Eppure, né Vittorio Emanuele III, né Giovanni Giolitti
erano colonialisti. Il Re specialmente, aveva sempre manifestato, anche al
tempo della prima guerra etiopica, la sua personale avversione per la politica
coloniale. Ma la costa Mediterranea Ma la costa Mediterranea dell'Africa, e in
particolare i vilaiet turchi della Tripolitania e della Cirenaica, minacciati
di occupazione da parte di altre potenze, e forse addirittura della Germania,
era un gravissimo problema che interessava con estrema urgenza la sicurezza
stessa del nostro Paese.
Nel periodo successivo al
primo quindicennio del secolo, cioè tra il 1915 e il 1918, si verificarono due
altri «interventi», se così posso esprimermi, di Vittorio Emanuele
nella vita e nella politica d'Italia: due interventi che ebbero obiettivamente
enormi e decisivi riflessi in campo internazionale.
Il primo, appunto, è il «maggio radioso»,
l'intervento dell'Italia nella prima guerra mondiale, quella che dev'esser
detta la quarta guerra dell'indipendenza perché conseguì la liberazione del
Trentino e della Venezia Giulia. Ma in che cosa consistette l'intervento
decisivo del Re costituzionale? Ora che i documenti di quel periodo sono noti e
acquisiti, la verità sull'intervento dell'Italia nella prima guerra mondiale,
può esser detta con poche, precise, obiettive parole; con parole scevre di
qualsiasi polemica passata o presente.
Dopo avere, con la
dichiarazione di neutralità nel 1914, letteralmente salvata la Francia da una
immediata disfatta, l'Italia, nella primavera del 1915 era profondamente
divisa. La parte più giovane, e, insieme, la parte più tradizionale e
risorgimentale del nostro popolo, esigevano l'intervento immediato a fianco dei
popoli dell'Intesa; mentre la maggioranza dei deputati, anzi la grande
maggioranza della Camera che seguiva il pensiero politico di Giovanni Giolitti,
era risolutamente avversa all'intervento, e favorevole al mantenimento della
neutralità ed alla stipulazione di un misero e precario accordo territoriale
con l'Austria-Ungheria.
Questa maggioranza
giolittiana e neutralista, si affermò pubblicamente ma in sede
extra-parlamentare, deponendo i biglietti da visita dei suoi componenti nella
portineria di casa Giolitti, il giorno che l'«uomo di Dronero» ritornò a Roma.
Subito, il Presidente del Consiglio Salandra, che era interventista, si dimise,
per «sensibilità». Aperta la crisi, nelle consultazioni di rito, il Presidente
del Consiglio dimissionario, il Presidente del Senato e il Presidente della
Camera, indicarono al Re il capo della opposizione, cioè Giovanni Giolitti
padrone di una sicura e salda maggioranza. Vittorio Emanuele convocò Giolitti:
ma l'uomo di Stato, che era detto scherzosamente «Palamidone», osservò che in
quel momento di animi troppo accesi, la sua persona fortemente impopolare
era la meno indicata sia per risolvere la crisi, sia per condurre in porto, con
ragionevole vantaggio, le trattative con l'Austria: la vocazione neutralista di
Giolitti era fin troppo nota alla nostra nemica ereditaria. Piuttosto, l'uomo
di Dronero consigliava al Re di chiamare il Presidente della Camera on.
Marcora, che era un vecchio patriota del Risorgimento di sinistra, e
giolittiano fidatissimo.
Vittorio Emanuele III si
guardò bene, (ed era nel suo pieno diritto di sovrano costituzionale), dal
seguire il consiglio e l'opinione di Giovanni Giolitti. Egli fece un
ragionamento, anch'esso strettamente costituzionale. Il ministro Salandra, egli
si disse, non si è dimesso in conseguenza di un responsabile voto di sfiducia
della Camera; ma per un voto irresponsabile e sentimentale espresso con
trecentocinquanta biglietti da visita. Dunque, l'unica cosa seria e
responsabilmente corretta da fare in quel momento, era di rimandare il ministro
Salandra alla Camera perché sollecitasse il voto. Le crisi extra parlamentari
non devono essere ammesse in un regime parlamentare e democratico.
