NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

mercoledì 14 aprile 2021

Discorso commemorativo dell'on. prof. Alfredo Covelli nel centenario della nascita di Re Vittorio Emanuele III - terza parte

 


Eppure, né Vittorio Emanuele III, né Giovanni Giolitti erano colonialisti. Il Re specialmente, aveva sempre manifestato, anche al tempo della prima guerra etiopica, la sua personale avversione per la politica coloniale. Ma la costa Mediterranea Ma la costa Mediterranea dell'Africa, e in particolare i vilaiet turchi della Tripolitania e della Cirenaica, minacciati di occupazione da parte di altre potenze, e forse addi­rittura della Germania, era un gravissimo problema che interes­sava con estrema urgenza la sicurezza stessa del nostro Paese.

Nel periodo successivo al primo quindicennio del secolo, cioè tra il 1915 e il 1918, si verificarono due altri «interventi», se così posso esprimermi, di Vittorio Emanuele nella vita e nella politica d'Italia: due interventi che ebbero obiettivamente enormi e decisivi riflessi in campo internazionale.

Il primo, appunto, è il «maggio radioso», l'intervento del­l'Italia nella prima guerra mondiale, quella che dev'esser detta la quarta guerra dell'indipendenza perché conseguì la liberazione del Trentino e della Venezia Giulia. Ma in che cosa consistette l'intervento decisivo del Re costituzionale? Ora che i documenti di quel periodo sono noti e acquisiti, la verità sull'intervento del­l'Italia nella prima guerra mondiale, può esser detta con poche, precise, obiettive parole; con parole scevre di qualsiasi polemica passata o presente.

Dopo avere, con la dichiarazione di neutralità nel 1914, let­teralmente salvata la Francia da una immediata disfatta, l'Italia, nella primavera del 1915 era profondamente divisa. La parte più giovane, e, insieme, la parte più tradizionale e risorgimentale del nostro popolo, esigevano l'intervento immediato a fianco dei popoli dell'Intesa; mentre la maggioranza dei deputati, anzi la grande maggioranza della Camera che seguiva il pensiero politico di Giovanni Giolitti, era risolutamente avversa all'intervento, e favorevole al mantenimento della neutralità ed alla stipulazione di un misero e precario accordo territoriale con l'Austria-Ungheria.

Questa maggioranza giolittiana e neutralista, si affermò pub­blicamente ma in sede extra-parlamentare, deponendo i biglietti da visita dei suoi componenti nella portineria di casa Giolitti, il giorno che l'«uomo di Dronero» ritornò a Roma. Subito, il Presidente del Consiglio Salandra, che era interventista, si dimise, per «sensibilità». Aperta la crisi, nelle consultazioni di rito, il Presidente del Consiglio dimissionario, il Presidente del Senato e il Presidente della Camera, indicarono al Re il capo della oppo­sizione, cioè Giovanni Giolitti padrone di una sicura e salda mag­gioranza. Vittorio Emanuele convocò Giolitti: ma l'uomo di Stato, che era detto scherzosamente «Palamidone», osservò che in quel momento di animi troppo accesi, la sua persona fortemente impopolare era la meno indicata sia per risolvere la crisi, sia per condurre in porto, con ragionevole vantaggio, le trattative con l'Austria: la vocazione neutralista di Giolitti era fin troppo nota alla nostra nemica ereditaria. Piuttosto, l'uomo di Dronero consi­gliava al Re di chiamare il Presidente della Camera on. Marcora, che era un vecchio patriota del Risorgimento di sinistra, e giolittiano fidatissimo.

Vittorio Emanuele III si guardò bene, (ed era nel suo pieno diritto di sovrano costituzionale), dal seguire il consiglio e l'opi­nione di Giovanni Giolitti. Egli fece un ragionamento, anch'esso strettamente costituzionale. Il ministro Salandra, egli si disse, non si è dimesso in conseguenza di un responsabile voto di sfiducia della Camera; ma per un voto irresponsabile e sentimentale espresso con trecentocinquanta biglietti da visita. Dunque, l'unica cosa seria e responsabilmente corretta da fare in quel momento, era di rimandare il ministro Salandra alla Camera perché sollecitasse il voto. Le crisi extra parlamentari non devono essere am­messe in un regime parlamentare e democratico.

