di Aldo A. Mola
Quis custodiet ipsos custodes?
“Bisogna che venite appresso a me!”/disse er Leone ar Popolo animale. / E tutti quanti agnedero cor Re,/ ma doppo un po' de strada ecchete che/ er Re rimase in coda, cor Cignale.// “Ritorna ar posto indove t'eri messo”/ je disse quello “e insegnece er cammino...”. “ Va là” rispose er Re “tanto è lo stesso:/ oggi chi guida un popolo è destino/ che poi finisce per andaje appresso”.
Questa brillante sintesi della “dottrina delle
élites” (piccolo vanto del pensiero politico italiano, secondo Norberto Bobbio)
non è di Gaetano Mosca, Vilfredo Pareto o Roberto Michels, ma di Carlo Alberto
Salustri (Roma, 1871-1950: morì appena nominato senatore a vita da Luigi
Einaudi, monarchico e liberale), celebre come Trilussa dal più famoso tra i
suoi pseudonimi (ne riparleremo). Come tante sue poesie, “Er Re Leone” va
riletta per rispondere ai quesiti che si affollano sull'esito delle elezioni
regionali di domenica scorsa, 12 febbraio, penultima del Carnevale 2023.
Al netto dei commenti di auto-consolazione e
auto-assoluzione su chi ha vinto un po' di più o ha perso un po' di meno, va
constatato che ormai il crollo della partecipazione elettorale non è affatto un
malessere passeggero, come si vuol far credere, bensì patologico. Fingere che
non lo sia significa fare gli struzzi. Non è assenteismo per distrazione di
massa. Segnala che si è aperta la grande faglia tra corpo elettorale e la sua
rappresentanza. E' anche anche l’ultimo appello alla “politica” affinché si dia
una mossa e si sforzi di percepire quel che pensano i cittadini, a cominciare
dalla politica estera e quindi militare dello Stato d'Italia.
Da decenni molte votazioni amministrative si
sono svolte nell'indifferenza di un numero crescente di elettori. I primi
segnali sono arrivati da Mezzogiorno e grandi isole, ma anche da aree
periferiche dell'Italia centro-settentrionale. In alcuni casi superiore al 70
per cento, quell'astensione è stata a lungo classificata come manifestazione
episodica e circoscritta di malumori locali, una febbricciattola del sistema
democratico in sé granitico. La beata auto-celebrazione della “democrazia” ha
accompagnato anche l’elezione di parlamentari in collegi per motivi vari
rimasti vacanti e assegnati come feudi blindatissimi a candidati di assoluta
fiducia del “mandante”. Paradigmatiche rimangono l'elezione del dottor Antonio
Di Pietro (il fu stato magistrato più amato dagli italiani) nel collegio del
Mugello e (in tempi meno arcaici ma dal profilo identico) quella di taluni
“democratici” nel collegio di Siena, passato di mano in mano sino a Enrico
Letta, sciacquato nella Senna. In molti casi tali “ludi cartacei” (come li
definiva quel tizio che poi agli italiani impose il voto obbligatorio) si
risolsero in una finzione mortificante, fatta apposta per dissuadere qualunque
tentativo di capovolgere l'esito scontatissimo con candidature alternative. Un
seggio parlamentare venne procacciato, quando era ministro, a Roberto Gualtieri,
che lo abbandonò per la candidatura, molto più ghiotta, a sindaco di “Roma
capitale” in vista del Giubileo, con tutto quel che ne discende in termini di
potere e di controllo di fondi pubblici e privati nel prossimo triennio.
Vien bene, a proposito della Città Eterna,
memorizzare quanto ha detto papa Francesco il 2 febbraio agli 82 gesuiti
congolesi guidati dal padre provinciale Rigobert Kyungu S. J., raccolti a
dialogo anziché ad audiendum verbum dopo l'incontro di preghiera nella
cattedrale “Notre Dame du Congo” a Kinshasa: “La chiesa, ha osservato il
pontefice, non è una multinazionale della spiritualità”. Si contrappone alla
“cultura pagana molto generalizzata” , distillato di “denaro, potere e fama”,
opposto a “vicinanza, misericordia e tenerezza”. “Le istituzioni senza
vicinanza e senza tenerezza faranno anche del bene, ma sono pagane”. Sappiamo a
chi si riferisce.
