NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

domenica 5 marzo 2023

ELETTI, VOTATI, VOCATI. CREPUSCOLO DELLA “RAPPRESENTANZA”

 

di Aldo A. Mola

Quis custodiet ipsos custodes?

“Bisogna che venite appresso a me!”/disse er Leone ar Popolo animale. / E tutti quanti agnedero cor Re,/ ma doppo un po' de strada ecchete che/ er Re rimase in coda, cor Cignale.// “Ritorna ar posto indove t'eri messo”/ je disse quello “e insegnece er cammino...”. “ Va là” rispose er Re “tanto è lo stesso:/ oggi chi guida un popolo è destino/ che poi finisce per andaje appresso”.

 

   Questa brillante sintesi della “dottrina delle élites” (piccolo vanto del pensiero politico italiano, secondo Norberto Bobbio) non è di Gaetano Mosca, Vilfredo Pareto o Roberto Michels, ma di Carlo Alberto Salustri (Roma, 1871-1950: morì appena nominato senatore a vita da Luigi Einaudi, monarchico e liberale), celebre come Trilussa dal più famoso tra i suoi pseudonimi (ne riparleremo). Come tante sue poesie, “Er Re Leone” va riletta per rispondere ai quesiti che si affollano sull'esito delle elezioni regionali di domenica scorsa, 12 febbraio, penultima del Carnevale 2023.

   Al netto dei commenti di auto-consolazione e auto-assoluzione su chi ha vinto un po' di più o ha perso un po' di meno, va constatato che ormai il crollo della partecipazione elettorale non è affatto un malessere passeggero, come si vuol far credere, bensì patologico. Fingere che non lo sia significa fare gli struzzi. Non è assenteismo per distrazione di massa. Segnala che si è aperta la grande faglia tra corpo elettorale e la sua rappresentanza. E' anche anche l’ultimo appello alla “politica” affinché si dia una mossa e si sforzi di percepire quel che pensano i cittadini, a cominciare dalla politica estera e quindi militare dello Stato d'Italia.

   Da decenni molte votazioni amministrative si sono svolte nell'indifferenza di un numero crescente di elettori. I primi segnali sono arrivati da Mezzogiorno e grandi isole, ma anche da aree periferiche dell'Italia centro-settentrionale. In alcuni casi superiore al 70 per cento, quell'astensione è stata a lungo classificata come manifestazione episodica e circoscritta di malumori locali, una febbricciattola del sistema democratico in sé granitico. La beata auto-celebrazione della “democrazia” ha accompagnato anche l’elezione di parlamentari in collegi per motivi vari rimasti vacanti e assegnati come feudi blindatissimi a candidati di assoluta fiducia del “mandante”. Paradigmatiche rimangono l'elezione del dottor Antonio Di Pietro (il fu stato magistrato più amato dagli italiani) nel collegio del Mugello e (in tempi meno arcaici ma dal profilo identico) quella di taluni “democratici” nel collegio di Siena, passato di mano in mano sino a Enrico Letta, sciacquato nella Senna. In molti casi tali “ludi cartacei” (come li definiva quel tizio che poi agli italiani impose il voto obbligatorio) si risolsero in una finzione mortificante, fatta apposta per dissuadere qualunque tentativo di capovolgere l'esito scontatissimo con candidature alternative. Un seggio parlamentare venne procacciato, quando era ministro, a Roberto Gualtieri, che lo abbandonò per la candidatura, molto più ghiotta, a sindaco di “Roma capitale” in vista del Giubileo, con tutto quel che ne discende in termini di potere e di controllo di fondi pubblici e privati nel prossimo triennio.

   Vien bene, a proposito della Città Eterna, memorizzare quanto ha detto papa Francesco il 2 febbraio agli 82 gesuiti congolesi guidati dal padre provinciale Rigobert Kyungu S. J., raccolti a dialogo anziché ad audiendum verbum dopo l'incontro di preghiera nella cattedrale “Notre Dame du Congo” a Kinshasa: “La chiesa, ha osservato il pontefice, non è una multinazionale della spiritualità”. Si contrappone alla “cultura pagana molto generalizzata” , distillato di “denaro, potere e fama”, opposto a “vicinanza, misericordia e tenerezza”. “Le istituzioni senza vicinanza e senza tenerezza faranno anche del bene, ma sono pagane”. Sappiamo a chi si riferisce.