Infatti, il ministero Salandra si ripresentò alla Camera e, in luogo di essere battuto da almeno trecentocinquanta voti, venne confermato da più di trecentocinquanta voti di fiducia. In altri termini, i trecentocinquanta giolittiani neutralisti, che avevano votato in privato per Giolitti, in pubblico e nella Camera votarono per Salandra e per la guerra.

Quel voto fu determinante di molte cose, buone e cattive. La prima, fu la guerra, che non era solamente di indipendenza; ma anche, nella tradizione del Risorgimento, di liberazione dei popoli oppressi dagli Imperi Centrali. Ancora una volta l'intervento del­l'Italia salvava l'Intesa in extremis: si era verificata, tra la fine del quattordici e il principio del quindici, una gigantesca ritirata sul fronte Russo; l'apertura del fronte italiano avrebbe ritardato di due anni il crollo dell'Impero Zarista, e impediva agli Imperi Centrali di concentrare enormi forze sul fronte anglo-francese. Ma il «maggio radioso» vide anche la prima morte della classe dirigente italiana, di quella sinistra democratica che nel 1876

aveva battuto la Destra storica.   

Non diremo in questa sede del coraggio, dell'eroismo, della lunga tenacia, degli immensi sacrifici di sangue con i quali tutti le componenti del popolo italiano parteciparono a quella guerra, sotto la guida di Vittorio Emanuele III. Diremo solo di un altro intervento del Re e per questo faremo due nomi tragici e gloriosi: Caporetto e Peschiera.

Il Primo Ministro d'Inghilterra Lloyd George e il Presidente del Consiglio Francese Painlevé, alle prime notizie del disastro di Caporetto, cioè del totale sfondamento del fronte italiano, della quasi totale dissoluzione del nostro esercito e della rapida avan­zata delle Armata Austro-Ungarico-Tedesco-Bulgaro-Turche, ave­vano ordinato che quattro divisioni francesi e due inglesi fossero immediatamente accorse in Italia. Era evidente che il compito di queste truppe era quello di creare una linea di copertura delle Alpi francesi, nel caso che il disastro italiano fosse stato veramente irreparabile. Ma prima di impegnarsi nella organizzazione di una più avanzata linea di difesa, gli alleati volevano sapere se si poteva ancora contare sull'esercito italiano e su un suo comando efficiente al quale, in definitiva, sarebbe stata affidata anche la sorte delle loro preziosi divisioni.

Francesi e inglesi si incontrarono a Rapallo con gli italiani. Da una parte Lloyd George e sir William Robertson, Painlevè e Foch; dall'altra Orlando, Sonnino e Porro Sottocapo di Stato Maggiore, che passava per essere un gran cervello di guerra.

Non seguiremo, per accertare la verità su quel tragico mo­mento della nostra storia, i racconti di illustri giornalisti, come Ugo Ojetti e Otello Cavara, che dissero decisivo l'intervento del Re, né le pseudo storie dei repubblicani e dei faziosi i quali affermavano che non vi fu nessun intervento decisivo del Sovrano. La verità si trova ampiamente descritta nelle Memorie di Lloyd George.

Gli alleati non erano venuti a Rapallo per sentirsi raccontare delle chiacchiere. Essi volevano sapere se esisteva ancora un alto comando italiano e un esercito italiano insieme al quale una armata anglo-francese potesse combattere senza correre ri­schio di essere travolta in un nuovo disastro. Il quesito posto in questi termini, equivaleva a porsi la domanda se valeva la pena di compiere uno sforzo per salvare l'Italia, o se convenisse piut­tosto abbandonarla a se stessa. Il giudizio dei due massimi esperti militari, Robertson e Foch, era totalmente negativo. Lloyd George e Painlevé sentirono i delegati italiani. Colui che riferì sulla nostra situazione militare fu il Generale Porro, e il giudizio di Lloyd George fu totalmente sfavorevole.

