di
Emilio Del Bel Belluz
ll 18
marzo 1983 moriva in terra d’esilio, a Ginevra, il Re Umberto II. Aveva
lasciato l’Italia il 13 giugno del 1946, dopo il referendum istituzionale che
vide vincitrice la repubblica per oltre un milione di voti. Dopo i risultati si
parlò subito di brogli elettorali e, a Napoli e in altre città, ci furono degli
incidenti dove morirono alcuni giovani monarchici. Il Re per evitare una guerra
civile, scelse di partire per l’esilio, anche perché gli avevano detto che
sarebbe stato per un periodo limitato, fino a quando le cose si fossero
tranquillizzate. Il Re Umberto II partì per l’esilio, accompagnato
all’aeroporto da alcuni fedelissimi. Non si volle dar pubblicità alla sua
partenza per evitare un bagno di folla che lo salutasse e temendo degli
incidenti. Dalle foto d’epoca e dai filmati lo si vede in alcuni momenti con il
volto sorridente che saluta le poche persone presenti, ma il suo cuore era
rivolto a quei dieci milioni di elettori che avevano scelto di votare per la
monarchia e per i Savoia, la cui storia millenaria aveva fatto l’Unità
d’Italia. Prima di partire una donna si avvicinò al Re con un sacchetto di
terra, dicendo al sovrano di portarla con sé perché era terra italiana e che
forse l’avrebbe fatto sentire meno solo. Il sovrano con la gentilezza che lo
contraddistingueva, accettò questo dono, nato da quei buoni sentimenti che il
popolo italiano ha sempre avuto. Successivamente raccontò a un giornalista che
subito dopo il decollo aveva la morte nel cuore, e le lacrime gli scendevano
copiose sul volto. Qualcuno disse che i Re non possono piangere mai, ma il buon
Re Umberto II comprese benissimo che non avrebbe più rivisto il suo Paese. Il
viaggio verso l’esilio non fu facile: “Il giorno che dovetti abbandonare
l’Italia, sul Mediterraneo trovai un tempo pessimo. L’aereo faceva fatica a
mantenere la rotta, e giunti che fummo sulla Sardegna venne preso come una
foglia in mezzo all’uragano. Più volte passammo tra i fulmini, più volte
credemmo d’essere sul punto di precipitare. Ad un certo momento il pilota gridò
che era impossibile proseguire, che non rimaneva che tentare di tornare
indietro. – Dobbiamo proseguire! – gridai. - Io non posso tornare in Italia -.
E proseguimmo. Ebbene, perché non dirlo? Per religioso ch’io sia, più volte
durante quel viaggio invocai la morte.” (Ezio Saini – Quattro principi in
esilio -). Qualche ora dopo il Re Umberto II giunse a Barcellona dove lo
accolsero le autorità spagnole. Il giorno successivo arrivò a destinazione e
poté riabbracciare la famiglia e i figli. La vita da Re in esilio non fu facile
perché la nostalgia era la sua nemica principale. In un articolo
comparso nelle colonne del Gazzettino il 1° giugno 2019 l’attuale Ministro
della Giustizia, Carlo Nordio scrisse: “- Gentiluomo - Umberto II si comportò
da gentiluomo. Pur contestando l’interferenza di De Gasperi e il risultato
delle urne, si rassegnò alla sconfitta, risparmiando al Paese una ennesima
controversia estenuante ed inutile. Il 13 giugno salutò commosso i suoi
collaboratori, e partì per l’esilio. Non fu ripagato di tanta signorilità. Con
una disposizione assurda quanto meschina, la nuova Costituzione avrebbe
impedito l’accesso in Italia anche dei suoi figli maschi. Comunque, pochi
giorni dopo la Cassazione confermò i numeri di Romita”. Il Re
Umberto II visse la sua vita in esilio in terra portoghese, arrivando al paese
di Cascais che allora era un paese di poveri
pescatori. Divenne amico di quelle umili persone, con quella
gente cercò di dimenticare i dolori che la vita non gli aveva risparmiato. Era
un re cattolico e alla domenica si recava alla Santa Messa nella piccola chiesa
del paese. Si metteva nel primo banco, a destra, vicino alla statua della
Madonna. Quel posto era sempre lasciato libero perché era il posto del Re. Con
sé aveva il libro della messa che sua madre, la Regina Elena gli aveva donato.
Alla fine della cerimonia molti poveri della zona gli chiedevano l’elemosina e
il Re cercava di accontentare tutti. La sua fama di uomo gentile si sparse
nella zona e molti andavano a messa per vederlo. Molte volte ho immaginato il
mio Re in esilio, avvolto da una terribile solitudine e
nostalgia che ognuno prova nell’essere ingiustamente allontanato dalla propria
Patria. In una foto trovata in una libreria d’antiquariato si vedeva il Re che
osservava l’oceano, e sperava che una delle navi viste in lontananza, potesse
raggiungerlo per condurlo in Italia. Sul retro della fotografia vi erano
scritte due frasi che citava spesso: una dello scrittore americano James
Baldwuin:” Una delle ragioni per cui la gente si aggrappa così tenacemente
all’odio è che sembrano avere la sensazione che una volta svanito l’odio gli
resterà solo il vuoto e la pena”. L’altra era del grande scrittore Aldous
Huxley:” Gli uomini non imparano mai nulla dalle lezioni della storia. E questa
è la più importante lezione che la storia ha da
insegnarci”. L’’unica cosa che si poteva imputare a questo Re era di
sicuro il bene che voleva al suo popolo e la generosità che ha sempre
dimostrato nei confronti degli italiani in difficoltà. Non potendo
venire personalmente nel nostro Paese, aveva nominato come suo uomo di fiducia
il Ministro della Reale Casa Savoia, Falcone Lucifero. Costui nei momenti
difficili e nelle tragedie che colpirono l’Italia, portava aiuti economici
donati dal Re. A Motta di Livenza, durante la terribile alluvione
che sommerse il paese, nel novembre 1966, il Re colpito profondamente da questa
tragedia fece arrivare conforti economici alle popolazioni. Questa verità l’ho
trovata scritta in una delle tante lettere di persone che lo ringraziavano per
l’aiuto ricevuto. Nel passare degli anni non mancò mai d’incontrare coloro che
lo andavano a visitare, e si intratteneva con loro come un caro amico. Quando
poi li accompagnava, sentiva più forte la malinconia dell’esilio, perché non
avrebbe potuto seguirli. Dalle cronache del tempo e dai molti racconti sentiti,
la descrizione del Re era sempre quella di un uomo gentile, generoso e leale.
