Questi
episodi, si badi, non rimanevano cancellati nel corso del tempo, scoloriti e
superati dalla pur valida e vigorosa presenza del Trattato d'alleanza. Nella
vita pubblica italiana la Triplice rappresentava un atto del paese «legale» in
contrasto col paese «reale» e sarà così sino all'ultimo istante, cioè sino alla
crisi dell'Intervento, tanto simile a quella determinata dalla marcia su Roma,
in cui il Sovrano posto dinnanzi al dilemma da risolvere: volontà parlamentare
o volontà popolare, in mancanza di solidi sostegni costituzionali si ottenne
alla volontà del Paese. Acutamente, del resto, in quell'istesso anno 1912 di
anticipato rinnovo della Triplice, il 23 aprile, il Kinderla Wachter in una
conversazione con l'incaricato d'affari a Berlino barone Flotow precisò con forte
approssimazione al vero quale sarebbe stata la politica dell'Italia in caso di
conflitto. L'Italia - egli pensava - avrebbe mobilitato lentamente ed avrebbe
atteso. Se la Germania infliggeva alla Francia un primo colpo decisivo l'Italia
avrebbe cooperato contro la Francia; se la Francia avesse riportato un primo
grande successo, l'atteggiamento dell'Italia sarebbe diventato pericoloso per
la Triplice. Era, in anticipo di trentasette anni, il criterio seguito da
Mussolini durante l'anno della non belligeranza; ma era pure, anticipato di
soli due, quello che seguirà Vittorio Emanuele III, dopo la Marna.
Il
Re doveva tener conto delle istanze dei nazionalisti, e di quel vasto
allagamento di dannunzianesimo eroico, di futurismo, di repentina aspirazione a
cose grandi e di, altrettanto repentina, coscienza di sé che aveva raggiunta i
giovani, specialmente nelle setole e negli studi. In qualche modo — lo si è già
accennato — anche i più attivi e spinti tra i rivoluzionari delle correnti
sindacalistiche (Corridoni, Mussolini, di Vittorio) avrebbero manifestato,
presto o tardi, la loro insofferenza a starsene con le mani in mano, mentre
l'Europa — essi credevano — sì sarebbe trasformata sotto i colpi della guerra,
non più affare privato tra nazione e nazione, ma svolta rivoluzionaria della
storia. I tempi della politica remissiva erano passati per semine, aveva
dichiarato il di San Giuliano alla Camera, per protestare contro i decreti di
Hohenlohe a scapito dei regnicoli nelle terre irredenti (esclusione dagli impieghi,
dalle università, eccetera.) e si udirà dalla bocca dello stesso Re: «Può un
Savoia rimanere neutrale?». La neutralità italiana, per ragione geografiche
era, d'altra parte, già una dichiarazione di guerra contro gli uni, a favore
degli altri. Decidendola Vittorio Emanuele III sceglieva da qual parte
schierarsi e non certo in contumacia del Re, il Salandra dirà all'ansioso
Barrère, negli ultimi giorni del luglio '14: «Vous n'aver; riera a craindre de
notre part». Con qualche spiegabile, sebbene un po' cinica allegria, di San
Giuliano telefona a Salandra la morte dell'arciduca Francesco Ferdinando a
Serajevo e da Fiuggi, dove poco dopo si trovano insieme per passar le acque,
trasmettono alla diplomazia dipendente le istruzioni necessarie a precisare alle
potenze occidentali e agli alleati la posizione dell'Italia. Nel suo
sostanzioso e inelegante italiano, poi, di San Giuliano rende conto al Re delle
disposizioni emanate. A Fiuggi s'era recato Flotow il 21 luglio e aveva
dichiarato di non saper nulla dell'ultimatum austriaco, celatogli dal suo
collega, diffidente della intimità col di San Giuliano. L'avevano poi letto,
trasmesso per telefono dalla Consulta ove era stato consegnato dall'incaricato
di Affari Ambrozy. Subito sia Salandra che di San Giuliano opposero
all'ambasciatore tedesco la inesistenza del «casus foederis» e diramarono una
nota agli ambasciatori Bollati e Avarna, in questo senso. Nella lettera al Re,
di San Giuliano, premesso che sia lui che Salandra nulla avevano fatto o detto
«che impegnasse la libertà di azione dell'Italia negli eventi che potranno
derivare dal passo austriaco a Belgrado», diceva di attendere gli ordini del
Sovrano «al cui alto seno» sottoponeva «una linea di. condotta» concordata con
Salandra. Era quella del «sacro egoismo». E si capiva: l’Italia non poteva far
la guerra accanto all'Austria per vendicare sulla Serbia l'assassinio del
proprio peggiore nemico. Era una ragione difficile a far comprendere ad un
tedesco (gli austriaci non coltivarono alcuna illusione sebbene per qualche
giorno per le vie di Innsbruck si addissero ammaestrate grida di «Viva
l'Italia») e il Re Vittorio non potette persuaderne il colonnello von Kleist,
aiutante di campo del Kaiser, che inviatogli da Berlino per tentare un estremo
assalto, aveva dovuto ricevere per due volte al Quirinale. All'albergo
«Excelsior» dove il von Keist si recò a pranzo con i suoi colleghi addetti
militari alle ambasciate d'Austria e di Germania il Re d'Italia fu ripetute
volte chiamato «porco» e anche peggio. Un cameriere - riferisce Salandra - che
conosceva bene la lingua ne informò il Ministero. Le note marginali di
Guglielmo II ai dispacci dall'Italia non furono meno eloquenti ma erano parole
e mostravano solo il dispetto di chi le scriveva.
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