Infatti, il ministero Salandra si ripresentò
alla Camera e, in luogo di essere battuto da almeno trecentocinquanta voti,
venne confermato da più di trecentocinquanta voti di fiducia. In altri termini,
i trecentocinquanta giolittiani neutralisti, che avevano votato in privato per
Giolitti, in pubblico e nella Camera votarono per Salandra e per la guerra.
Quel voto fu determinante
di molte cose, buone e cattive. La prima, fu la guerra, che non era solamente
di indipendenza; ma anche, nella tradizione del Risorgimento, di liberazione
dei popoli oppressi dagli Imperi Centrali. Ancora una volta l'intervento dell'Italia
salvava l'Intesa in extremis: si era verificata, tra la fine del
quattordici e il principio del quindici, una gigantesca ritirata sul fronte
Russo; l'apertura del fronte italiano avrebbe ritardato di due anni il crollo
dell'Impero Zarista, e impediva agli Imperi Centrali di concentrare enormi
forze sul fronte anglo-francese. Ma il «maggio radioso» vide anche la prima
morte della classe dirigente italiana, di quella sinistra democratica che nel
1876
aveva battuto la Destra storica.
Non diremo in questa sede del coraggio,
dell'eroismo, della lunga tenacia, degli immensi sacrifici di sangue con i quali
tutti le componenti del popolo italiano parteciparono a quella guerra, sotto la guida di Vittorio Emanuele III. Diremo
solo di un altro intervento del Re e per questo faremo due nomi tragici e
gloriosi: Caporetto e Peschiera.
Il Primo Ministro d'Inghilterra
Lloyd George e il Presidente del Consiglio Francese Painlevé, alle prime
notizie del disastro di Caporetto, cioè del totale sfondamento del fronte
italiano, della quasi totale dissoluzione del nostro esercito e della rapida
avanzata delle Armata Austro-Ungarico-Tedesco-Bulgaro-Turche, avevano
ordinato che quattro divisioni francesi e due inglesi fossero immediatamente
accorse in Italia. Era evidente che il compito di queste truppe era quello di
creare una linea di copertura delle Alpi francesi, nel caso che il disastro
italiano fosse stato veramente irreparabile. Ma prima di impegnarsi nella
organizzazione di una più avanzata linea di difesa, gli alleati volevano sapere
se si poteva ancora contare sull'esercito italiano e su un suo comando efficiente
al quale, in definitiva, sarebbe stata affidata anche la sorte delle loro
preziosi divisioni.
Francesi e inglesi si
incontrarono a Rapallo con gli italiani. Da una parte Lloyd George e sir
William Robertson, Painlevè e Foch; dall'altra Orlando, Sonnino e Porro
Sottocapo di Stato Maggiore, che passava per essere un gran cervello di guerra.
Non seguiremo, per
accertare la verità su quel tragico momento della nostra storia, i racconti di
illustri giornalisti, come Ugo Ojetti e Otello Cavara, che dissero decisivo
l'intervento del Re, né le pseudo storie dei repubblicani e dei faziosi i quali
affermavano che non vi fu nessun intervento decisivo del Sovrano. La verità si
trova ampiamente descritta nelle Memorie di Lloyd George.
Gli alleati non erano
venuti a Rapallo per sentirsi raccontare delle chiacchiere. Essi volevano
sapere se esisteva ancora un alto comando italiano e un esercito italiano
insieme al quale una armata anglo-francese potesse combattere senza correre rischio
di essere travolta in un nuovo disastro. Il quesito posto in questi termini,
equivaleva a porsi la domanda se valeva la pena di compiere uno sforzo per
salvare l'Italia, o se convenisse piuttosto abbandonarla a se stessa. Il
giudizio dei due massimi esperti militari, Robertson e Foch, era totalmente
negativo. Lloyd George e Painlevé sentirono i delegati italiani. Colui che
riferì sulla nostra situazione militare fu il Generale Porro, e
il giudizio di Lloyd George fu totalmente sfavorevole.
Insomma, nel corso della
Conferenza di Rapallo venne presa in considerazione la proposta di stabilire la
linea di difesa sul Piave, e Orlando invocò con estremo calore l'ausilio di
almeno quindici divisioni alleate e di molta artiglieria; ma gli alleati non
riuscirono ad ottenere informazioni esatte sulla nostra situazione militare,
sulle quali fondare delle decisioni che implicavano l'impiego e il rischio di
numerose divisioni sottratte alle non copiose riserve del fronte occidentale.