Qualcuno disse che sarebbe stato un buon Re se avesse potuto governare in
Italia. Molti lo amavano talmente tanto che spesso gli scrivevano, e il Re
aiutato dalle persone che gli stavano accanto, rispondeva a tutti. Tanti di
questi italiani gli chiedevano una foto con dedica, e questa richiesta veniva
sempre esaudita. Personalmente ricevetti la foto del Re con una dedica che ho
incorniciato e posta nella mia biblioteca e, alcuni anni dopo, mi fu spedito un
suo libro, sempre con la sua firma. Sono stati dei regali che hanno saputo
rendere felice una persona. La figura del Re veniva rappresentata anche da
questi piccoli gesti. Tacito diceva “Chi è nato da una nobile stirpe anche
nella sventura conserva la nobiltà”. Questa nobiltà la mantenne inalterata per
tutta la vita, anche nei momenti difficili della malattia che sopportò senza
lamentarsi. Da buon cattolico invocava l’aiuto del Signore. Quando
seppe che gli rimanevano solo pochi mesi di vita, chiese ai politici italiani
di poter ritornare nel suo Paese per rivedere i luoghi che tanto amava. Ma il
suo ultimo desiderio non fu esaudito. Penso alla frase del noto giurista
Francesco Carnelutti: “L’Italia è la culla del diritto e la tomba della
giustizia”. Ebbi l’occasione di vedere una foto che lo raffigurava quando era
degente in un ospedale londinese, colpito da un tumore che lo stava lentamente
uccidendo. I suoi occhi nello stesso tempo erano quelli di una persona che non
temeva nulla, eccetto il giudizio di Dio. La morte lo colse in un ospedale
svizzero, e in quel momento lo liberò dai tanti tormenti della vita. Allora fui
tra le migliaia di persone che andarono al suo funerale Francia. Molti
sventolavano la bandiera con lo scudo Sabaudo, ed erano coloro che non si erano
arresi alle difficoltà del duro e lungo viaggio. Fui tra quelli che arrivarono
subito dopo che il corpo del Re era stato esposto nella abbazia di Hautecombe.
La bara era aperta, sopra vi era stesa la bandiera Sabauda, era vestito con
l’uniforme da generale ed il viso era scolpito dalla malattia. L’emozione fu
tanta, come copiose furono le lacrime che versai. Essendo tra i primi che
arrivai nella Savoia a Hautecombe, fui testimone del seguente fatto. Mi trovavo
all’interno dell’abbazia. Mi ero messo a pregare, quando sentii alcune frasi
intercorse tra le due guardie del Pantheon, ignare della mia presenza. Uno dei
due disse che quel gesto non si poteva fare, ma l’altro alla fine si chinò e
fece una carezza al volto del Re. Pensai che era la carezza che gli italiani
avrebbero voluto fare a una persona dal cuore così grande. A Motta di Livenza,
il signore Antonio Carlo Lippi, alla fine della guerra, il 2 giugno, esponeva
dal suo balcone la bandiera Sabauda. Quando lo faceva, mi raccontava
in questi giorni sua figlia Vanda, arrivavano i carabinieri che lo obbligavano
a toglierla, ma lui, subito dopo, la rimetteva. Ogni anno anch’io espongo la
bandiera Sabauda nel giorno dell’anniversario della morte del re ed il 2
giugno, non riconoscendo la festa della repubblica. Dopo la sua morte, sulla
sua scrivania, furono ritrovati due fogli scritti di suo pugno.
«Dal testamento
di San Pietro I Vladika del Montenegro.
"Io
mi avanzo pieno di speranza alle soglie del Tuo Divino Santuario
la cui
fulgida luce ravvisai sul sentiero misurato
dai
miei passi mortali.
Alla
Tua chiamata io vengo tranquillo..." ».
Una
citazione di una lettera di san Paolo ai Corinti, copiata in latino e tradotta
in italiano:
«Mihi
autem pro minimo est ut a vobis iudicer (aut ab humano die). Sed neque me ipsum
iudico. Nihil enim mihi conscius sum sed non in hoc iustificatus sum; qui autem
iudicat me, Dominus est».
Traduzione
del Re:
«Poco
importa a me d'essere giudicato da voi (o da un tribunale di uomini) né mi
giudico da me stesso, poiché non ho coscienza di aver commesso alcunché ma
non per questo sono giustificato: mio giudice è il Signore».
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