Il rifiuto di un numero crescente di cittadini
di accedere ai seggi elettorali, dunque, non è affatto nuovo ma dallo scorso 12
febbraio si è imposto all'attenzione in misura assillante, sia per le
percentuali, salite in parecchi comuni e in alcuni quartieri oltre la soglia
più pessimistica, sia per la specificità delle due regioni chiamate a rinnovare
il presidente e il consiglio. Per abitanti, reddito pro-capite e
“rappresentatività”, il Lazio e la Lombardia sono altra cosa rispetto a
“consorelle” chiamate al voto alla spicciolata in precedenti occasioni. Valga
il caso dell'Umbria, ove il Partito democratico registrò la prima inattesa
sconfitta. Lì la posta in gioco attizzò la partecipazione. In consultazioni
successive la partecipazione andò sempre più scemando. Il campanello d'allarme
fu ignorato. Ma ora? Una settimana addietro l'elettorato ha voltato le spalle
malgrado la mobilitazione di un'imponente
macchina promozionale, risultata autoreferenziale e non priva di
risvolti e risultati patetici, come quella frettolosamente allestita a sostegno
della dottoressa Letizia Maria Brichetto Arnaboldi Moratti.
Eletti e votati quando c'era il
re...
Per valutare se la frana dell'afflusso ai seggi
elettorali sia davvero grave giova un sintetico panorama della storia delle
elezioni. La premessa è scontata. Il diritto di voto fu la grande conquista
della democrazia partecipativa moderna. Non quella dell'antichità, che ad Atene
e a Roma lo riservava a minoranze o lo immaginava decisione “diretta” della
comunità auto-convocata (alla Rousseau, per intenderci), ma quella varata in
Francia dopo la Rivoluzione dell'Ottantanove. Malgrado ben noti e deplorevoli
eccessi, il suffragio universale è speculare alla Dichiarazione dei diritti
dell'uomo e del cittadino. Scandì le sue diverse fasi e le svolte che si
susseguirono, sino ai plebisciti chiesti da Napoleone Bonaparte per avallare il
colpo di Stato del 18 brumaio e la sua proclamazione a imperatore dei francesi.
Il “modello” fu esportato nei Paesi via via contagiati dal messaggio
rivoluzionario e/o assoggettati dalle armate napoleoniche. Segnò un punto di
non ritorno. Dopo il crollo di Napoleone, la richiesta di ripristinare
assemblee elettive rimase obiettivo dei liberali costituzionali al di qua e al
di là dell'Atlantico.
Come scrisse Giosue Carducci, che lo sapeva per
cognizione personale, furono le “società segrete” (anzitutto la massoneria) a
praticare e a predicare i due canoni cardinali della politica moderna:
elettività alle cariche, durata ope legis del loro esercizio e
rielettività solo dopo un congruo intervallo per scongiurare il rischio che
l'esercizio del potere (non del solo “capo” ma anche del suo “seguito) si
trasformi da democratico in indeterminato e generi fatalmente il culto della
personalità e determini la fuoriuscita dal regime costituzionale. Per rimanere
al “caso Italia”, dopo decenni di cospirazioni, moti e insurrezioni il
Quarantotto di metà Ottocento vide fiorire una molteplicità di Costituzioni. La
più limpida e feconda fu lo Statuto promulgato da Carlo Alberto di Savoia nel
regno di Sardegna il 4 marzo 1848, preceduto dalle regie patenti che nel
novembre 1847 introdussero l'elettività dei consigli comunali, provinciali e
divisionali, modellati sull'esempio dell'età franco-napoleonica. Il voto era
riservato a un numero esiguo di cittadini e non era obbligatorio. Per eleggere
deputati in collegi uninominali ai seggi si recava chi voleva. La legge
elettorale però prevedeva che al primo turno dovesse affluire almeno un terzo
degli aventi diritto, pena la nullità della votazione. Era la garanzia della
rappresentatività effettiva degli eletti, fondata sulla partecipazione degli
aventi diritto, non sulla loro indifferenza. La storia, con secoli di dominio
straniero e di guerre contro gli invasori aveva insegnato che i cittadini dovevano far quadrato a
sostegno delle istituzioni anche attraverso la leva militare obbligatoria, prolungata
con la “milizia paesana” di cui ha scritto il generale Oreste Bovio in “Pagine
di storia” (Ed. Roberto Chiaramonte, 2023).
I
pilastri dello Stato erano tre “S”: la Spada, la Scheda, i Soldi. L'articolo 25
dello Statuto era chiarissimo: i regnicoli contribuivano “indistintamente,
nella proporzione dei loro averi, ai carichi dello Stato”. Per gli evasori
fiscali, come per evasione dall'obbligo di leva, non erano previsti sconti.
