Oggi
tanti rimpiangono i “partiti”. Si dimentica che in principio vi era lo Stato,
la monarchia costituzionale, che si valeva di una dirigenza sin dall'infanzia
formata all'idea di operare per l'Italia: diplomatici, militari, docenti,
scienziati, artisti, ecclesiastici soccorrevoli e una miriade di funzionari e
impiegati pubblici di condizioni modeste ma fieri della propria missione
civile. Il piemontese Giovanni Giolitti ne è un esempio illustre. Memore del
proprio lungo “apprendistato”, quando fu al governo rispettò sempre i talenti
dei Travèt, ai quali non venne mai né chiesta né imposta una “tessera” ma solo
la fedeltà al servizio dello Stato. Merita di essere meglio conosciuto.
Candidato
alla Camera a sua insaputa, eletto e dichiarato ineleggibile
Nelle Memorie
della mia vita Giovanni Giolitti (Mondovì, 27 ottobre 1842-Cavour, 17
luglio 1928) scrisse di aver appreso di essere candidato alla Camera dalla
“lettera circolare” in cui Antonio Riberi, deputato uscente, comunicò che non
si sarebbe ripresentato e “senza dir(gli) niente” avanzò il suo nome. Aggiunse:
«Fui appoggiato anche dagli altri due deputati che si ritiravano [Luigi Ranco,
ingegnere, e Spirito Riberi, avvocato, NdA]; ma, non tenendoci molto, rifiutai
di andare a fare il solito giro di campagna elettorale.» La realtà fu del tutto
diversa da come la narrò. Va ricordata perché essa incise sulla maturazione di
Giolitti dall'alta burocrazia alla politica e lo segnò per sempre. La sua
candidatura venne affacciata il 9 settembre 1882 in una riunione di notabili
confluiti dal Piemonte a Dronero per lo scoprimento del monumento di Gustavo
Ponza di San Martino, giureconsulto e ministro del regno di Sardegna. Lì il
munifico conte Deodato Pallieri, che da vent'anni propiziava la burocratica
carriera di Giolitti (entrato in magistratura a vent'anni e dal 1869 “prestato”
al ministero delle Finanze, ove collaborò con Quintino Sella) assicurò a Riberi
la nomina a senatore se avesse rinunciato alla Camera. A volerlo deputato fu
anzitutto il presidente del Consiglio Agostino Depretis, massone, che il 21
agosto, in vista delle elezioni lo nominò consigliere di Stato ponendolo al
riparo dall'estrazione a sorte tra i deputati eccedenti il numero riservato ai
pubblici dipendenti e di decadere, come era accaduto a Giosuè Carducci nel
1876.
Il
16 settembre Francesco Blanchi , fratello di un prestigioso
notaio locale, propose a Giolitti la candidatura. Altri seguirono. Sondati
alcuni deputati e notabili, egli accettò ma, fiero della “storia di famiglia” e
di quanti ne avevano propiziato l'ascesa (a cominciare dagli zii materni,
Melchior e Luigi, magistrati, e Alessandro Plochiù, generale: tutti scapoli)
precisò che non intendeva “fare fiasco” e rischiare “una meschina figura”. A
istruirlo e a dettargli quasi parola per parola la lettera programmatica agli
elettori del Collegio di Cuneo furono alcuni amici influenti: Angelo Garelli,
procuratore del Re, l'ex deputato Agostino Moschetti e Nicolò Vineis,
massone e direttore del quotidiano cuneese “La Sentinella delle Alpi”, che da
quasi trent'anni era il regista delle elezioni parlamentari locali. Dopo turbinosa
altalena di candidature Giolitti scese in campo in una terna comprendente
Sebastiano Turbiglio, massone, docente di storia della filosofia alla
“Sapienza” di Roma, e Luigi Roux, direttore della “Gazzetta Piemontese” (futura
“La Stampa”) di Torino, contro il quale si schierò Vittorio Bersezio, già
direttore dello stesso quotidiano, storico e autore delle celebri Miserie 'd
Monsù travet.
Il 15 ottobre Giolitti vergò laboriosamente
la “lettera agli elettori” e la mandò a Garelli che ne cancellò un paio di
frasi a suo avviso controproducenti e la affidò alla “Sentinella”. Su
suggerimento di Moschetti l'aspirante deputato scrisse l'inciso famoso:
«Allorché gli uomini di Stato più eminenti e gli operai sono concordi in un
programma, vi ha la certezza che questi risponde ai veri bisogni del Paese».