   Il rifiuto di un numero crescente di cittadini di accedere ai seggi elettorali, dunque, non è affatto nuovo ma dallo scorso 12 febbraio si è imposto all'attenzione in misura assillante, sia per le percentuali, salite in parecchi comuni e in alcuni quartieri oltre la soglia più pessimistica, sia per la specificità delle due regioni chiamate a rinnovare il presidente e il consiglio. Per abitanti, reddito pro-capite e “rappresentatività”, il Lazio e la Lombardia sono altra cosa rispetto a “consorelle” chiamate al voto alla spicciolata in precedenti occasioni. Valga il caso dell'Umbria, ove il Partito democratico registrò la prima inattesa sconfitta. Lì la posta in gioco attizzò la partecipazione. In consultazioni successive la partecipazione andò sempre più scemando. Il campanello d'allarme fu ignorato. Ma ora? Una settimana addietro l'elettorato ha voltato le spalle malgrado la mobilitazione di un'imponente  macchina promozionale, risultata autoreferenziale e non priva di risvolti e risultati patetici, come quella frettolosamente allestita a sostegno della dottoressa Letizia Maria Brichetto Arnaboldi Moratti.

 

Eletti e votati quando c'era il re...

 

Per valutare se la frana dell'afflusso ai seggi elettorali sia davvero grave giova un sintetico panorama della storia delle elezioni. La premessa è scontata. Il diritto di voto fu la grande conquista della democrazia partecipativa moderna. Non quella dell'antichità, che ad Atene e a Roma lo riservava a minoranze o lo immaginava decisione “diretta” della comunità auto-convocata (alla Rousseau, per intenderci), ma quella varata in Francia dopo la Rivoluzione dell'Ottantanove. Malgrado ben noti e deplorevoli eccessi, il suffragio universale è speculare alla Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino. Scandì le sue diverse fasi e le svolte che si susseguirono, sino ai plebisciti chiesti da Napoleone Bonaparte per avallare il colpo di Stato del 18 brumaio e la sua proclamazione a imperatore dei francesi. Il “modello” fu esportato nei Paesi via via contagiati dal messaggio rivoluzionario e/o assoggettati dalle armate napoleoniche. Segnò un punto di non ritorno. Dopo il crollo di Napoleone, la richiesta di ripristinare assemblee elettive rimase obiettivo dei liberali costituzionali al di qua e al di là dell'Atlantico.

   Come scrisse Giosue Carducci, che lo sapeva per cognizione personale, furono le “società segrete” (anzitutto la massoneria) a praticare e a predicare i due canoni cardinali della politica moderna: elettività alle cariche, durata ope legis del loro esercizio e rielettività solo dopo un congruo intervallo per scongiurare il rischio che l'esercizio del potere (non del solo “capo” ma anche del suo “seguito) si trasformi da democratico in indeterminato e generi fatalmente il culto della personalità e determini la fuoriuscita dal regime costituzionale. Per rimanere al “caso Italia”, dopo decenni di cospirazioni, moti e insurrezioni il Quarantotto di metà Ottocento vide fiorire una molteplicità di Costituzioni. La più limpida e feconda fu lo Statuto promulgato da Carlo Alberto di Savoia nel regno di Sardegna il 4 marzo 1848, preceduto dalle regie patenti che nel novembre 1847 introdussero l'elettività dei consigli comunali, provinciali e divisionali, modellati sull'esempio dell'età franco-napoleonica. Il voto era riservato a un numero esiguo di cittadini e non era obbligatorio. Per eleggere deputati in collegi uninominali ai seggi si recava chi voleva. La legge elettorale però prevedeva che al primo turno dovesse affluire almeno un terzo degli aventi diritto, pena la nullità della votazione. Era la garanzia della rappresentatività effettiva degli eletti, fondata sulla partecipazione degli aventi diritto, non sulla loro indifferenza. La storia, con secoli di dominio straniero e di guerre contro gli invasori aveva insegnato  che i cittadini dovevano far quadrato a sostegno delle istituzioni anche attraverso la leva militare obbligatoria, prolungata con la “milizia paesana” di cui ha scritto il generale Oreste Bovio in “Pagine di storia” (Ed. Roberto Chiaramonte, 2023).

   I pilastri dello Stato erano tre “S”: la Spada, la Scheda, i Soldi. L'articolo 25 dello Statuto era chiarissimo: i regnicoli contribuivano “indistintamente, nella proporzione dei loro averi, ai carichi dello Stato”. Per gli evasori fiscali, come per evasione dall'obbligo di leva, non erano previsti sconti.

