E a proposito della repubblica
o del principato lo stesso autore avvertiva: «I sudditi di una repubblica poi:
cioè quelli che non sono cittadini della dominante (nel nostro caso si può
modificare la città capoluogo con il partito dominante), stanno peggio che
quelli di un principe, perché la repubblica non fa parte alcuna della sua
grandezza se non a' suoi cittadini opprimendo gli altri: il principe è più
comune a tutti e ha ugualmente per 'suddito l'uno torne l'altro; però ognuno
può sperare di essere beneficato e adoperato da lui». (1)
Nel 1868, su di una rivista
bolognese, il prof. Angelo Camillo De Meis, di quella Università, pubblicava un
articolo dal titolo: Il Sovrano.
L'articolo non piacque al
Carducci che, sebbene collaboratore della stessa rivista e collega del De Meis,
scrisse una noterella assai aspra nell'Amico del Popolo, giornale dell'Emilia
per la «democrazia italiana». Alla noterella del Carducci replicò il prof.
Fiorentino, calabrese, professore di storia della filosofia e amico del De Meis
e poi ancora il Carducci e il De Meis. La polemica torna oggi assai attuale
perché il divario di cultura, di temperamento, di condizioni sociali tra nord e
sud è tornato, per effetto della guerra, delle due occupazioni straniere e
della biennale separazione, assai forte e ci richiama col pensiero a quel primo
periodo della nostra malferma unità.
Era il De Meis, in filosofia,
un hegeliano e in politica un liberale: era Carducci nel periodo giacobino
della sua attività di scrittore: tutto pieno dei fasti e dei miti della «grande
rivoluzione». Il De Meis a un certo punto del suo saggio prendeva di mira i
demagoghi. Egli diceva parlando dei demagoghi: «Le loro intenzioni sono
generose e perfettamente disinteressate e sono innocenti del male che fanno...
La colpa è della natura e più ancora della qualità della cultura e dell'indole
astratta e punto moderna del loro sapere... Il demagogo non sa conoscere il
progresso vero dell'apparente e falso; non sa, non può distinguere quale è il
Sovrano da abbattere e quale, da rispettare; né può discernere qual sia il ministero
da rovesciare e quale da appoggiare. Per lui sono tutti gli stessi: tutti i
ministeri, tutti i governi e tutti i sovrani sono ugualmente da abbattere,
nessuno da conservare. Astrazione è negazione. È nella natura delle cose...».
«Tale è la necessità naturale,
e logica alla quale ubbidisce il demagogo. Ecco ora il metodo con il quale egli
procede: Superficiale egli stesso, egli si volge alla gente superficiale e
lieve, agli spiriti astratti e poco riflessivi; e quando gli par giunto il
momento dell'azione poiché non ha presa sul popolo superiore, egli si accosta
pian piano alla classe sensibile, scontenta del nuovo stato, che tutto fa
contro al suo genio e gli impone troppo grave soma. Il demagogo la sobbilla e
la lavora a sua fazione; e se gli riesce, getta a terra, col suo aiuto, il
mediatore storico e si siede egli coi suoi consorti al timone dello Stato ».
Qui il De Meis prevedeva che
contro il demagogo si sarebbe sollevato subito dopo, lo stesso popolo inferiore
ed egli allora si sarebbe scagliato addosso al popolo superiore al modo di Fra
Diavolo e di Chiavone. L'Italia non mancava allora di demagoghi e non ne manca
oggi.