Dall'esordio Giolitti si mostrò dunque “politico” autentico: capace di ascolto,
di sintesi e animato da princìpi saldi e condivisi. Non si mosse da Roma ma
sollecitò il sostegno di decine di notabili (sindaci, pretori, farmacisti,
militari, il padre di un parroco della sua valle Maira...) con lettere
personali. sollecitandone il sostegno. Alle 19 del 29 ottobre il procuratore
Garelli gli telegrafò: era il primo eletto con 5310 preferenze su 6864 votanti.
Un successo clamoroso, superiore alle sue prudenti previsioni.
Sennonché il 13 marzo 1883 la Giunta
permanente sulle ineleggibilità e incompatibilità parlamentari, formata dai
deputati più prestigiosi, stabilì che era ineleggibile perché retribuito
dall'erario con propine per le sue funzioni di consigliere di Stato. Giolitti
se ne adontò perché percepì che la pronuncia ne metteva in discussione l'onestà
morale prima che politica, quasi avesse truffato gli elettori, candidandosi
benché ineleggibile. Approntò scrupolosamente la difesa. Il 21 aprile la
illustrò in Aula. Aveva percepito 20 lire per ogni pratica esaminata, ma le
aveva sbrigate quasi sempre a casa propria facendo risparmiare allo Stato “le
spese di locale, carta, oggetti di cancelleria, lumi e simili”. Richiesti di
approvare “per alzata” la proposta di decadenza i presenti rimasero seduti.
Per un soffio l'Italia rischiò di non averlo
deputato, né capofila dell'opposizione piemontese al governo Depretis nel 1886,
né ministro del Tesoro e delle Finanze nel governo presieduto da Francesco
Crispi (1889-1891), né cinque volte presidente del Consiglio e ministro
dell'Interno tra il 1892 e il 1921, né altro ancora. Gli otto mesi dalla
candidatura alla Camera alla conferma dell'elezione a deputato di “homines
abhorrentes servitium et amatores libertatis inctintu naturali” (come
gli aveva scritto Pallieri) furono per lui di noviziato alla “politica” e
innervarono la sobria “retorica” dei suoi interventi in Parlamento sino al 16
marzo 1928. Meritano di essere riletti.
Amministratori
e politici? “Una riunione di amici”
Per
comprendere la sua concezione della politica, dell'esercizio del mandato
parlamentare e la sua coerenza di monarchico e liberale al servizio dello Stato
nelle Aule parlamentari in continuità con gli uffici di pubblico impiegato ai
ministeri di Grazia e Giustizia e delle Finanze, giova passare in rassegna i
pochi discorsi da lui pronunciati al di fuori delle Camere dal 1886 al 1899
(anche per difendere il suo onore dalle accuse mossegli in connessione con lo
“scandalo della Banca Romana” che nel 1893 gli costò le dimissioni da
presidente del governo), specie nel Consiglio provinciale di Cuneo di cui fu
componente dal 1886 al 1925.
Lasciata il 16 marzo 1905 la guida del
governo, per seri motivi di salute, il 14 agosto Giolitti fu eletto presidente
del Consiglio provinciale di Cuneo. In tale veste espose la sua visione di
“buona amministrazione”: «Il nostro consesso – disse – non è che una riunione
di amici che si stimano e si amano, animati dal solo intento di procurare il
bene degli amministrati, non divisi da dissensi di natura politica, poiché
tutti sono devoti alle patrie istituzioni; e, se qualche volta vi è lotta, ciò
dipende unicamente dal fatto che ognuno vede le cose dal proprio punto di
vista.»
Il 2 ottobre 1910 pronunciò poche eloquenti
parole all’inaugurazione della nuova sede della Cassa di Risparmio di Cuneo.
Mentre a Roma, da lui propiziato e assecondato, era sindaco Ernesto Nathan, già
gran maestro del Grande Oriente d'Italia, e alla guida di comuni e province si
moltiplicavano i “blocchi popolari” di liberalprogressisti, radicali e
socialriformisti, nel silenzio “ossequioso e ammirante” dei presenti Giolitti
scandì che la Cassa era il punto di convergenza e di collaborazione “delle idee
clericali e socialiste, moderate e radicali”. «La questione sociale – aggiunse
– noi la risolviamo elevando le classi più umili a livello di quelle più
ricche”.