Insomma, nel corso della Conferenza di Rapallo venne presa in considerazione la proposta di stabilire la linea di difesa sul Piave, e Orlando invocò con estremo calore l'ausilio di almeno quindici divisioni alleate e di molta artiglieria; ma gli alleati non riuscirono ad ottenere informazioni esatte sulla nostra situazione militare, sulle quali fondare delle decisioni che implicavano l'im­piego e il rischio di numerose divisioni sottratte alle non copiose riserve del fronte occidentale. Insomma, alla fine della Conferenza Lloyd George e Painlevé non avevano altro che le informazioni totalmente negative di sir William Robertson e di Foch.

Comunque, nelle sue memorie, il primo ministro inglese narra che la conferenza venne «interrotta» a Rapallo e ripresa a Peschiera alla presenza del Re. Si tenga presente che Lloyd George è un liberale: i giudizi contenuti nelle sue memorie sono sempre equi e moderati. Egli si guarda bene dal dire alcunché che possa menomare la classe dirigente del nostro Paese. Tutta­via, dopo aver dato fugaci riassunti della Conferenza di Rapallo, egli pubblica integralmente il verbale dell'incontro di Peschiera che definisce «storico». Da questo verbale risulta che Vittorio Emanuele fece una diffusa e approfondita analisi della situazione indicando minuziosamente le cause della disfatta e le possibilità di recupero e di resistenza.

Lloyd George scrive testualmente: Io sono stato molto impressionato dalla calma e della forza che egli dimostrò in una occasione come quella in cui il suo Paese e il suo trono erano in pericolo. Egli non tradì alcun segno di timore o di depressione. Pareva ansioso solamente di cancellare in noi l'impressione che il suo esercito fosse fuggito e trovava mille spiegazioni e giustifi­cazioni per questa ritirata.

Il Re aveva cominciato col dichiararsi addolorato che la Conferenza di Roma non avesse seguito il consiglio di Lloyd George. Costui replicò dichiarandosi spiacente che il Re non fosse stato presente nella Conferenza nella quale egli aveva sostenuto la necessità di centrare gli sforzi sul fronte italiano. A questo punto, il verbale riferisce che il Re d'Italia osservò che «egli non aveva sempre la opportunità di vedere effettuate le sue idee ».

È in questo documento che noi abbiamo la misura dell'interessamento, diremo così professionale, che il Re portava alla direzione della guerra; ma abbiamo anche una nuova prova dei limiti rigorosamente costituzionali che egli imponeva alle sue azioni.

Vittorio Emanuele, nella conferenza di Peschiera, difese cavallerescamente il generale Cadorna e spiegò minuziosamente i meriti e il valore del generale Armando Diaz, che lui stesso aveva scelto per succedere allo sconfitto. Non aveva scelto il Duca d'Aosta comandante invitto della Terza Armata, popolarissimo in Italia. Ma perché? Il Re dette, successivamente la spiegazione a Leonida Bissolati, ministro socialista, repubblicano e soldato, che la riferisce nel suo diario. Egli non si nascondeva che il crollo della linea del Piave avrebbe potuto mettere l'Italia nella impos­sibilità di continuare la guerra. In questo caso, egli avrebbe abdi­cato per sé e per il figlio. L'uomo adatto a salvare la dinastia e a stipulare una pace separata, sarebbe stato proprio il Duca d'Aosta. Egli non voleva rischiarare la popolarità del coman­dante della Terza Armata in una nuova, irreparabile disfatta.

Comunque, il verbale di Peschiera riferisce che ad un certo punto, Lloyd George e Painlevé chiamarono sir William Robert-son e Foch, e impartirono le necessarie istruzioni per fare avanzare immediatamente le sei divisioni anglo-francesi. Questa è la storia. Nei tre momenti decisivi della vita del nostro Paese, nella crisi del regicidio, nel «maggio radioso», nella crisi di Caporetto, il giudizio e la iniziativa del Re avevano esercitato una funzione decisiva e risolutiva.

Ma bisogna aggiungere che nella prima battaglia del Piave l'intervento dell'Armata anglo-francese non fu necessaria. Giovò, invece, l'artiglieria alleata, che però venne ritirata tre mesi dopo il Piave. E si deve anche ricordare che, sotto la guida del Re, dopo Caporetto, tutte le discordie, i contrasti e gli odi si placa­rono, e tutto il popolo, cattolici, socialisti e neutralisti compresi, si schierò idealmente sul fronte contro l'invasore. Gran numero dei disertori dell'Italia Meridionale e della Sicilia si costituirono per andare a combattere.

