di Aldo A. Mola
La resa del 2-29 settembre 1943 non fu “la disfatta”
“A testa alta” è l'insegna del “CalendEsercito 2023” (ed. Giunti) per l'80° dell'estate 1943, «uno dei momenti più tragici della storia nazionale». Fotografie e documenti scandiscono i mesi dalla firma della resa a Cassibile (3 settembre) alla co-belligeranza dell'Italia a fianco delle Nazioni Unite e alle due battaglie di Monte Lungo che videro in campo il I Raggruppamento Motorizzato del Regio Esercito a fianco degli Alleati. Come scrive il Capo di Stato Maggiore dell'Esercito, generale di CdA Pietro Serino, «in soli 98 giorni l'Esercito italiano seppe reagire, tornare a combattere e a vincere per liberare il proprio Paese, dimostrando una saldezza morale che ci fa dire, con orgoglio, A testa alta!». Pubblicato con la direzione del Colonnello Giuseppe Cacciaguerra, molto più che mero “almanacco” il “CalendEsercito 2023” è una miniera di informazioni e di spunti per ricerche e approfondimenti. Ricorda al lettore i combattimenti di Porta San Paolo a Roma, ove i civili affiancarono le Divisioni “Granatieri di Sardegna” e “Sassari”, mentre a Monterotondo reparti della “Piave” e della “Re” contrastavano l'aviolancio di paracadutisti tedeschi, e la lunga serie di combattimenti su tutto il territorio nazionale, in Sardegna, Corsica, oltre che nelle regioni quasi subito libere (Puglia e Calabria) a prezzo di duri combattimenti e l'impegno ovunque possibile oltre confine. Documenta inoltre il Fronte Militare Clandestino del colonnello Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo, caduto prigioniero, torturato a via Tasso, assassinato alle Fosse Ardeatine con tanti altri militari,via via sino alla Riscossa, che dà titolo alle Memorie del generale Raffaele Cadorna, comandante del Corpo Volontari della Libertà, punto di arrivo del coordinamento tra Regio Esercito e formazioni partigiane unite “dal” e “nel” Tricolore.
A differenza di quanto talvolta è stato
scritto, in quei frangenti non morì affatto la Patria. La direttiva del capo
del governo, Pietro Badoglio, all'annuncio dell'armistizio per i militari era
chiaro: le forze armate italiane cessavano «ogni atto di ostilità contro le
forze anglo-americane. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi
altra provenienza».
Come avvenne la Riscossa e chi la guidò? In Come
muore un regime. Il fascismo verso il
25 luglio (il Mulino, 2021) Paolo Cacace conferma che la revoca di
Benito Mussolini da capo del governo e la sua sostituzione con il maresciallo
Badoglio furono iniziativa personale di Vittorio Emanuele III, assecondato dal
ministro della Real Casa Pietro d'Acquarone e dalla ristretta cerchia di
militari di sua assoluta fiducia, a cominciare da Giuseppe Castellano. Il 25
luglio il Gran Consiglio del fascismo a maggioranza “esortò” il re a esercitare
i poteri statutari, senza però mettere in discussione il regime. Perciò
Mussolini chiese udienza al re e nel pomeriggio si recò a Villa Savoia convinto
che quasi nulla sarebbe cambiato. Fu la Corona a decidere tempi e modi della
“svolta”, anche sbrigativi, come il “fermo” del duce, che si dichiarò pronto a
collaborare con Badoglio. Come osservò Luigi Einaudi, citato dal presidente
Sergio Mattarella a Dogliani il 12 maggio 2018, chi detiene la somma dei poteri
può lasciarli apparentemente dormienti per vent'anni, salvo valersene quando
percepisce che è giunto il momento di usarli. Così fece il re.
