Insegnò Giuseppe Garibaldi
di Aldo A. Mola
La scimitarra sull'Europa...
Ma Mario Draghi ha proprio sbagliato a
classificare il “Sultano” Erdogan tra i dittatori con i quali bisogna pur “fare
i conti”? Forse è stato più “cavouriano” che “garibaldino”.
Nei suoi ultimi anni Garibaldi affinò il proprio
pensiero politico. Nel 1860 aveva vaticinato gli Stati Uniti d’Europa. Dal
1870, dopo la tragica guerra franco-germanica e la “Commune”, invocò la
“debellatio” dell’impero turco che impediva la liberazione dei popoli oppressi
dell’Europa orientale. Unì motivi religiosi e culturali a ragionamenti politici
tuttora attuali. Se Costantinopoli è ancora Istanbul lo si deve alla
“diplomazia” di Londra e Parigi: è la pesante eredità della prima guerra
mondiale, quando i vincitori, pur in presenza dello sfascio dell'impero
ottomano, lasciarono ad Ankara la cosiddetta “Turchia europea” per interdire
alla Russia l'accesso dal Mar Nero al Mediterraneo attraverso gli Stretti. La
miopia si paga nei secoli... Se l'Europa odierna volesse per Costantinopoli una
sorte migliore di quella che le si prospetta, dovrebbe rassegnarsi ad
accogliere la Turchia che da decenni aspira a restaurare il Califfato. Ma a
quale prezzo per la propria identità?
Garibaldi aveva idee chiare sulla
Sublime Porta...
C’è un Garibaldi quasi sconosciuto: non il
guerrigliero, il generale, l'Eroe, ma il pensatore politico: alfiere della
fratellanza universale ma al tempo stesso strenuo fautore della lotta per
sottrarre l’Europa alla dominazione dei turchi e all'invadenza dell’Islam.
Garibaldi ne scrisse ripetutamente nel suo ultimo decennio di vita, quello
politicamente più fecondo ma, al tempo stesso, il meno studiato e pressoché sconosciuto.
Così la sua lotta contro il dominio ottomano su qualunque lembo di Europa e
contro la diffusione dell’islamismo (una religione che sconta sei secoli di
arretratezza rispetto al cristianesimo e non ha mai fatto i conti con la
Rivoluzione francese) rischia di rimanere ignorata. Certo è un Garibaldi
scomodo. Ma vi sono buone ragioni per parlarne. Il Generale ebbe e mostrò senno
politico superiore a quello che di rado e avaramente gli viene riconosciuto. Il
suo anticlericalismo radicale non si circoscrisse alla sola chiesa cattolica ma
investì ogni forma di intrusione delle religioni e dei poteri arcani nella vita
civile e nella libertà delle persone. La sua lotta per la liberazione dello
spazio euro-mediterraneo dai “turchi” andò però molto oltre l’ambito religioso.
Fu lotta politica, legata alla valutazione positiva dell’espansione degli
europei Oltremare e della colonizzazione dell’Africa settentrionale (programma
condiviso da Mazzini) da parte della civiltà occidentale, razionale, fondata
sulle scienze, la produzione, il mercato, il progresso civile: un viluppo di
questioni che nella sua mente non costituivano affatto un groviglio
indistricabile, bensì erano lucidamente presenti nella loro intima connessione.
Garibaldi non ingabbiava il Libero Pensiero in pochi meridiani e paralleli: per
lui era patrimonio universale. E considerava sua missione propugnarlo ovunque.
A quel modo fu effettivamente “eroe dei due mondi”, etichetta altrimenti
futile.
Nelle Memorie
Garibaldi ricordò la sua lunga dimora a Costantinopoli, una pagina per molti
aspetti mai documentata, neppure da Romano Ugolini che ne scandagliò la
formazione politica. Ammalatosi in uno dei tanti viaggi in oriente (di quale
morbo? non se ne sa nulla), vi rimase più del previsto e si trovò alle strette:
“La guerra accesa tra la Russia e la Porta (cioè l’impero turco, detto Sublime
Porta dalla residenza del Sultano, NdA) contribuì a prolungare il mio
soggiorno. In tale periodo mi successe per la prima volta di impiegarmi a
precettore di ragazzi, offertomi dal signor Diego, dottore in medicina, e che
mi presentò alla vedova Timoni, che ne abbisognava. Entrai in quella casa
maestro di tre ragazzi, e profittai di tale periodo per studiare un po’ di
greco, dimenticato poi, siccome il latino che avevo imparato nei prim’anni”. I
maligni imbastirono molte insinuazioni su quella lunga stagione. Garibaldi ci
tornò con una pennellata quando, molti decenni dopo, in una pagina di appunti
fustigò “Il prete”: “Si chiami egli prete, Ministro, dervista, Calogero, Bonzo,
Papas, qualunque nome egli abbia, a qualunque religione egli appartenga, il
prete è un impostore, il prete è la più nociva di tutte le creature, perché
egli più di nessun altro è un ostacolo al progresso umano, alla fratellanza
degli uomini e dei popoli. (…) Io ho percorso la superficie del globo. In
Turchia fui obbligato di fuggire davanti ad una folla di ragazzi e di donne,
perché i preti dicevan loro ch’io era un maledetto! In Cina mi successe lo
stesso, e voi giunti a Canton, la più frequentata e commerciale delle città
Chinesi non potete visitarla perché sareste lapidato dalla moltitudine
suscitata dai preti”.