   Con la proclamazione del regno d'Italia la legge elettorale di quello di Sardegna divenne nazionale. Come ricorda Pierluigi Ballini, la percentuale dei votanti si attestò costantemente intorno al 60%. L'affluenza più elevata venne registrata in Sicilia e nel Mezzogiorno. Finalmente liberi dai Borbone, i meridionali scommisero sulla nuova dirigenza di votati, molti dei quali avevano alle spalle decenni di prigionia o di esilio. Erano vocati. La partecipazione al voto rimase nettamente inferiore nel Veneto e in alcune province lombarde, succube del clero anti-unitario, ove essa a volte risultò persino al di sotto del 30%. Sia la Sinistra democratica (“garibaldini”, ex mazziniani,  radicali, protosocialisti) sia alcune frange illuminate della Destra propugnarono il suffragio universale, introdotto nel 1913, quando nessuno statista immaginava che di lì a poco l'Europa si sarebbe buttata a corpo morto nella fornace della Grande Guerra. L'intervento venne deliberato dalle Camere obtorto collo e senza alcun avallo degli elettori. Fu estorto alla Camera da un governo consapevole di avere il sostegno di appena 120 deputati su 508 e che l'opinione pubblica era prevalentemente contraria. “Vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole...”.

   Nel regime monarchico i rappresentanti dei cittadini venivano dunque “eletti”. All'epoca erano un’élite, cioè una “dirigenza” non precostituita per nascita o censo ma votata. Chiunque poteva candidarsi. La decisione usciva dalle urne. L'elettività alle cariche e un'ampia gamma di forme di promozione sociale aprì l'ascesa alle cariche supreme anche a cittadini di modeste condizioni. L'elenco potrebbe essere lunghissimo. A parte il corpo diplomatico, tutti gli altri uffici dello Stato e l'ingresso nella dirigenza politica risultarono “aperti”. Accadde anche per le forze armate, in specie per l'Esercito, che vide salire in vetta un esponente della “piccola borghesia” quale Luigi Capello, comandante dell'Armata più corposa mai esistita in Italia prima e dopo di lui. Il regime statutario conciliò i principi della gerarchia e del merito, che dallo Statuto passarono nella Costituzione repubblicana (anche se largamente ignorati e spesso calpestati, come l'art. 97 secondo i quale “agli impieghi nelle Pubbliche Amministrazioni si accede mediante concorso” . La gerarchia era nell'organicità degli uffici, il merito veniva vagliato dalla scuola, che funse da “ascensore sociale” e propiziò l'affermazione in posizioni apicali a prescindere dalle condizioni originarie. Non per caso la legge elettorale conferì il diritto di voto sulla base del grado di istruzione, anziché solo sul censo. Tra i principali artefici della Nuova Italia bastino i nomi dell'albese Michele Coppino, il più innovativo ministro della Pubblica istruzione dal 1861 a oggi, nato da un ciabattino e da una cucitrice, e di Carducci. Figlio di un “chirurgo” squattrinato (non “medico”, come all'epoca accadeva), allievo all'Università grazie a una “borsa di studio”, fu nominato docente universitario a 25 anni. Curiosamente entrambi erano stati iniziati in loggia. Coppino nell' “Ausonia” di Torino (1860), Carducci nella “Felsinea” di Bologna (1866):

   Il regime rappresentativo incentivò la partecipazione alla vita politica. Ogni cittadino sentiva di potere e dovere esercitare la sua quota di sovranità. Il corpo della “nazione”, somma dei “popoli d'Italia” come argomentò Vittorio Emanuele II, era il vivaio dal quale la Terza Italia attingeva sempre nuove energie sulla base della libertà del voto.

   Per ironia della sorte o per l'eterogenesi dei fini che si diverte a deviare l'illusorio “corso della storia”, proprio l'avvento del voto universale maschile e dei partiti di massa (1919) precipitò il Paese sulla china che condusse al regime di partito unico, al voto obbligatorio, alla tessera di partito quale requisito indispensabile per l'accesso ai pubblici impieghi e al giuramento di fedeltà al duce del regime, imposto a tutti gli impiegati, compresi i docenti universitari. Accadde in Italia ma all'epoca molto peggio avveniva nell'Unione sovietica e in altri Stati totalitari di Europa e di altri continenti. Nel 1929, 1934 e 1939 votò il 98% degli “aventi diritto” e il governo ottenne ogni volta consenso plebiscitario. Gli  eletti non erano propriamente “élite” ma i più “devoti al partito” anziché all'Italia, col risultato che il nazionalismo si risolse nella catastrofe dello Stato. Quanti “gerarchi” erano “vocati”?