Di seguito fu lui ad autorizzare la ricerca del
contatto con il Comando nemico per ottenere che all'Italia, ormai in un tunnel
dopo lo sbarco degli Alleati in Sicilia, fosse concessa la “resa senza
condizione”, deliberata dagli anglo-americani a carico dei vinti nella
Conferenza di Casablanca su richiesta ultimativa di Stalin. L'obiettivo fu
raggiunto in meno di un mese con la firma a Cassibile della resa (surrender),
documentata da Elena Aga Rossi in L'inganno reciproco (ACS, 1982). Lo
strumento sottoscritto dal generale Giuseppe Castellano, datato “Sicilia, 3
settembre 1943” è esplicito: la resa fu concessa (o imposta) al “governo del
Re”, ovvero a Vittorio Emanuele stesso. Il “Comandante in capo” dei vincitori
si riservò di stabilire «un Governo militare alleato in quelle parti del
territorio italiano ove egli lo riterrà necessario nell'interesse militare delle
Nazioni alleate» e di dettare «altre condizioni di carattere politico,
economico e finanziario che l'Italia dovrà impegnarsi ad eseguire»,
analiticamente contenute nell'“armistizio lungo” consegnato dal generale Dwight
Eisenhower a Badoglio a Malta il 29 settembre 1943. Però con la resa la
monarchia ottenne tre vantaggi preziosi per l'Italia: lo Stato non fu debellato
ma riconosciuto; a differenza della sorta poi toccata alla Germania, non ne
venne previsto lo smembramento; la sua forma istituzionale non fu messa in
discussione. Per gli inglesi, al riguardo più lungimiranti degli americani, la
monarchia costituiva una garanzia.
Il verbale del colloquio svoltosi il 29
settembre a margine della firma precisò la cornice degli eventi successivi. Il
vincitore incitò il vinto a dichiarare guerra alla Germania, a «immettere nuovi
elementi nel suo governo», previo il placet del generale Mason Mac
Farlane e, “parlando da soldato”, a destinare alla lotta contro la Germania le
“divisioni migliori”. Badoglio precisò che «per la legge italiana solo il re
può dichiarare guerra» e scegliere i nuovi membri del governo. Assicurò la
massima collaborazione anche in vista dell'ingresso in Roma (dato per imminente
da Eisenhower, ma avenuto otto mesi dopo), accolse con freddezza l'annuncio del
ritorno in Italia del “conte” Carlo Sforza, gran collare della SS. Annunziata e
senatore ma accesamente repubblicano, auspicò di essere considerato “un
collaboratore completo” e, su direttiva del Re, che lo aveva avuto aiutante di
campo, chiese di «prendere contatto col maresciallo Messe, ora prigioniero di
guerra in Inghilterra». Ne ha scritto brillantemente il generale Antonio
Zerrillo nel volume Il lungo regno di Vittorio Emanuele III (BastogiLibri,
2021).
I punti di debolezza: il CLN contro la
monarchia
Lo scenario istituzionale e politico italiano
era però profondamente diverso da quello ventilato dal Comandante alleato. Il
Comitato dei partiti antifascisti operante clandestinamente in Roma da metà
agosto 1943, contrario a condividere il “passivo” della guerra e deciso a
scaricarne la peso esclusivamente sulla Corona, assunto il nome di Comitato
(Centrale) di liberazione nazionale tra fine settembre e inizio ottobre,
rifiutò ogni collaborazione con il governo Badoglio, riservando gelida accoglienza
alla proposta di collaborazione avanzata dal colonnello Giuseppe Lanza Cordero
di Montezemolo. Lo ricorda Ivanoe Bonomi in Diario di un anno, 2 giugno
1943-10 giugno 1944. Il CLN propugnò l'immediata abdicazione
del re, la rinuncia del principe Umberto alla successione e il conferimento
della Corona al principe di Napoli, Vittorio Emanuele, di appena sette anni,
sotto tutela di un reggente di nomina politica, contro la lettera dello
Statuto. Anche molti liberali si accodarono e per bocca di Carandini fecero
sapere di essere per «assemblea costituente più abdicazione».
Per decretazione d'urgenza varata da Badoglio a
inizio agosto furono sciolti il Partito nazionale fascista, la Milizia
volontaria per la sicurezza nazionale, il Gran consiglio del fascismo e tutte
le organizzazioni del passato regime, ma anche la Camera dei fasci e delle
corporazioni in vista dell’elezione di una nuova Camera dei deputati entro
quattro mesi dalla fine della guerra. Pertanto, data la natura bicamerale del
Parlamento, il Senato fu paralizzato e il re risultò istituzionalmente
sovraesposto. La “monarchia rappresentativa”, fondata sull'equilibrio tra i
poteri, risultò sospesa.