Non mancano mai - scriveva De
Meis - Cleoni di buone viscere ». Epperciò egli concludeva con l'invocare un
termine medio per far sì che la libertà resista e duri. Questo termine medio
era allora per il De Meis, ed è ancora oggi per noi, unico e insostituibile, la
Dinastia sabauda. Lo era allora per avere contribuito potentemente al riscatto
della nazione, lo è oggi perché è l'unico centro, l'unica realtà che possa
impedire lo scollamento dello Stato; possa avvicinare le parti diverse e
contrastanti e conciliarle. Una repubblica democratica e parlamentare avrebbe
potuto nascere dal perfezionamento dello Stato unitario e delle sue condizioni
di civiltà e di cultura; non può derivare dall'ira, dalla vendetta,
dall'arretramento e imbarbarimento del costume, in una parola dalla disfatta e
dalla tutela, straniera. La Monarchia è una realtà che esiste e si può adattare:
la repubblica è da fare e ognuno presume di farla a suo modo. Una repubblica
imposta al sud e al centro dell'Italia, dal nord che già ebbe l'iniziativa del
fascismo già fece una marcia su Roma, che insomma porta tutte le responsabilità
della crisi storica che attraversiamo, non farebbe che aumentare le distanze ed
esasperare le antitesi. Solo ritrovando e riconoscendo, una ideale e
immateriale sovranità, gli italiani potranno ritrovare la libertà e
l'indipendenza. In caso contrario potranno creare molte repubbliche e
repubblichette, ma non riacquisteranno la libertà. Tutt'al più potranno
aggiungere alla tirannia dei comitati e dei consigli la divisione della Patria
e la servitù allo straniero. Come già avvenne nei molti secoli della loro
travagliata storia.
(1) La Monarchia dei Savoia non viene attaccata dagli studiosi e
dagli storici del partito d'azione se non perché questa Dinastia tenderebbe a
conservarsi,, a superare le rivoluzioni e le guerre, insomma a perpetuarsi.
Rispondeva a ciò il Croce a proposito di un libretto antisabaudo del
Salvatorelli, con un articolo dal titolo; «Richiamo al buon metodo della
storia» (Risorgimento Liberale, 14 ottobre 1944). In esso il Croce rimproverava
al Salvatorelli di avere seguito lo stesso sistema del professore Cognasso che
egli prende dl mira nella trattazione della storia sabauda. Dice particolarmente
il Croce: Dal suo avversario gli è venuta anche, per imitazione e contrario, la
trattazione storica convertita in un esame di ciò che si doveva fare, e che i
conti, duchi e re di casa Savoia, da Umberto Biancamano a Vittorio Emanuele
III, non fecero o fecero male o fecero in senso opposto al dovuto. Tutto il suo
opuscolo è intessuto di queste forme di giudizi, vietati allo storico, e di
frasi in cui abbondano i «se», i «si sarebbe potuto», e simili. Lo storico ben
conosce che non è dato sostituire se stesso all'individuo che operò nelle
individue condizioni di animo e nelle circostanze in cui di volta in volta,
effettivamente ebbe a trovarsi; e non smarrisce mai l'assioma che, se colui si
comportò come si comportò, non poteva altrimenti, e prova ne è che, nel fatto,
non fece altrimenti. Lo storico non consiglia, e non rimprovera, per più
efficacemente indirizzarli, uomini viventi, plastici, trasformabili, da
persuadere o da intimidire per la più avveduta o la più giusta loro azione
nell'avvenire; ma ha innanzi il passato, reso sacro dal suo carattere stesso di
passato, voluto così da Dio o dallo spirito del mondo o (se ciò aggrada ai miei
filosofici colleghi comunisti) dalla necessità dialettica della Materia. Il
passato bisogna bensì intenderlo, ma non già presumere di censurarlo, né di
somministrargli l'errata corrige. L'esecuzione stessa di questo errato schema
si sarebbe presto fatta sentire al Salvatorelli disagevole e insostenibile nel
fatto, se egli non possedesse, altresì in comune col suo avversario, un'idea
che è un'immaginazione, contro la quale non ho mai tralasciato di mettere in
guardia gli studiosi: quella di un'unitaria storia d'Italia nei secoli,
protagonista la persona spirituale dell'Italia. Ma l'unità, d'Italia, e anche
l'aspirazione effettiva all'unità statale, fu un avvenimento del secolo
decimonono, nel quale tutti sanno la grande parte che ebbe Giuseppe Mazzini; e
non è lecito assumerla a misura e criterio per i fatti di altre età, che ebbero
altri problemi e si mossero in altre cerchie ideali e operative, e le cui
persone erano Venezia, Firenze, Milano, Napoli, Sicilia, e via dicendo. Così il
Salvatorelli accusa i principi di casa Savoia di non aver avuto di mira l'unità
d'Italia, di aver negletto di lavorare a tal fine, e di averlo contrastato. Ma
anche quando non c'era il problema dell'unità d'Italia, si poteva lavorare
utilmente per la civiltà e preparare alla lontana e inconsapevolmente le forze
per affrontare un giorno, allorché sarebbe sorto, il problema della unità
nazionale, e gli altri che l'hanno seguito e lo seguiranno. E la casa di Savoia
governò, soprattutto nel settecento e nell'ottocento, uno degli stati più saldamente
costituiti tra quelli italiani, che per questa sua saldezza poté, al momento
buono, farsi promotore dell'indipendenza e attuare intorno a sé l'unità
d'Italia.