 

all'alba  della repubblica...

 

Dal crollo del partito unico e dalla discussa vittoria sulla Monarchia la Repubblica ereditò l'obbligo del voto. Sui documenti di quanti lo evadevano veniva stampigliata la scritta mortificante “Non ha votato”, quasi fosse una colpa “morale” oltre che una (non sempre voluta) infrazione di legge. Alcuni insigni giuristi liberali, come Giovanni Cassandro, propugnarono l'obbligatorietà del voto, nella visione superiore del concetto di cittadinanza. La realtà però rimase altra. Ampia parte dell'elettorato restò succuba di pulsioni estreme. Erano gli anni della cortina di ferro, della divisione tra Democrazia cristiana e Fronte popolare, di temute insurrezioni eterodirette, ampiamente documentate da opere recenti quasi subito dimenticate. Le scelte razionali rimasero professione di minoranze esigue. Il partito d'azione, che contò sulla concentrazione più elevata di “intelletti”, si frantumò quattro mesi prima dell'elezione della Costituente. Giuseppe Saragat, che guidò parte dei socialisti italiani verso la libertà democratica, venne lapidato dai socialcomunisti. Come poi accadde a Bettino Craxi.

   Al netto delle critiche che li angustiarono e ne profetizzarono il tramonto, per un un trentennio i partiti alimentarono la partecipazione alla vita pubblica e il rinnovamento della dirigenza attraverso i loro riti interni e quelli elettorali, dai piccoli comuni al Parlamento. Il cittadino rimase a lungo convinto che, sommando un voto all'altro, la sua scelta personale potesse davvero incidere e determinare il corso generale della vita politica.

   Quando si spensero le illusioni? Paradossalmente proprio quando l'orizzonte divenne meno fosco: il crollo dell'Unione sovietica, la riunificazione della Germania, l'alba dell'Unione europea. Preceduta dalla “prova generale” dell'artificioso “scandalo” montato sulla '“P2” (una mistificazione da ricordare per tutte le sue nefaste conseguenze), dal 1992-1993 la campagna di discredito dei partiti e della “politica” (con rutto di tamburi di certi “media”) travolse il regime repubblicano postbellico senza generarne un altro. Dei vecchi “soci” del Comitato di liberazione nazionale sopravvisse solo l'ex Partito comunista italiano.

   Dalle macerie non nacquero fiori. Iniziò la grande fuga dalla vita pubblica. Il processo fu lento ma inarrestabile. Ora se ne vedono le conseguenze ultime. Vale per la “politica” come per l'istruzione pubblica. Bastarono pochi anni per svuotare la Scuola. Occorreranno generazioni per rimediare al guaio. Chiusa l'epoca degli uomini cosmico-storici (come descritti da Hegel) seguì quella dei comici e/o di “avvocati del popolo”, tribuni né eletti né vocati. Piaccia o meno, nel 1994 e per altre due volte Silvio Berlusconi ebbe il suffragio di metà dei voti, molto molto più di quanti ne ha avuti il partito dell'attuale presidente del Consiglio, che il 25 settembre 2022 ottenne i 16% degli aventi diritto al voto.

   Tempo è venuto di domandarsi perché manchino non tanto elezioni (convocate per ratificare candidati pre-confezionati) ma “vocazioni”. Occorre ripartire dalla centralità dello Stato, garante dei diritti dei cittadini, e da un'amministrazione pubblica rispondente alle loro urgenze quotidiane. Altrettanto, e ancor più, vale per le decisioni sul problema dei problemi: la politica estera e militare in un mondo che è in guerra e che, come ricorda papa Francesco dichiarandosi “un po' pessimista”, va “avanti, avanti, avanti verso il baratro.”

    Chi si illude che si possa ignorare quel che pensano i cittadini sino alle elezioni dei deputati all'Europarlamento nel 2024 e che nel frattempo tutto resta com'è ha un'idea bislacca della democrazia elettorale, della “rappresentanza”, e confonde la pazienza con la rassegnazione a non contare nulla. Ma oggi i cittadini sono informati e controllano le zampate “der Re leone”.     

 

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