Con la proclamazione del regno d'Italia la legge
elettorale di quello di Sardegna divenne nazionale. Come ricorda Pierluigi
Ballini, la percentuale dei votanti si attestò costantemente intorno al 60%.
L'affluenza più elevata venne registrata in Sicilia e nel Mezzogiorno.
Finalmente liberi dai Borbone, i meridionali scommisero sulla nuova dirigenza
di votati, molti dei quali avevano alle spalle decenni di prigionia o di
esilio. Erano vocati. La partecipazione al voto rimase nettamente inferiore nel
Veneto e in alcune province lombarde, succube del clero anti-unitario, ove essa
a volte risultò persino al di sotto del 30%. Sia la Sinistra democratica
(“garibaldini”, ex mazziniani, radicali,
protosocialisti) sia alcune frange illuminate della Destra propugnarono il
suffragio universale, introdotto nel 1913, quando nessuno statista immaginava
che di lì a poco l'Europa si sarebbe buttata a corpo morto nella fornace della
Grande Guerra. L'intervento venne deliberato dalle Camere obtorto collo
e senza alcun avallo degli elettori. Fu estorto alla Camera da un governo
consapevole di avere il sostegno di appena 120 deputati su 508 e che l'opinione
pubblica era prevalentemente contraria. “Vuolsi così colà dove si puote ciò che
si vuole...”.
Nel regime monarchico i rappresentanti dei
cittadini venivano dunque “eletti”. All'epoca erano un’élite, cioè una
“dirigenza” non precostituita per nascita o censo ma votata. Chiunque poteva
candidarsi. La decisione usciva dalle urne. L'elettività alle cariche e
un'ampia gamma di forme di promozione sociale aprì l'ascesa alle cariche
supreme anche a cittadini di modeste condizioni. L'elenco potrebbe essere
lunghissimo. A parte il corpo diplomatico, tutti gli altri uffici dello Stato e
l'ingresso nella dirigenza politica risultarono “aperti”. Accadde anche per le
forze armate, in specie per l'Esercito, che vide salire in vetta un esponente
della “piccola borghesia” quale Luigi Capello, comandante dell'Armata più
corposa mai esistita in Italia prima e dopo di lui. Il regime statutario
conciliò i principi della gerarchia e del merito, che dallo Statuto passarono
nella Costituzione repubblicana (anche se largamente ignorati e spesso
calpestati, come l'art. 97 secondo i quale “agli impieghi nelle Pubbliche
Amministrazioni si accede mediante concorso” . La gerarchia era nell'organicità
degli uffici, il merito veniva vagliato dalla scuola, che funse da “ascensore
sociale” e propiziò l'affermazione in posizioni apicali a prescindere dalle
condizioni originarie. Non per caso la legge elettorale conferì il diritto di
voto sulla base del grado di istruzione, anziché solo sul censo. Tra i
principali artefici della Nuova Italia bastino i nomi dell'albese Michele
Coppino, il più innovativo ministro della Pubblica istruzione dal 1861 a oggi,
nato da un ciabattino e da una cucitrice, e di Carducci. Figlio di un “chirurgo”
squattrinato (non “medico”, come all'epoca accadeva), allievo all'Università
grazie a una “borsa di studio”, fu nominato docente universitario a 25 anni.
Curiosamente entrambi erano stati iniziati in loggia. Coppino nell' “Ausonia”
di Torino (1860), Carducci nella “Felsinea” di Bologna (1866):
Il regime rappresentativo incentivò la
partecipazione alla vita politica. Ogni cittadino sentiva di potere e dovere
esercitare la sua quota di sovranità. Il corpo della “nazione”, somma dei
“popoli d'Italia” come argomentò Vittorio Emanuele II, era il vivaio dal quale
la Terza Italia attingeva sempre nuove energie sulla base della libertà del
voto.
Per ironia della sorte o per l'eterogenesi dei
fini che si diverte a deviare l'illusorio “corso della storia”, proprio
l'avvento del voto universale maschile e dei partiti di massa (1919) precipitò
il Paese sulla china che condusse al regime di partito unico, al voto
obbligatorio, alla tessera di partito quale requisito indispensabile per
l'accesso ai pubblici impieghi e al giuramento di fedeltà al duce del regime,
imposto a tutti gli impiegati, compresi i docenti universitari. Accadde in
Italia ma all'epoca molto peggio avveniva nell'Unione sovietica e in altri
Stati totalitari di Europa e di altri continenti. Nel 1929, 1934 e 1939 votò il
98% degli “aventi diritto” e il governo ottenne ogni volta consenso
plebiscitario. Gli eletti non erano
propriamente “élite” ma i più “devoti al partito” anziché all'Italia, col
risultato che il nazionalismo si risolse nella catastrofe dello Stato. Quanti
“gerarchi” erano “vocati”?