Nel 1919-23 e nel 1943-46, si ebbero gli altri due momenti della nostra storia unitaria, in cui l'intervento del Re risultò deci­sivo. Momenti neri e interventi discussi; ma non per questo meno grandi ai fini della Patria.

Nel 1919, il governo della Vittoria con Orlando, Sonnino, Nitti era tutto di origini «giolittiane»: tutti i ministri liberali di destra o di sinistra, democratici, radicali, riformisti, erano vecchi amici o discepoli dell'uomo di Dronero, anche se nel corso degli ultimi durissimi anni, si erano sinceramente convertiti alla guerra, per spirito e disciplina nazionali, più che per vera convinzione politica. Anche la maggioranza della Camera, come quella del Senato, era di origine e sentimenti giolittiani e socialisti. Per questo, il ministero Orlando-Sonnino non prese subito dopo la Vittoria, il logico provvedimento che era stato, invece, adottato in Inghilterra da Lloyd George e in Francia da Clemenceau, cioè lo scioglimento delle Camere e le elezioni generali, tanto più che la legislatura del 1913 era arrivata al suo naturale termine. E per questo, il ministero Orlando-Sonnino, controllato da un Parla­mento intimamente giolittiano, neutralista e disfattista, che aveva ripreso tutti i suoi spiriti, essendo cessate tutte le restrizioni di guerra, fu debole, anzi debolissimo sostenitore della Vittoria.

Giolitti e i giolittiani manifestarono subito ed apertamente la intenzione di liquidare al più presto possibile, la guerra, le sue «bardature», le sue conseguenze, ed anche in molti aspetti la stessa Vittoria. Quando il ministero Orlando-Sonnino, clamo­rosamente battuto nella Conferenza di Versailles, dove non aveva saputo né difendere la Dalmazia, che ci sarebbe spettata in virtù del Trattato di Londra, né salvare Fiume italiana, che ci sarebbe spettata in virtù dei Quattordici punti, cadde anche nella Camera, gli successe un democratico di sinistra puro giolittiano, France­sco Saverio Nitti, che alla liquidazione della guerra procedette sul serio. Smobilitato l'esercito, smobilitata l'industria di guerra, concessa la più larga amnistia ai disertori, si creò nel Paese una massa sterminata di disoccupati, di delusi, di scontenti, di spo­stati. E in queste condizioni si fecero delle elezioni naturalmente di «sinistra», col suffragio universale e la proporzionale. E non meno naturalmente, uscirono dalle urne solo due piccole pattu­glie di nazionalisti e di repubblicani, una maggioranza molto incerta di liberali e democratici sociali, cioè «giolittiani», e cento popolari e centocinquanta socialisti, che non erano più quelli di Turati e di Treves; ma in gran parte condizionati dai comunisti.

Durante il travagliato ministero Nitti, tra il 1919 e il 1920, l'entrata nel gioco parlamentare di due grandi e organizzati partiti di massa, il popolare e il socialista, che avevano programmi poli­tici estranei e avversi agli ideali del Risorgimento, la divisione della gran massa dei disoccupati, dei delusi e degli scontenti in due ali divaricate, l'una a destra, l'altra a sinistra, l'impresa dannunziana di Fiume, crearono nel nostro Paese una prima atmo­sfera di guerra civile.

Le violenze e gli illegalismi cominciarono a moltiplicarsi, le risse politiche, con omicidi e ferimenti, frequentissime, i reduci protestavano con estrema energia per la «Vittoria mutilata», i sindacati davano alle agitazioni sociali un piglio sempre più rivoluzionario. In questi frangenti, si ebbe la illacrimata sepoltura del governo Nitti. Le parti migliori del Paese credettero che fosse finalmente ritornata l'ora di Giovanni Giolitti, del tauma­turgo politico, del toccasana parlamentare.