Sotto il profilo politico la parola passò dalle
istituzioni vigenti a forze autoconvocate, come il congresso dei CLN,
radunatosi a Bari il 28-29 gennaio 1944. Nel suo corso venne ribadita la
richiesta di immediata abdicazione di Vittorio Emanuele III, da alcuni liberali
liquidato addirittura come “cencio sporco”. Per gli anglo-americani, pur diversi
nella loro grammatica politico-istituzionale, lo Stato d'Italia era quello
impersonato dal re e dal governo di sua nomina. Se mai avessero avuto motivo di
dubitarne (ma non ne esistono documenti probanti) a rafforzarli nella loro
posizione fu la costituzione della Repubblica sociale italiana incardinata su
Mussolini e succuba della Germania. Malgrado tutto, all'indomani della resa e
del trasferimento del re, del principe ereditario e del governo da Roma a
Brindisi, nei modi che tante polemiche hanno suscitato e ancora sollevano, i
vertici delle Forze Armate furono a fianco del sovrano. Il 26 settembre 1943
Vittorio Emanuele III ordinò l'organizzazione del Raggruppamento “Piemonte”: un
primo nucleo di circa 5.000 uomini. Cinque giorni dopo la dichiarazione di
guerra alla Germania (13 ottobre), lo passò in rassegna nei pressi di Manduria.
La riorganizzazione dell'Esercito molto deve alla tenacia di Giovanni Messe,
ultimo Maresciallo d'Italia, biografato da Luigi Emilio Longo nel volume
pubblicato dall'Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell'Esercito (2006) e,
successivamente, dal già citato generale Zerrillo.
Il 15 novembre il Raggruppamento fu autorizzato
a muovere verso la linea del fronte di combattimento. Sulle fiancate degli
automezzi il colonnello Valfrè di Bonzo fece istoriare lo scudo sabaudo. A
inizio dicembre venne aggregato alla 36^ divisione statunitense del II corpo
d'armata e (come scrisse Gabrio Lombardi) fu incaricato di espugnare il «dosso
allungato, scoperto e roccioso, spezzato in una lunga serie di ondulazioni di
altezza crescente»: Montelungo. Lì, l'8 e il 16 dicembre 1944, ebbero luogo le
sue prime prove con attacchi ripetuti a reparti della divisione “Goering”. Subì
pesanti perdite. Il primo giorno perse 4 dei 5 ufficiali in linea. Mostrò che
«l'antiquo valore/ne l'italici cor non [era] ancor morto». Lo stesso principe
Umberto di Piemonte si levò in volo di ricognizione per fornire precise
informazioni sul nemico, meritandosi la Silver Star, la prima delle due
onorificenze conferitegli dagli anglo-americani, i quali gli attribuirono poi
anche la Legion of Merit.
La riorganizzazione delle Forze Armate, a
cominciare dal Regio Esercito, avvenne in quei mesi difficili per tutti. Il
motto del Re e del Principe ereditario, dal 5 giugno 1944 Luogotenente del
Regno, fu “Viva l'Italia”. Continuò a garrire il tricolore che dal 1848 ne
aveva guidato la lunga marcia verso l'indipendenza e l'unità nazionale, come ha
scritto lo storico militare gen. Oreste Bovio nell’insuperata Storia
dell'Esercito italiano e in In alto la Bandiera.
Per saperne di più: mostre, convegni,
studi...
Dal rovesciamento del regime fascista
all’instaurazione dalla Repubblica (19 giugno 1946) si susseguirono sei diversi
governi. Nell'ordine, il maresciallo Pietro Badoglio ne presiedette tre diversi
dal 25 luglio 1943 al 18 giugno 1944; Ivanoe Bonomi (ex socialista riformista,
democratico, esponente della Democrazia del lavoro) ne guidò due sino al 21
giugno 1945. A lui seguì il breve governo presieduto da Ferruccio Parri,
comandante delle formazioni partigiane “Giustizia e libertà”, esponente del
Partito d'azione, dal quale si separò nel congresso del febbraio 1946 per dar
vita alla Concentrazione democratica repubblicana con Ugo La Malfa. Il 10
dicembre gli subentrò il democristiano Alcide De Gasperi, a capo di un governo
formato da ministri dei sei partiti del Comitato di Liberazione Nazionale
(comunisti, socialisti, azionisti, democratici del lavoro, democristiani,
liberali), con esclusione del Partito repubblicano italiano capitanato da
Randolfo Pacciardi.
Al ministero della Guerra si susseguirono
nell'ordine i generali Antonio Sorice e Taddeo Orlando con Badoglio; il
liberale Alessandro Casati con Bonomi, il democristiano Stefano Jacini con
Parri e il repubblicano e massone Cipriano Facchinetti con De Gasperi. Nello
stesso arco di tempo si susseguirono due soli Capi di Stato Maggiore Generale:
il maresciallo d'Italia Giovanni Messe dal 18 novembre 1943 al 1° maggio 1945,
quando gli subentrò il generale designato d'armata Claudio Trezzani. Capi di
stato maggiore dell'Esercito furono i generali Mario Roatta sino al 18 novembre
1943; Paolo Berardi fino al 10 febbraio 1945, quando assunse il comando delle
Forze Armate in Sicilia per contrastare l'Esercito volontario per l'indipendenza
dell'isola; Ercole Ronco e infine il generale di divisione Raffaele Cadorna,
già comandante del Corpo Volontari della Libertà, figlio di Luigi Cadorna,
comandante supremo durante la Grande Guerra (su cui fa luce il volume Luigi e
Carlo Cadorna, Caporetto? Risponde Cadorna, BastogiLibri, 2021).
