande somiglianza fisica è facile riscontrarla osservando i
ritratti e le statue di Carlo Alberto che si conservano a Torino, ma ancora
maggiori sono le affinità morali, soprattutto un comune atteggiamento di
autoflagellazione. Il dramma dell'esilio, volontario quello di Carlo Alberto,
forzato quello di Umberto, si accompagna nei due sovrani, entrambi mossi da un
fervente spirito religioso, con un sentimento, anzi con una mistica
dell'espiazione di colpe personali e di colpe collettive che, quasi con uno
strano compiacimento, hanno fatto proprie. E c’è soprattutto in Umberto la non
dichiarata, ma pur chiara volontà di trasformare il sacrificio dell'abdicazione
definitiva in apoteosi, l'assunzione di un cilicio morale in redenzione
storica, la sconfitta in monumento. In una evoluzione che matura con il tempo
anche per Umberto, come già in Carlo Alberto, si fa strada nella condizione
dell'esiliato una componente attiva. Da un lato c’è la capacità di assorbire,
quasi annullandoli con la propria accettazione pacata, i colpi del destino
avverso, dall'altra c’è lo sforzo di sublimare l’avversità di quel destino in
un sacrificio personale che si imponga all'attenzione della storia. A mano a
mano che la necessità di questo sacrificio si va precisando nella forma di
un consolidamento nel paese della scelta repubblicana, Umberto sembra
distogliere lo sguardo dal Pantheon e da Superga, che gli sono negati, per
fermarlo sulle radici di Hautecombe. E assume a poco a poco, sostanzialmente,
ma quasi segretamente l'atteggiamento di ultimo Re della Casa.
Fra le
molte pagine che furono scritte sul soggiorno di Umberto in terra portoghese,
sul promontorio di Cascais, la punta più occidentale del continente, non ne
conosco migliori e più autentiche di quelle che Giovanni Mosca ha raccolto
sotto il titolo "Il Re in un angolo". Rileggerle oggi è la miglior
rievocazione di quell'esilio, è come deporre un fiore sulla sua memoria. Mosca
conclude l'introduzione con queste parole: "Se l'uomo è tale che la più
efficace delle propagande in suo favore sia la semplice, serena, distaccata
descrizione di come vive laggiù nella sua solitaria villa in riva
all'Atlantico, ebbene, questo raddoppia in me il piacere e l'orgoglio d'essere
fedele a una persona per esaltare la quale basta semplicemente dire la
verità".
Edgardo
Sogno
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