NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

giovedì 9 marzo 2023

Il Re, i Soldati, il Generale che vinse, XIII parte




Questi episodi, si badi, non rimanevano cancellati nel corso del tempo, scoloriti e superati dalla pur valida e vigorosa presenza del Trattato d'alleanza. Nella vita pubblica italiana la Triplice rappresentava un atto del paese «legale» in contrasto col paese «reale» e sarà così sino all'ultimo istante, cioè sino alla crisi dell'Intervento, tanto simile a quella determinata dalla marcia su Roma, in cui il Sovrano posto dinnanzi al dilemma da risolvere: volontà parlamentare o volontà popolare, in mancanza di solidi sostegni costituzionali si ottenne alla volontà del Paese. Acutamente, del resto, in quell'istesso anno 1912 di anticipato rinnovo della Triplice, il 23 aprile, il Kinderla Wachter in una conversazione con l'incaricato d'affari a Berlino barone Flotow precisò con forte approssimazione al vero quale sarebbe stata la politica dell'Italia in caso di conflitto. L'Italia - egli pensava - avrebbe mobilitato lentamente ed avrebbe atteso. Se la Germania infliggeva alla Francia un primo colpo decisivo l'Italia avrebbe cooperato contro la Francia; se la Francia avesse riportato un primo grande successo, l'atteggiamento dell'Italia sarebbe diventato pericoloso per la Triplice. Era, in anticipo di trentasette anni, il criterio seguito da Mussolini durante l'anno della non belligeranza; ma era pure, anticipato di soli due, quello che seguirà Vittorio Emanuele III, dopo la Marna.

Il Re doveva tener conto delle istanze dei nazionalisti, e di quel vasto allagamento di dannunzianesimo eroico, di futurismo, di repentina aspirazione a cose grandi e di, altrettanto repentina, coscienza di sé che aveva raggiunta i giovani, specialmente nelle setole e negli studi. In qualche modo — lo si è già accennato — anche i più attivi e spinti tra i rivoluzionari delle correnti sindacalistiche (Corridoni, Mussolini, di Vittorio) avrebbero manifestato, presto o tardi, la loro insofferenza a starsene con le mani in mano, mentre l'Europa — essi credevano — sì sarebbe trasformata sotto i colpi della guerra, non più affare privato tra nazione e nazione, ma svolta rivoluzionaria della storia. I tempi della politica remissiva erano passati per semine, aveva dichiarato il di San Giuliano alla Camera, per protestare contro i decreti di Hohenlohe a scapito dei regnicoli nelle terre irredenti (esclusione dagli impieghi, dalle università, eccetera.) e si udirà dalla bocca dello stesso Re: «Può un Savoia rimanere neutrale?». La neutralità italiana, per ragione geografiche era, d'altra parte, già una dichiarazione di guerra contro gli uni, a favore degli altri. Decidendola Vittorio Emanuele III sceglieva da qual parte schierarsi e non certo in contumacia del Re, il Salandra dirà all'ansioso Barrère, negli ultimi giorni del luglio '14: «Vous n'aver; riera a craindre de notre part». Con qualche spiegabile, sebbene un po' cinica allegria, di San Giuliano telefona a Salandra la morte dell'arciduca Francesco Ferdinando a Serajevo e da Fiuggi, dove poco dopo si trovano insieme per passar le acque, trasmettono alla diplomazia dipendente le istruzioni necessarie a precisare alle potenze occidentali e agli alleati la posizione dell'Italia. Nel suo sostanzioso e inelegante italiano, poi, di San Giuliano rende conto al Re delle disposizioni emanate. A Fiuggi s'era recato Flotow il 21 luglio e aveva dichiarato di non saper nulla dell'ultimatum austriaco, celatogli dal suo collega, diffidente della intimità col di San Giuliano. L'avevano poi letto, trasmesso per telefono dalla Consulta ove era stato consegnato dall'incaricato di Affari Ambrozy. Subito sia Salandra che di San Giuliano opposero all'ambasciatore tedesco la inesistenza del «casus foederis» e diramarono una nota agli ambasciatori Bollati e Avarna, in questo senso. Nella lettera al Re, di San Giuliano, premesso che sia lui che Salandra nulla avevano fatto o detto «che impegnasse la libertà di azione dell'Italia negli eventi che potranno derivare dal passo austriaco a Belgrado», diceva di attendere gli ordini del Sovrano «al cui alto seno» sottoponeva «una linea di. condotta» concordata con Salandra. Era quella del «sacro egoismo». E si capiva: l’Italia non poteva far la guerra accanto all'Austria per vendicare sulla Serbia l'assassinio del proprio peggiore nemico. Era una ragione difficile a far comprendere ad un tedesco (gli austriaci non coltivarono alcuna illusione sebbene per qualche giorno per le vie di Innsbruck si addissero ammaestrate grida di «Viva l'Italia») e il Re Vittorio non potette persuaderne il colonnello von Kleist, aiutante di campo del Kaiser, che inviatogli da Berlino per tentare un estremo assalto, aveva dovuto ricevere per due volte al Quirinale. All'albergo «Excelsior» dove il von Keist si recò a pranzo con i suoi colleghi addetti militari alle ambasciate d'Austria e di Germania il Re d'Italia fu ripetute volte chiamato «porco» e anche peggio. Un cameriere - riferisce Salandra - che conosceva bene la lingua ne informò il Ministero. Le note marginali di Guglielmo II ai dispacci dall'Italia non furono meno eloquenti ma erano parole e mostravano solo il dispetto di chi le scriveva.


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