L’avversione di Garibaldi nei confronti
dell’islamismo non è una cappella laterale della sua vastissima basilica
anticlericale. Non è dottrinale, teologica. È propriamente politica.
Dall’infanzia aveva appreso, e non solo per racconti popolani ma per esperienze
vissute, il pericolo dei “pirati”. Nizza, la sua città, ricordava devastanti
incursioni delle flotte turche nel Cinquecento, propiziate dall’alleanza tra
Parigi e Istanbul (dal 1453 soggiogata da Maometto II) contro il Sacro romano
impero di Carlo V e la Spagna di Filippo II: un gioco diplomatico continuato con
Luigi XIV sino a Napoleone III (alleato con Londra e l’impero turco contro la
Russia di Nicola I: la “guerra di Crimea” decantata dalla storiografia
italocentrica per l’intervento del regno di Sardegna a fianco del Sultano).
Sulla fine degli Anni Venti dell’Ottocento la pirateria barbaresca rimaneva
così minacciosa e dannosa da indurre la Francia di Carlo X, il Piemonte di
Carlo Felice e le Due Sicilie di Francesco I di Borbone a una spedizione navale
comune. Vi si distinse Carlo Mameli dei Mannelli, padre di Goffredo.
Nel 1827, ricorda Maurice Mauviel, il
“Cortese”, brigantino sul quale viaggiava il ventenne Garibaldi, fu assalito da
corsari greci. Il comandante, Semeria, ordinò agli uomini di non opporre
resistenza per non avere la peggio. In seguito il giovane nizzardo subì due
altri assalti pirateschi, mortificanti e umilianti. Gli rimasero fissi nella
memoria. Ne scrisse in Manlio, romanzo contemporaneo, al quale lavorò sino all’ultimo giorno. Vi descrisse
i Riffegni (abitanti del Riff,
sull’Atlante marocchino, da lui ben conosciuto nel 1849) e l’Assalto di pirati alla nave
“Libertà” che, al comando del capitano Schiaffino, eroe della repubblica
Romana, recava “Manlio”, di soli cinque anni, verso lo stretto di Gibilterra
alla volta dell’America meridionale. In quelle pagine Garibaldi non parla di
“arabi”, né di “turchi”. Vi scrisse: “Come il leone, il Riffegno è bello e
forte. Non so se, figlio dell’Atlas, egli si debba chiamare di stirpe caucasea.
Ignorante, fiero, feroce, e considerando tutto ciò che non è mussulmano,
eretico e niente più d’un cane, il Riffegno è naturalmente pirata; e molti
furono gli equipagi (sic) di legni mercantili sgozzati quando trattenuti
dalle calme presso coteste coste inospitali”.
Manlio non è un romanzetto
qualunque. È il “testamento politico” di Garibaldi. Un suo capitolo è un
susseguirsi di colpi e di grida, culminanti in una sorta di seconda Lepanto
liberopensatrice: “«Marsala! Marsala»
rispondeva un garibaldino all’«Allah Urrah» degli Ottomani e si lanciava seguito dai suoi alla
riscossa dei difensori della prora”.
La battaglia navale vi viene infine risolta da
“Vero”, che, precedentemente ferito e curato dal piccolo Manlio, lascia
febbricitante la cabina ove è ricoverato al grido “All’armi…Qui non si tratta
di bende ma della pele (sic!) Avanti fratelli!” e a colpi di revolver e
di “un coltellaccio che teneva in cintura fece strage orrenda tra i
barbareschi, e così i compagni, spinti dall’esempio del valoroso capo e per la
propria conservazione”.
Fuori
i fondamentalisti dall'Europa...
Sarebbe però meschino ridurre il pensiero di
Garibaldi sull’insanabile incompatibilità fra impero turco e civiltà europea a
mero riflesso di vicissitudini personali o all’insofferenza nei confronti del
clero di qualsivoglia religione. Esso esprime una visione geopolitica di ampio
orizzonte, uno scenario plurisecolare, nell’ambito della “prima guerra
mondiale” tra cristianità e islam.