Non meno stridente che non sia
con la sua narrazione storica (la quale dal secolo undecimo va fino al
decimonono) è il tono mordace, acre, sarcastico, astioso, e, insomma, appassionato,
del racconto del Salvatorelli quando egli giunge al secolo ventesimo e alla
sciagurata contaminazione di quell'assai stimata monarchia col fascismo. Ciò che
egli dice della responsabilità del Re Vittorio Emanuele III nel triste e
vergognoso periodo ora chiuso della nostra vita nazionale, è stato gridato alto
da noi, qui in Napoli prima che il Salvatorelli e i suoi compagni potessero
liberamente muoversi e parlare. Ma noi appunto, nel dire quel che dicemmo,
nell'esortare e nel premere perché il Re lasciasse il potere, come alla fine
ottenemmo, facevamo politica e non già scrivevamo storia. Forse anche nella
nostra indignazione per l'accaduto c'era, almeno in alcuni di noi, il senso
doloroso dell'offesa che si era recata da un re dei Savoia a questa veneranda
casa sovrana, la più antica di Europa, che noverava nove secoli di vita, ricchi
di nobili e severe memorie, e che, quando noi eravamo giovani, aveva ispirato
l'altissimo canto di Giosuè Carducci.
Un'ultima osservazione. Si
avverte, nelle pagine del Salvatorelli, come un continuo sospetto e rimprovero
che i Re di casa Savoia, o i Re in genere, dirigessero la loro politica nell'interesse
della conservazione e salvazione della monarchia e della dinastia. Ma, se la Monarchia
è la forma di uno stato, quale meraviglia che Re intenda conservarla e tenga in
conto le necessità vitali di essa, giacche il suo vigore è pur necessario allo
Stato e al popolo che essa governa? Tutto sta a non perdere, propter vitam
vitae causas, e, per conservare la monarchia, a non sacrificare il bene
pubblico, a non sacrificare il popolo che si regge: con che si perde, infine,
la Monarchia stessa.
Così un esercito è fatto per
difendere la Patria, ma insieme con ciò ha i suoi interessi proprii, di
esercito, che non può servire la patria se prima non conserva se stesso, cioè
non serve alle ragioni del suo organismo militare. Così gli scienziati servono
alla patria fornendola di scienza, ma questa forza non potrebbero prestare alla
patria se innanzi tutto non servissero agli interessi della scienza, della pura
scienza, autonomi e distinti da quelli della patria, sebbene con esso
unificabili. Non vedo perché i monarchi, che hanno a cuore la stabilità della
monarchia e la successione del trono, debbano essere trattati peggio dei
militari e degli scienziati, e sottomessi a un sospetto e a un discredito dal
quale gli altri vanno esenti. In fondo, il Re Vittorio Emanuele III fu
colpevole di avere non già provveduto alla stabilità della Monarchia e alla
successione dinastica, ma, per accomodamento, per quieto vivere, per
fiacchezza, compromesso l'una e l'altra con l'abbandonare prerogative che erano
non soltanto sue ma del suo popolo, come la successione ereditaria, e diritti e
doveri che lo Statuto gli assegnava e che egli lasciò esercitare a un
avventuriero, come la dichiarazione di guerra e il comando delle forze di terra
e di mare. Così avesse egli difeso le sorti della sua casa, «inseparabili»
(come in una solenne occasione aveva affermato) «da quelle della libertà».
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