Per quanto poco valesse,
quella terra era li: aperta a chi la prendesse. La Germania che, fallito il
colpo di Agadir, e pur avendone cavato i compensi al Camerun non dimetteva
l'idea di creare nel Mediterraneo una sua base, trattava sottomano con la
Turchia per l'affitto di novant'anni; limitato alla Cirenaica e, potremo dire,
al porto di Tobruk: imprendibile piazzaforte. Il Re e Giolitti capirono, dopo
questo, la «fatalità» dell'impresa e la vararono.
Una difficile lotta (non
conchiusa o solo apparentemente conchiusa con gli accordi lateranensi e il
concordato del 1929 sosteneva, poi, Vittorio Emanuele per rendere indipendente
il Paese dalle più forti e sensibili influenze della Chiesa Romana. Egli seguì,
in sostanza, il sentiero della rivoluzione liberale: coerente anche in questo;
temperando l'atteggiamento dello Stato nei confronti della Fede cattolica,
nella quale era nato e allevato, e molte volte opponendosi agli zelatori di
drastiche misure anticlericali. Ma l'indirizzo era quello e non poteva mutare
coerentemente con i fatti del XX settembre 1870. La classe dirigente
democratica e laica gli suggeriva di opporre ostilità a ostilità, ed egli pur
profondamente convinto di non poter accedere, per la contradizione che non
consentiva, alla intransigenza vaticana si rendeva conto della forza con la
quale aveva da combattere. Solo al principio del Regno e sotto la preponderante
influenza del massone Zanardelli (1902) si risolse ad una aperta e persino
troppo scoperta avversione alla Santa Sede, minacciando di toccare uno degli
istituti fondamentali della Chiesa, l'indissolubilità del matrimonio. Il Papa
Leone XIII da parte sua lo accusò di mettersi persino contro il dettame
dell'Evangelo; ma le manifestazioni di quel grande Pontefice, data la
personalità veneranda e il particolare momento non richiamarono reazioni uguali
e contrarie da parte sua. Con grande saggezza e misura Egli proclamò di voler «confinata
nel santuario "l'influenza del clero e di "professare il più illimitato
rispetto, serbando inflessibilmente incolumi le prerogative della potestà
civile e dei diritti della sovranità nazionale, per la religione e la libertà
di coscienza». Sapeva di non poter combattere l'influenza della Chiesa sulle anime
dei credenti e non trovava saggio combatterla, questa influenza, in un paese
come l'Italia sede della Cattedra di Pietro e centro della Cristianità. L'anticattolicesimo
del suo Regno, sebbene di altra natura, non poteva paragonarsi a quello,
accanito e settario, dei tempi di Re Umberto, che fu massone. Anche perché i
successi personali, le buone fortune e gli esiti favorevoli della sua politica
esterna e interna allontanavano velocemente dalla Monarchia il pericolo di
crollare sotto gli scioperi e le sconfitte militari o le oscure influenze per
le quali Crispi aveva potuto dire: «Leone XIII è inquieto; l'ambizione lo rode:
egli si darebbe al diavolo per diventare Re». In qualche modo la Segreteria di
Stato, obbediente all'intolleranza del Pontefice, operava nel senso, se pure
con evidente esagerazione, detto da Crispi. Il Vaticano aveva taciuto sulle
stragi degli armeni e dei candioti, per opportunità politica verso la Sublime
Porta (tacerà anche per le stragi del 1945 in Italia settentrionale, per
opportunità politica verso gli alleati di Potsdam). Seguendo un suo segreto
disegno Leone XIII impose la repubblica massonica e anticlericale di Francia ai
cattolici francesi, buttando a mare la Monarchia «primogenita della Chiesa»; ed
era un gioco assai sottile e complicato questo di far leva su Parigi per
ottenerne la tradizionale protezione militare, cercando poi di disgregare la
Triplice abbandonando l'Austria mentre la Francia avrebbe potuto come aveva
proposto Napoleone III a Villafranca, abbattere la Monarchia italiana
sostituendola con una Repubblica federale praticamente capeggiata dal
Pontefice. S'era diffusa la voce, inoltre, che ricevendo Guglielmo II, il
vecchissimo strenuo difensore dei diritti al Soglio gli avesse detto: «Rendetemi
Rom».
La Questione romana pungeva
nel fianco del Regno e la freccia tratto tratto era agitata nella profonda
ferita. Si vide con la venuta di Loubet e con la tempesta che seguì
all'astensione del presidente francese dal rendere omaggio a Colui che riteneva
non estinto il suo principato su Roma. La nota inviata dal Papa Leone ai
rappresentanti delle potenze accennava persino al particolare che l'incontro
ira il Re d'Italia e Loubet fosse avvenuto nell'istesso « palazzo apostolico »
(il Quirinale) occupato da «colui che contro ogni diritto detiene la sovranità
civile». L'autore della terribile sfuriata era il Papa ma l'estensore, sì
disse, il Merry del Val. I fatti vennero tradotti in termini espliciti al
Parlamento francese: «Il Papa ci ha detto che abbiamo avuto l'impudenza di far
visita a un ladro che ci ha ricevuto in una casa rubata a Pietro». A questa buriana
s'aggiunga il tremendo malumore di Guglielmo II a placare il quale il Re spedì
Giolitti a Bad Hamburg, dove Bulow faceva una cura, per chiarirgli che quelle
feste e quel chiasso encomiastico s'era fatto per l'«eliminazione delle ultime
velleità del potere temporale».
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