Prosatore esondante, Garibaldi sapeva
controllare la penna quando necessario. Perciò i suoi scritti vanno
centellinati e capiti, più e meglio di quanto sinora sia stato fatto. Il 5
maggio 1873 scrisse al fido Timoteo Riboli, medico, massone, fondatore della
lega per la protezione degli animali: “Mentre l’Europa progredisce…che fa
l’Italia? Non accenneremo ai miserabili suoi governanti già condannati dal
disgusto universale, ma bensì alla parte virile e generosa che forma la sua democrazia,
prodotto delle cento chiesuole in cui la dividono i suoi Archimandriti,
Massoni, Mazziniani, Internazionalisti, sono egualmente fautori dell’indolenza
democratica in Italia, e quindi del trionfo effimero ma reale dell’oppressione
e della menzogna…”. Pigiava su tasti suonati da tempo: riforme per guarire la
“gran piaga della miseria”, rifiuto del programma dell’Internazionale (confisca
della proprietà privata e dei diritti ereditari…), condanna della scioperomania
che avrebbe precipitato l’Italia nel disastro.
Non parlava per sé. “Agricoltore” (come si
classificò alla Camera), Garibaldi era una “filosofia politica in azione”,
campione di una guerra di liberazione culturale e politica, come osserva Aldo
G. Ricci in “Obbedisco. Un eroe per scelta e per destino” (Ed. Palombo). Per
lui l’Occidente era contrapposto alla Turchia in un conflitto di civiltà. Lo
scrisse il 4 marzo 1876 a Dobelli, rispondendo all’appello della gioventù
slava: “La diplomazia del ventre fu incapace di prevenire l’iniziativa del macello
umano. I preti nel connubio dei turchi e satolli del loro oro, hanno lanciato
l’anatema contro i seguaci della croce. Ed i settari del palo, dopo d’aver
lottato per tenerlo in piedi, devono oggi conformarsi allo slancio degli
schiavi che preferirono la morte al servaggio. (…) E voi, concittadini di
Botzaris, ricordatevi di tutti gli oltraggi ricevuti dai feroci ed osceni
discendenti di Maometto (…). Il turco deve passare il Bosforo (…) e solo alcuni
ottomani, senza preti, potranno convivere, se onesti, coi loro antichi schiavi.
E voi, discendenti dei famosi legionari di Traiano, abitatori del Pindo e delle
ubertose pianure del Danubio, non abbandonate i fratelli in servaggio, e non
ascoltate l’oscura voce dell’egoismo diplomatico, che vi consiglia di stare
indifferenti alla più santa delle lotte. Invalido, io invio un saluto del cuore
ai fieri campioni della libertà orientale”.
Contro la “pax” immobilistica dettata dal
Congresso di Vienna, ribadita da quello di Parigi del 1856, e dal concerto
europeo che di conflitto in conflitto riportava il Vecchio Continente ai
confini e alle logiche della Restaurazione, Garibaldi pose il problema delle
“nazioni senza stato”, dei popoli inchiodati alle tavole di spartizione delle
grandi potenze. In lui vibrava il Risorgimento, lo spirito che aveva fatto
nascere l’Italia a stato indipendente, unica nazione emersa per somma di
fortune dalle catene post-napoleonica del 1814-15 e dalla repressione della
primavera dei popoli (1848-1849).
Agli occhi di Garibaldi la presenza della
Turchia in Europa era una cappa di piombo sulla storia. Bisognava liberarsene.
Non per motivi etnici , ma perché era il bastione del fondamentalismo
oscurantista.
L’occasione sembrò profilarsi dal 1875 con le
rivolte antiturche, dalla Bosnia alla Bulgaria, represse dalla Sublime Porta
grazie al sostegno della Gran Bretagna, sospinta da calcoli geopolitici e
interessi finanziari.
Il 17 luglio 1877 Garibaldi scrisse al marchese
Filippo Villani. “Mandare i Turchi in Asia, ecco il provvedimento efficace per
gli schiavi dell’Europa Orientale; ogni altra misura sarà una tappa di guerra”.
Ma bisognava vincere gli intralci della diplomazia, come ruvidamente vergò nel Romanzo contemporaneo: “In questi ultimi tempi, massime per la questione
orientale, si è manifestato nel mondo quanto di lurido esiste ancora nell’umana
famiglia. L’Austria ha fatto il suo dovere di aquila o piuttosto d’avvoltoio,
sostenendo sordamente la causa dell’oppressore e accatastando ogni specie
d’ostacoli all’Europa Orientale. Essenzialmente tiranna essa ha fatto quanto
doveva. Ma l’Inghilterra, la terra universale d’asilo, l’emancipatrice degli
schiavi, non doveva, guidata da un Ebreo (lord Disraeli, NdA) lasciarsi
condurre all’esterminio dei poveri servi ed al sostegno di tiranni esecrabili.