Insomma, alla fine della Conferenza Lloyd George e Painlevé non avevano altro
che le informazioni totalmente negative di sir William Robertson e di Foch.
Comunque, nelle sue
memorie, il primo ministro inglese narra che la conferenza venne «interrotta» a
Rapallo e ripresa a Peschiera alla presenza del Re. Si tenga presente che Lloyd
George è un liberale: i giudizi contenuti nelle sue memorie sono sempre equi e
moderati. Egli si guarda bene dal dire alcunché che possa menomare la classe
dirigente del nostro Paese. Tuttavia, dopo aver dato fugaci riassunti della
Conferenza di Rapallo, egli pubblica integralmente il verbale dell'incontro di
Peschiera che definisce «storico». Da questo verbale risulta che Vittorio Emanuele
fece una diffusa e approfondita analisi della situazione indicando
minuziosamente le cause della disfatta e le possibilità di recupero e di
resistenza.
Lloyd George scrive
testualmente: Io sono stato molto impressionato dalla calma e della forza che
egli dimostrò in una occasione come quella in cui il suo Paese e il suo trono
erano in pericolo. Egli non tradì alcun segno di timore o di depressione.
Pareva ansioso solamente di cancellare in noi l'impressione che il suo esercito
fosse fuggito e trovava mille spiegazioni e giustificazioni per questa
ritirata.
Il Re aveva cominciato col
dichiararsi addolorato che la Conferenza di Roma non avesse seguito il
consiglio di Lloyd George. Costui replicò dichiarandosi spiacente che il Re non
fosse stato presente nella Conferenza nella quale egli aveva sostenuto la
necessità di centrare gli sforzi sul fronte italiano. A questo punto, il
verbale riferisce che il Re d'Italia osservò che «egli non aveva sempre la
opportunità di vedere effettuate le sue idee ».
È in questo documento che noi abbiamo la misura dell'interessamento, diremo così professionale, che il Re portava alla direzione della guerra; ma abbiamo anche una nuova prova dei limiti rigorosamente costituzionali che egli imponeva alle sue azioni.
Vittorio Emanuele, nella
conferenza di Peschiera, difese cavallerescamente il generale Cadorna e spiegò
minuziosamente i meriti e il valore del generale Armando Diaz, che lui stesso
aveva scelto per succedere allo sconfitto. Non aveva scelto il Duca d'Aosta
comandante invitto della Terza Armata, popolarissimo in Italia. Ma perché? Il
Re dette, successivamente la spiegazione a Leonida Bissolati, ministro
socialista, repubblicano e soldato, che la riferisce nel suo diario. Egli non
si nascondeva che il crollo della linea del Piave avrebbe potuto mettere
l'Italia nella impossibilità di continuare la guerra. In questo caso, egli
avrebbe abdicato per sé e per il figlio. L'uomo adatto a salvare la dinastia e
a stipulare una pace separata, sarebbe stato proprio il Duca d'Aosta. Egli non
voleva rischiarare la popolarità del comandante della Terza Armata in una
nuova, irreparabile disfatta.
Comunque, il verbale di
Peschiera riferisce che ad un certo punto, Lloyd George e Painlevé chiamarono
sir William Robert-son e Foch, e impartirono le necessarie istruzioni per fare
avanzare immediatamente le sei divisioni anglo-francesi. Questa è la storia.
Nei tre momenti decisivi della vita del nostro Paese, nella crisi del
regicidio, nel «maggio radioso», nella crisi di Caporetto, il giudizio e la
iniziativa del Re avevano esercitato una funzione decisiva e risolutiva.
Ma bisogna aggiungere che
nella prima battaglia del Piave l'intervento dell'Armata anglo-francese non fu
necessaria. Giovò, invece, l'artiglieria alleata, che però venne ritirata tre
mesi dopo il Piave. E si deve anche ricordare che, sotto la guida del Re, dopo
Caporetto, tutte le discordie, i contrasti e gli odi si placarono, e tutto il
popolo, cattolici, socialisti e neutralisti compresi, si schierò idealmente sul
fronte contro l'invasore. Gran numero dei disertori dell'Italia Meridionale e
della Sicilia si costituirono per andare a combattere.