Pochi giorni prima era stato ricevuto
segretamente da Vittorio Emanuele III nel Castello di Racconigi. Si
avvicinavano le celebrazioni del cinquantesimo del regno. Urgeva un cambio al
vertice del governo. Da Cuneo Giolitti fece sapere di non aver preconcetti nei
confronti di chi aveva veduto in Luigi Luzzatti l’argine laico contro l’avanzata dei cattolici deputati. Al tempo stesso non
coltivava alcun altro pregiudizio: «Ognuno valga per ciò che sa e per il lavoro
che compie.» Le ideologie appartenevano al passato remoto, anche perché
premevano impegni che nessuno dei presenti immaginava, a cominciare
dall’impresa di Libia. Non solo Marx era stato mandato in soffitta (o così gli
pareva o sperava). La “pace sociale” era premessa indispensabile per affrontare
nuove e severe prove, giacché «nessuna guerra moderna può svolgersi senza la
decisa volontà del popolo che la fa», lontano dal “Paese che lavora. Il 30
marzo 1911, dopo il cinquantenario della proclamazione di Roma a capitale
d’Italia (lasciata celebrare a Luzzatti) Vittorio Emanuele III gli affidò per
la quarta volta il governo del Paese.
All’inaugurazione della prima Camera eletta
col suffragio quasi universale maschile (1913), dopo circa tre lustri di governo, Giolitti non fu
affatto scosso da chi, come il socialista Giuseppe Raimondo, ne annunciava il
tramonto o, come Arturo Labriola (futuro ministro del Lavoro nel suo V governo,
1920-1921), sentenziava che vi era «da una
parte un’Italia rivoluzionaria nazionalista e dall’altra un’Italia
socialista, ma non c’e(ra) più un’Italia giolittiana». Lo statista sapeva bene
che vi era la cattolica, maggioritaria nel Paese, e che solo il cosiddetto
“patto Gentiloni”, approdo della sospensione non expedit da parte di
Pio X sin dal 1904 (come chiarito da Gianpaolo Romanato nella biografia di Pio
X), aveva scongiurato divenisse più clericale di quanto, per contrapposti
motivi, molti volevano. Conscio che l’Italia aveva necessità di riforme
profonde nell’amministrazione della giustizia, nel sistema scolastico e nei
rapporti tra capitale e lavoro, lo statista affermò che esse andavano varate
subito ma avrebbero dato frutti solo sul lungo periodo. Per evitare che «il
partito monarchico divent(asse) in molta parte d’Italia una minoranza»
occorrevano però misure immediate e incisive. I fasci siciliani, i moti di
Lunigiana del 1894 e la vasta sommossa/insurrezione del 1898 avevano indicato
la via maestra: il riordino completo della fiscalità per scongiurare il declino
della piccola proprietà, che costituiva «la più valida difesa dell’ordine
sociale». Le classi dirigenti dovevano
persuadersi che «senza qualche sacrificio esse non possono sperare durevole
quella pace sociale senza cui non vi è sicurezza né per le persone né per gli averi».
Lanciò un monito severo: «Io deploro quanto altri mai la lotta di classe; ma,
siamo giusti, chi l’ha iniziata?».
Venti
di guerra, tra irredentismo, espansione coloniale e crisi europea
Nel
primo decennio del Novecento, mentre una moltitudine di movimenti, gruppi
ideologici, circoli letterari, artistici e riviste davano voce alla “rivolta
ideale” e dai salotti molti si appellavano alla “piazza” contro il grigiore del
governo, Giolitti varò leggi speciali per accelerare il risanamento di regioni
e plaghe arretrate. Al conterraneo Luigi Facta spiegò che l'Italia doveva
evitare di avventurarsi in una guerra con l'impero austro-ungarico perché
avrebbe dovuto dirottarvi le sue risorse e sottrarle allo sviluppo del
Mezzogiorno, interrompendo l'unificazione effettiva, così provocando la
rivoluzione e la crisi della monarchia: obiettivo dei repubblicani che, fece
notare, erano i precipui alfieri dell'irredentismo.
Il 28 luglio 1911 il ministro degli Esteri
Antonino Paternò Castello di San Giuliano mandò a Giolitti e al sovrano il
“memoriale” segretissimo sulla “probabilità” che entro pochi mesi l’Italia
potesse essere “costretta a compiere la spedizione militare in Tripolitania”.
Ne nasceva la «probabilità (probabilità non certezza) che il successo di tale
spedizione darebbe al prestigio dell’Impero Ottomano, spinga all’azione contro
di esso i popoli balcanici, entro e fuori l’impero, oggi più che mai irritati
contro il regime centralista giovane-turco, ed affretti una crisi, che potrebbe
determinare e quasi costringere l’Austria ad agire nei Balcani». All’orizzonte
gonfiava la tempesta della guerra europea, temuta, schivata, sempre incombente.
Chi avrebbe dato fuoco alla miccia?