Capo di Stato Maggiore della Marina (carica
abbinata a quella di sottosegretario della Marina) fu l'ammiraglio Raffaele De
Courten; a Capo di Stato Maggiore dell'Areonautica si susseguirono i generali
Pietro Piacentini e Mario Aymone Cat. Quattro furono i comandati generali dei
Carabinieri: i generali Angelo Cerica fino al 9 settembre 1943, Giuseppe Pièche
dal 15 novembre 1943 al 20 luglio 1944, Taddeo Orlando e dal 7 marzo 1945
Brunetto Brunetti. La loro opera si coniugò a quella dei comandanti del Corpo
Italiano di Liberazione e, di seguito, dei Gruppi di Combattimento “Cremona”
(gen. Clemente Primieri), “Friuli” (gen. Arturo Scattini), “Folgore” (Giorgio
Morigi), “Legnano”, “Mantova”, “Piceno (gen. Emanuele Beraudo di Pralormo),
impegnati nell'avanzata verso il Nord.
“Nel
decennale della Resistenza e del ritorno alla democrazia” il loro fondamentale
contributo alla ricostruzione dell'Italia è stato documentato dal gen. Primieri
in Il Secondo Risorgimento (Roma, Poligrafico dello Stato, 1955, con
contributi di Aldo Garosci, Raffaele Cadorna, Costantino Mortati e altri) e,
sulla scorta di ampia documentazione, dal generale Pierluigi Bertinaria nel
convegno internazionale di studi (Milano 17-19-maggio 1984) La cobelligeranza
italiana nella lotta di Liberazione dell'Europa, i cui atti sono stati
pubblicati dal Ministero della Difesa-Comitato storico “Forze Armate e Guerra
di Liberazione” (Roma, 1986).
La complessa evoluzione dal Raggruppamento
“Savoia” al CIL e ai Gruppi di Combattimento è stata documentata dalla Mostra
al Mastio della Cittadella di Torino (C.so Galileo Ferraris), allestita dal 22
al 30 aprile per iniziativa di illustri personalità (i generali Pastorello,
Cinaglia, Uzzo, Puliatti e altri) di concerto con il Museo Storico Nazionale di
Artiglieria e l'Associazione Nazionale Artiglieri d'Italia. La Mostra è stata
accompagnata da un minuzioso catalogo che, come ribadito dal “CalendEsercito
2023”, illustra la continuità dell'Esercito italiano dalla sua costituzione
(1861) a oggi, evidenziando anche il ruolo svolto per 19 mesi dalle forze
armate italiane, giunte a contare 450.000 uomini tra reparti combattenti e
ausiliari; senza dimenticare gli 80.000 militari che operarono nelle formazioni
partigiane sorte nell'Italia centro-settentrionale: non solo in quelle
dichiaratamente monarchiche ma anche nelle file di Garibaldini, Giustizia e
libertà, Matteotti e nelle brigate “bianche”, cioè di ispirazione democristiana
o genericamente “cattolica”. Il panorama del contributo dato dai militari alla
“Riscossa” (come Raffaele Cadorna intitolò le sue Memorie) non sarebbe
completo se non venisse tenuto conto anche degli Internati Militari Italiani
(la loro storia è stata recentemente documentata da Avagliano e Palmieri (ed.
Mondadori) e dei prigionieri italiani negli USA e Gran Bretagna.
A ottant'anni dai “fatti”, la svolta voluta e
attuata da Vittorio Emanuele III nell'estate 1943 viene ricomposta alla luce
meridiana della verità storica. Meriterà di essere ulteriormente approfondita e
soprattutto proposta all'attenzione di docenti e studenti anche attraverso
programmi radiotelevisivi, che mettano a frutto le decine di volumi di Atti dei
convegni promossi dagli Uffici storici militari e dall'Archivio Centrale dello
Stato e i Verbali dei governi da Badoglio a De Gasperi curati da Aldo G. Ricci.
Aldo A. Mola
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