Nel 1919-23 e nel 1943-46,
si ebbero gli altri due momenti della nostra storia unitaria, in cui
l'intervento del Re risultò decisivo. Momenti neri e interventi discussi; ma
non per questo meno grandi ai fini della Patria.
Nel 1919, il governo della
Vittoria con Orlando, Sonnino, Nitti era tutto di origini «giolittiane»: tutti
i ministri liberali di destra o di sinistra, democratici, radicali, riformisti,
erano vecchi amici o discepoli dell'uomo di Dronero, anche se nel corso degli
ultimi durissimi anni, si erano sinceramente convertiti alla guerra, per
spirito e disciplina nazionali, più che per vera convinzione politica. Anche la
maggioranza della Camera, come quella del Senato, era di origine e sentimenti
giolittiani e socialisti. Per questo, il ministero Orlando-Sonnino non prese
subito dopo la Vittoria, il logico provvedimento che era stato, invece,
adottato in Inghilterra da Lloyd George e in Francia da Clemenceau, cioè lo
scioglimento delle Camere e le elezioni generali, tanto più che la legislatura
del 1913 era arrivata al suo naturale termine. E per questo, il ministero Orlando-Sonnino,
controllato da un Parlamento intimamente giolittiano, neutralista e
disfattista, che aveva ripreso tutti i suoi spiriti, essendo cessate tutte le
restrizioni di guerra, fu debole, anzi debolissimo sostenitore della Vittoria.
Giolitti e i giolittiani
manifestarono subito ed apertamente la intenzione di liquidare al più presto
possibile, la guerra, le sue «bardature», le sue conseguenze, ed anche in molti
aspetti la stessa Vittoria. Quando il ministero Orlando-Sonnino, clamorosamente
battuto nella Conferenza di Versailles, dove non aveva saputo né difendere la
Dalmazia, che ci sarebbe spettata in virtù del Trattato di Londra, né salvare
Fiume italiana, che ci sarebbe spettata in virtù dei Quattordici punti, cadde
anche nella Camera, gli successe un democratico di sinistra puro giolittiano,
Francesco Saverio Nitti, che alla liquidazione della guerra procedette sul
serio. Smobilitato l'esercito, smobilitata l'industria di guerra, concessa la
più larga amnistia ai disertori, si creò nel Paese una massa sterminata di
disoccupati, di delusi, di scontenti, di spostati. E in queste condizioni si
fecero delle elezioni naturalmente di «sinistra», col suffragio universale e la
proporzionale. E non meno naturalmente, uscirono dalle urne solo due piccole
pattuglie di nazionalisti e di repubblicani, una maggioranza molto incerta di
liberali e democratici sociali, cioè «giolittiani», e cento popolari e
centocinquanta socialisti, che non erano più quelli di Turati e di Treves;
ma in gran parte condizionati dai comunisti.
Durante il travagliato
ministero Nitti, tra il 1919 e il 1920, l'entrata nel gioco parlamentare di due
grandi e organizzati partiti di massa, il popolare
e il socialista, che avevano programmi politici estranei e avversi agli ideali
del Risorgimento, la divisione della gran massa dei disoccupati, dei delusi e
degli scontenti in due ali divaricate, l'una a destra, l'altra a sinistra,
l'impresa dannunziana di Fiume, crearono nel nostro Paese una prima atmosfera
di guerra civile.
Le violenze e gli
illegalismi cominciarono a moltiplicarsi, le risse politiche, con omicidi e
ferimenti, frequentissime, i reduci protestavano con estrema energia per la
«Vittoria mutilata», i sindacati davano alle agitazioni sociali un piglio
sempre più rivoluzionario. In questi frangenti, si ebbe la illacrimata
sepoltura del governo Nitti. Le parti migliori del Paese credettero che fosse
finalmente ritornata l'ora di Giovanni Giolitti, del taumaturgo politico, del
toccasana parlamentare.