… all'alba della repubblica...
Dal crollo del partito unico e dalla discussa
vittoria sulla Monarchia la Repubblica ereditò l'obbligo del voto. Sui
documenti di quanti lo evadevano veniva stampigliata la scritta mortificante
“Non ha votato”, quasi fosse una colpa “morale” oltre che una (non sempre
voluta) infrazione di legge. Alcuni insigni giuristi liberali, come Giovanni
Cassandro, propugnarono l'obbligatorietà del voto, nella visione superiore del
concetto di cittadinanza. La realtà però rimase altra. Ampia parte
dell'elettorato restò succuba di pulsioni estreme. Erano gli anni della cortina
di ferro, della divisione tra Democrazia cristiana e Fronte popolare, di temute
insurrezioni eterodirette, ampiamente documentate da opere recenti quasi subito
dimenticate. Le scelte razionali rimasero professione di minoranze esigue. Il
partito d'azione, che contò sulla concentrazione più elevata di “intelletti”,
si frantumò quattro mesi prima dell'elezione della Costituente. Giuseppe
Saragat, che guidò parte dei socialisti italiani verso la libertà democratica,
venne lapidato dai socialcomunisti. Come poi accadde a Bettino Craxi.
Al netto delle critiche che li angustiarono e
ne profetizzarono il tramonto, per un un trentennio i partiti alimentarono la
partecipazione alla vita pubblica e il rinnovamento della dirigenza attraverso
i loro riti interni e quelli elettorali, dai piccoli comuni al Parlamento. Il
cittadino rimase a lungo convinto che, sommando un voto all'altro, la sua
scelta personale potesse davvero incidere e determinare il corso generale della
vita politica.
Quando si spensero le illusioni?
Paradossalmente proprio quando l'orizzonte divenne meno fosco: il crollo
dell'Unione sovietica, la riunificazione della Germania, l'alba dell'Unione
europea. Preceduta dalla “prova generale” dell'artificioso “scandalo” montato
sulla '“P2” (una mistificazione da ricordare per tutte le sue nefaste
conseguenze), dal 1992-1993 la campagna di discredito dei partiti e della
“politica” (con rutto di tamburi di certi “media”) travolse il regime
repubblicano postbellico senza generarne un altro. Dei vecchi “soci” del
Comitato di liberazione nazionale sopravvisse solo l'ex Partito comunista
italiano.
Dalle macerie non nacquero fiori. Iniziò la grande fuga dalla
vita pubblica. Il processo fu lento ma inarrestabile. Ora se ne vedono le
conseguenze ultime. Vale per la “politica” come per l'istruzione pubblica.
Bastarono pochi anni per svuotare la Scuola. Occorreranno generazioni per
rimediare al guaio. Chiusa l'epoca degli uomini cosmico-storici (come descritti
da Hegel) seguì quella dei comici e/o di “avvocati del popolo”, tribuni né
eletti né vocati. Piaccia o meno, nel 1994 e per altre due volte Silvio
Berlusconi ebbe il suffragio di metà dei voti, molto molto più di quanti ne ha
avuti il partito dell'attuale presidente del Consiglio, che il 25 settembre
2022 ottenne i 16% degli aventi diritto al voto.
Tempo è venuto di domandarsi perché manchino
non tanto elezioni (convocate per ratificare candidati pre-confezionati) ma
“vocazioni”. Occorre ripartire dalla centralità dello Stato, garante dei
diritti dei cittadini, e da un'amministrazione pubblica rispondente alle loro
urgenze quotidiane. Altrettanto, e ancor più, vale per le decisioni sul
problema dei problemi: la politica estera e militare in un mondo che è in
guerra e che, come ricorda papa Francesco dichiarandosi “un po' pessimista”, va
“avanti, avanti, avanti verso il baratro.”
Chi
si illude che si possa ignorare quel che pensano i cittadini sino alle elezioni
dei deputati all'Europarlamento nel 2024 e che nel frattempo tutto resta com'è
ha un'idea bislacca della democrazia elettorale, della “rappresentanza”, e
confonde la pazienza con la rassegnazione a non contare nulla. Ma oggi i
cittadini sono informati e controllano le zampate “der Re leone”.
Nessun commento:
Posta un commento