Ma quali erano il programma e le intenzioni di Giolitti? Egli aveva un programma di «sinistra», un programma che oggi, a mezzo secolo di distanza, sarebbe ovvio, ma che nel 1920 non era che astrattamente democratico; anzi nella realtà del tempo appariva come un programma di vendetta. In altri termini, Giolitti richiedeva prima di tutto una riforma dell'art. 5 dello Statuto, per modo che non fosse possibile al Re né dichiarare la guerra, né stipulare la pace, né contrarre impegni con altri Paesi, senza i] preventivo consenso del Parlamento. Voleva non solo che fosse tolto al potere esecutivo la facoltà di prorogare la sessione del Parlamento e che venisse abbandonata la consuetudine di adottare provvedimenti per decreto-legge, ma che fossero fatte severe e approfondite inchieste sul modo come erano stati esercitati i pieni poteri nel corso di cinque anni di guerra. Voleva, inoltre, che fossero liquidate le posizioni di politica estera ancora pendenti, e si proponeva di sottoporre a revisione i contratti di forniture di guerra per procedere all'avocazione dei sopraffitti e di isti­tuire la nominatività dei titoli per poter procedere a larghe falcidie dei patrimoni privati.

Come si vede, era una vendetta spietata sulla guerra, su chi l'aveva voluta, su chi l'aveva combattuta, e soprattutto sul Re. Ma il ministeriato diretto di Giovanni Giolitti fu l'ultimo, e molto breve. Egli non riuscì a varare l'intero suo programma di riforme; ma ebbe tempo di assumere, nei confronti dei contrasti che lace­ravano sanguinosamente il Paese, una singolare posizione di neutralità. Questa posizione venne assunta e mantenuta dal Giolitti e dai suoi luogotenenti Bonomi e Facta fino alle estreme conseguenze, fino alla definitiva catastrofe politica.

La neutralità dei demo-liberali-giolittiani, che avevano sem­pre temuto d'essere qualificati come conservatori e reazionari dei socialisti, consisteva nel concedere largamente all'estrema sini­stra sui piani del programma e dell'attività legislativa, e nell'in­coraggiare segretamente, e persino armare e proteggere quelle che essi chiamavano, in sede privata, la «sana reazione» del Paese. Questa «reazione» era poi lo squadrismo fascista. Insom­ma, invece di fare il loro dovere, e di difendere la legalità con mezzi legali, e reprimere severamente le violenze e i turbamenti dell'ordine pubblico, i demo-liberali-giolittiani «speravano», «nu­trivano fiducia», che lo squadrismo fascista avesse spazzato via il socialismo rivoluzionario e il comunismo, per poi, restaurato l'ordine pubblico, rientrare nei ranghi demo-liberali per ringio­vanirli.

Non era una politica nuova. Essa era stata praticata, in verità con molto successo, nel primo decennio del secolo; ma le condi­zioni obbiettive del nostro Paese, e il volume e la natura delle controversie politico-sociali erano profondamente diversi. In pra­tica, le elezioni del 1921 non dettero a Giolitti una maggioranza sufficiente; ma immisero poi nella Camera Mussolini e un primo gruppo di ferventi fascisti. Il fallimento dell'occupazione delle fabbriche, lungi dal rafforzare il governo democratico, si risolve in un gigantesco riflusso delle masse dei disoccupati, dei delusi degli scontenti, che passarono dalla estrema sinistra socialista rivoluzionaria, all'estrema destra non meno rivoluzionaria.

Venne così formandosi, sotto i successivi governi di Giolitti, Bonomi e di Facta, un gigantesco partito di massa, militarmente organizzato ed armato, che agitava insieme spregiudicatamente tutte le rivendicazioni, quelle nazionali e quelle sociali, attirando nelle sue file tanto i socialisti delusi che i reduci umiliati ed offesi. Perché era accaduto in Italia, in quei tristi anni, anche l'assurdo e l'incredibile: non solo l'amnistia ai disertori, (badate bene amnistia, non condono o indulto), ma gli sputi, gli insulti, le aggressioni di cui erano fatti segno tutti gli ufficiali in divisa; un Ministro della Guerra, il Bonomi, ad essere precisi, che per riparare a questi eccessi, ordinava agli ufficiali di mettersi in borghese; quello stesso Ministro della Guerra che poi chiudeva un occhio, ed anche due, se i soldati umiliati ed offesi, cedevano armi e materiali di guerra ai fascisti.

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