Ma quali erano il
programma e le intenzioni di Giolitti? Egli aveva un programma di «sinistra»,
un programma che oggi, a mezzo secolo di distanza, sarebbe ovvio, ma che nel
1920 non era che astrattamente democratico; anzi nella realtà del tempo
appariva come un programma di vendetta. In altri termini, Giolitti richiedeva
prima di tutto una riforma dell'art. 5 dello Statuto, per modo che non fosse
possibile al Re né dichiarare la guerra, né stipulare la pace, né contrarre
impegni con altri Paesi, senza i] preventivo consenso del Parlamento. Voleva
non solo che fosse tolto al potere esecutivo la facoltà di prorogare la
sessione del Parlamento e che venisse abbandonata la consuetudine di adottare provvedimenti
per decreto-legge, ma che fossero fatte severe e approfondite inchieste sul
modo come erano stati esercitati i pieni poteri nel corso di cinque anni di
guerra. Voleva, inoltre, che fossero liquidate le posizioni di politica estera
ancora pendenti, e si proponeva di sottoporre a revisione i contratti di forniture
di guerra per procedere all'avocazione dei sopraffitti e di istituire la
nominatività dei titoli per poter procedere a larghe falcidie dei patrimoni
privati.
Come si vede, era una
vendetta spietata sulla guerra, su chi l'aveva voluta, su chi l'aveva
combattuta, e soprattutto sul Re. Ma il ministeriato diretto di Giovanni
Giolitti fu l'ultimo, e molto breve. Egli non riuscì a varare l'intero suo
programma di riforme; ma ebbe tempo di assumere, nei confronti dei contrasti
che laceravano sanguinosamente il Paese, una singolare posizione di neutralità. Questa posizione venne assunta e mantenuta dal
Giolitti e dai suoi luogotenenti Bonomi e Facta fino alle estreme conseguenze,
fino alla definitiva catastrofe politica.
La neutralità dei
demo-liberali-giolittiani, che avevano sempre temuto d'essere qualificati come
conservatori e reazionari dei socialisti, consisteva nel concedere largamente
all'estrema sinistra sui piani del programma e dell'attività legislativa, e
nell'incoraggiare segretamente, e persino armare e proteggere quelle che essi
chiamavano, in sede privata, la «sana reazione» del Paese. Questa «reazione»
era poi lo squadrismo fascista. Insomma, invece di fare il loro dovere, e di
difendere la legalità con mezzi legali, e reprimere severamente le violenze e i
turbamenti dell'ordine pubblico, i demo-liberali-giolittiani «speravano», «nutrivano
fiducia», che lo squadrismo fascista avesse spazzato via il socialismo
rivoluzionario e il comunismo, per poi, restaurato l'ordine pubblico, rientrare
nei ranghi demo-liberali per ringiovanirli.
Non era una politica nuova.
Essa era stata praticata, in verità con molto successo, nel primo decennio del
secolo; ma le condizioni obbiettive del nostro Paese, e il volume e la natura
delle controversie politico-sociali erano profondamente diversi. In pratica,
le elezioni del 1921 non dettero a Giolitti una maggioranza sufficiente; ma
immisero poi nella Camera Mussolini e un primo gruppo di ferventi fascisti. Il
fallimento dell'occupazione delle fabbriche, lungi dal rafforzare il governo
democratico, si risolve in un gigantesco riflusso delle masse dei disoccupati,
dei delusi degli scontenti, che passarono dalla
estrema sinistra socialista rivoluzionaria, all'estrema destra non meno
rivoluzionaria.
Venne così formandosi,
sotto i successivi governi di Giolitti, Bonomi e di Facta, un gigantesco
partito di massa, militarmente organizzato ed armato, che agitava insieme
spregiudicatamente tutte le rivendicazioni, quelle nazionali e quelle sociali,
attirando nelle sue file tanto i socialisti delusi che i reduci umiliati ed
offesi. Perché era accaduto in Italia, in quei tristi anni, anche l'assurdo e
l'incredibile: non solo l'amnistia ai disertori, (badate bene amnistia, non
condono o indulto), ma gli sputi, gli insulti, le aggressioni di cui erano
fatti segno tutti gli ufficiali in divisa; un Ministro della Guerra, il
Bonomi, ad essere precisi, che per riparare a questi eccessi, ordinava agli
ufficiali di mettersi in borghese; quello
stesso Ministro della Guerra che poi chiudeva un occhio, ed anche due, se i
soldati umiliati ed offesi, cedevano armi e materiali di guerra ai fascisti.
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