No! Ed io racapricio pensandovi! (…) E i preti? Peste dell’umana famiglia,
hanno fatto causa comune coi massacratori degli innocenti”.
Nel Manlio
Garibaldi passò dalle staffilate contro il clero a quelle specifiche contro “il
Turco, che più cristiani uccide e più titoli acquista ai godimenti ed alla
gloria dell’immorale suo paradiso e, codardo come sono generalmente gli uomini
sanguinari, si diverte a impalare, mutilare, squartare uomini inermi, donne,
bambini!!!”
Sospinto dall’orrore, il Solitario (come
Garibaldi si autodefinì in Clelia)
sognò allora una guerra di liberazione del Mediterraneo dal dominio turco, a
cominciare dall’isola di Creta: “Giunta la flotta italiana sulla rada di Canea,
v’incontrò la turca, composta di cinque corazzate e se ne impadronì. Mi si
chiederà con quale diritto. Ed io risponderò: collo stesso diritto con cui
Maometto Secondo si impadroniva di Costantinopoli ed i pirati turchi delle
nostre donne, bambini, uomini, etc., per farne degli schiavi…”.
Non erano sfoghi letterari ma ragionamento
politici. Al marchese Villani il 15 marzo 1878 da Caprera scrisse: “Dunque dopo
tanto sangue versato risulterà nell’Europa Orientale uno di quei mostruosi
pasticci di cui la diplomazia va famosa. Cosa è questa lunga Turchia che dal
Bosforo si estenderà all’Adriatico, passando sul corpo della Bulgaria quasi
indipendente, o tra questa e la Serbia da una parte, la Macedonia e la Tessalia
dall’altra, le di cui popolazioni se hanno un’ombra di dignità dovranno
mantenersi in uno stato perenne d’insurrezione? Quando io dissi al principio di
questa guerra: i Turchi dover passare il Bosforo per poter ottenere una pace
durevole, e tale è pure la mia opinione d’oggi, ma i turchi che intendano ciò
solo: il sultano, le sue odalische, i suoi eunuchi e l’immensa caterva di preti
ottomani, non già la popolazione turca onesta e laboriosa che di quanti popoli
abitatori del Levante è la migliore. Tale emigrazione sarebbe impossibile,
converrebbe però non lasciar in Europa un solo prete turco, che basterebbe a
seminar la zizzania in tutta la confederazione; e le moschee cambiar in
scuole, ove s’insegnerebbe la religione del vero.”
Garibaldi sperava in un congresso che
esercitasse l’arbitrato internazionale, la ricerca di una soluzione pattizia
dei conflitti nel rispetto della libertà dei popoli, che avrebbe comportato con
sé la libera navigazione nel Mar Nero (rumeno perché daco-romano) e negli
Stretti.
La pace di Santo Stefano e il congresso di
Berlino del 1878 dettero tutt’altri risultati: la Gran Bretagna s’impadronì di
Cipro e ne fece l’isola della divisione, del conflitto permanente, quale ancora
rimane, mezza staterello indipendente (finanziariamente allo stremo), mezza
sotto sovranità turca: un equivoco irrisolto nel Mediterraneo orientale. E il
gran Malato d’Oriente divenne sempre più la polveriera della futura
conflagrazione europea, esplosa nell’estate 1914 dopo la guerra italo-turca per
la sovranità sulla Libia e tre guerre balcaniche in due anni: groviglio
inestricabile, letto di procuste sul quale la diplomazia inetta inchiodò l’area
balcanica sino all’esasperazione delle genti.
Il Solitario aveva intravveduto e suggerito la
soluzione, ma non ne vide l’approdo ultimo. Nel 1897 Creta insorse ma l’Europa
fu solidale con la Sublime Porta nella repressione, come deplorò Giosue
Carducci in versi staffilanti. La grande guerra si concluse con la pace di
Sèvres (1920) che lasciò gli Stretti ad Ataturk (massone, si, ma, come tanti
altri “fratelli”, solo sino a quando gli fece comodo) in cambio dell’adozione
dell’alfabeto latino e di una parvenza di laicizzazione. La seconda guerra
mondiale lasciò le cose com’erano, per una somma di errori e nefandezze delle
diplomazie, oggi incombenti sull'Unione Europea, a sua volta incapace di
politica estera unitaria, lungimirante, di vasto respiro.
Aveva ragione Garibaldi. Il cui pensiero perciò
venne lasciato chiuso in carte dimenticate: troppo scomodo… ma attualissimo. Da
scoprire.
Aldo A. Mola
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