Il programma del settembre 1900 per l’unione
dei partiti liberali giunse a una seconda svolta. Dopo l'incontro segreto del
16 settembre nel Castello di Racconigi, ove il re fissò con lui l'agenda
dell'impresa di Libia, e dopo la dichiarazione di guerra all'impero turco
ottomano, il 7 ottobre 1911 Giolitti ne spiegò i motivi al Teatro Regio di
Torino: «Politica democratica non è sinonimo di politica fiacca, di politica
impotente; la storia di tutti i popoli e gli avvenimenti che succedono sotto i
nostri occhi dimostrano invece che i governi i quali sanno di rappresentare
tutte le classi sociali sono i più gelosi custodi dei grandi interessi del loro
paese; appunto perché non rappresentano interessi di persone o di limitate
classi, ma quelli di tutto il popolo, essi sentono più vivamente il dovere di
non pensare solamente alle questioni di immediato interesse, ma di assicurare
anche il lontano avvenire del paese. La politica estera non può, come la
politica interna, dipendere interamente dalla volontà del governo e del
Parlamento ma, per assoluta necessità, deve tenere conto di avvenimenti e di
situazioni che non è in poter nostro di modificare e talora neanche di
accelerare o ritardare. Vi sono fatti che si impongono come una vera fatalità
storica, alla quale un popolo non può sottrarsi senza compromettere in modo
irreparabile il suo avvenire. In tali momenti è dovere del governo di assumere
tutte le responsabilità, poiché una esitazione o un ritardo può segnare
l’inizio della decadenza politica, producendo conseguenze che il popolo
deplorerà per lunghi anni, e talora per secoli.»
Profondamente radicato nella tradizione del
Vecchio Piemonte, ove il lavoro era terreno di sfida civile dai tempi delle
Associazioni agrarie di metà Ottocento, animato da una visione biblica del
cammino dei popoli, all'inaugurazione dell'ospedale per l'infanzia “Regina
Elena” in Cuneo il 14 agosto 1914 Giolitti meditò ad alta voce. Bisognava
«procurare alla Patria cittadini futuri sani ed equilibrati, perché bastano due
generazioni ben curate e ben educate a far rifiorire i destini di una Nazione».
Lo stesso giorno, «in un momento angoscioso per tutta l’Europa e grave per il
nostro Paese», dal seggio di presidente del Consiglio provinciale di Cuneo egli
dichiarò la solidarietà al governo presieduto da Antonio Salandra: «Senza
distinzione di partiti, appoggeremo lealmente e fortemente in quella via che
creda di seguire per la tutela dei nostri diritti e per assicurare all’Italia
il posto che le spetta nel mondo.» Non era un’apertura di credito illimitata.
Cinque giorni prima aveva infatti confidato al ministro degli Esteri, San
Giuliano, la priorità di «coltivare i nostri buoni rapporti con l’Inghilterra,
e fare quanto ci è possibile per limitare o abbreviare la durata e le
conseguenze del conflitto». Senza entrarvi. Gli eventi ebbero tutt’altro corso:
la firma dell'arrangement di Londra all’insaputa del Parlamento e del
governo stesso (26 aprile 1915), la denuncia dell'alleanza con Berlino e Vienna
(3 maggio), la dichiarazione di guerra contro l’Impero austro-ungarico in nome
del “sacro egoismo” (23 maggio con effetto dall'indomani).
Da quando il 17 maggio 1915 dovette lasciare
precipitosamente Roma perché il governo non ne garantiva l’incolumità da un
attentato mortale ormai in corso di attuazione, lo statista riparò a
Cavour. Al di là di quanto disse nello scambio epistolare e in confidenze
anziché dal seggio di deputato, Giolitti parlò dallo scranno di presidente del
consiglio provinciale. Il 5 luglio 1915 dichiarò: «Quando il Re chiama il paese
alle armi, la provincia di Cuneo, senza distinzioni di parti e senza riserve, è
unanime nella devozione al Re, nell’appoggio incondizionato al Governo,
nell’illimitata fiducia nell’esercito e nell’armata», impegnati in un conflitto
dal quale dipendeva «l’avvenire dell’Italia per un lungo periodo della sua
storia». Ma a differenza di Salandra e del ministro degli Esteri, Sidney
Sonnino, aveva chiaro che la guerra sarebbe durata anni. Nella forzata
solitudine constatava l’imparità dei governi al “più grave disastro
dell'umanità dopo il diluvio universale” anche a giudizio del premier
britannico David Lloyd George. Chi avrebbe riacceso i lumi sull'Europa? La sua
vita di statista era finita?
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