NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

venerdì 16 aprile 2021

Io difendo la Monarchia cap X - 8

 


E a proposito della repubblica o del principato lo stesso autore avvertiva: «I sudditi di una repubblica poi: cioè quelli che non sono cittadini della dominante (nel nostro caso si può modificare la città capoluogo con il partito dominante), stanno peggio che quelli di un principe, perché la repubblica non fa parte alcuna della sua grandezza se non a' suoi cittadini opprimendo gli altri: il principe è più comune a tutti e ha ugualmente per 'suddito l'uno torne l'altro; però ognuno può sperare di essere beneficato e adoperato da lui». (1)

Nel 1868, su di una rivista bolognese, il prof. Angelo Camillo De Meis, di quella Università, pubblicava un articolo dal titolo: Il Sovrano.

L'articolo non piacque al Carducci che, sebbene collaboratore della stessa rivista e collega del De Meis, scrisse una noterella assai aspra nell'Amico del Popolo, giornale dell'Emilia per la «democrazia italiana». Alla noterella del Carducci replicò il prof. Fiorentino, calabrese, professore di storia della filosofia e amico del De Meis e poi ancora il Carducci e il De Meis. La polemica torna oggi assai attuale perché il divario di cultura, di temperamento, di condizioni sociali tra nord e sud è tornato, per effetto della guerra, delle due occupazioni straniere e della biennale separazione, assai forte e ci richiama col pensiero a quel primo periodo della nostra malferma unità.

Era il De Meis, in filosofia, un hegeliano e in politica un liberale: era Carducci nel periodo giacobino della sua attività di scrittore: tutto pieno dei fasti e dei miti della «grande rivoluzione». Il De Meis a un certo punto del suo saggio prendeva di mira i demagoghi. Egli diceva parlando dei demagoghi: «Le loro intenzioni sono generose e perfettamente disinteressate e sono innocenti del male che fanno... La colpa è della natura e più ancora della qualità della cultura e dell'indole astratta e punto moderna del loro sapere... Il demagogo non sa conoscere il progresso vero dell'apparente e falso; non sa, non può distinguere quale è il Sovrano da abbattere e quale, da rispettare; né può discernere qual sia il ministero da rovesciare e quale da appoggiare. Per lui sono tutti gli stessi: tutti i ministeri, tutti i governi e tutti i sovrani sono ugualmente da abbattere, nessuno da conservare. Astrazione è negazione. È nella natura delle cose...».

«Tale è la necessità naturale, e logica alla quale ubbidisce il demagogo. Ecco ora il metodo con il quale egli procede: Superficiale egli stesso, egli si volge alla gente superficiale e lieve, agli spiriti astratti e poco riflessivi; e quando gli par giunto il momento dell'azione poiché non ha presa sul popolo superiore, egli si accosta pian piano alla classe sensibile, scontenta del nuovo stato, che tutto fa contro al suo genio e gli impone troppo grave soma. Il demagogo la sobbilla e la lavora a sua fazione; e se gli riesce, getta a terra, col suo aiuto, il mediatore storico e si siede egli coi suoi consorti al timone dello Stato ».

Qui il De Meis prevedeva che contro il demagogo si sarebbe sollevato subito dopo, lo stesso popolo inferiore ed egli allora si sarebbe scagliato addosso al popolo superiore al modo di Fra Diavolo e di Chiavone. L'Italia non mancava allora di demagoghi e non ne manca oggi.

Non mancano mai - scriveva De Meis - Cleoni di buone viscere ». Epperciò egli concludeva con l'invocare un termine medio per far sì che la libertà resista e duri. Questo termine medio era allora per il De Meis, ed è ancora oggi per noi, unico e insostituibile, la Dinastia sabauda. Lo era allora per avere contribuito potentemente al riscatto della nazione, lo è oggi perché è l'unico centro, l'unica realtà che possa impedire lo scollamento dello Stato; possa avvicinare le parti diverse e contrastanti e conciliarle. Una repubblica democratica e parlamentare avrebbe potuto nascere dal perfezionamento dello Stato unitario e delle sue condizioni di civiltà e di cultura; non può derivare dall'ira, dalla vendetta, dall'arretramento e imbarbarimento del costume, in una parola dalla disfatta e dalla tutela, straniera. La Monarchia è una realtà che esiste e si può adattare: la repubblica è da fare e ognuno presume di farla a suo modo. Una repubblica imposta al sud e al centro dell'Italia, dal nord che già ebbe l'iniziativa del fascismo già fece una marcia su Roma, che insomma porta tutte le responsabilità della crisi storica che attraversiamo, non farebbe che aumentare le distanze ed esasperare le antitesi. Solo ritrovando e riconoscendo, una ideale e immateriale sovranità, gli italiani potranno ritrovare la libertà e l'indipendenza. In caso contrario potranno creare molte repubbliche e repubblichette, ma non riacquisteranno la libertà. Tutt'al più potranno aggiungere alla tirannia dei comitati e dei consigli la divisione della Patria e la servitù allo straniero. Come già avvenne nei molti secoli della loro travagliata storia.


(1) La Monarchia dei Savoia non viene attaccata dagli studiosi e dagli storici del partito d'azione se non perché questa Dinastia tenderebbe a conservarsi,, a superare le rivoluzioni e le guerre, insomma a perpetuarsi. Rispondeva a ciò il Croce a proposito di un libretto antisabaudo del Salvatorelli, con un articolo dal titolo; «Richiamo al buon metodo della storia» (Risorgimento Liberale, 14 ottobre 1944). In esso il Croce rimproverava al Salvatorelli di avere seguito lo stesso sistema del professore Cognasso che egli prende dl mira nella trattazione della storia sabauda. Dice particolarmente il Croce: Dal suo avversario gli è venuta anche, per imitazione e contrario, la trattazione storica convertita in un esame di ciò che si doveva fare, e che i conti, duchi e re di casa Savoia, da Umberto Biancamano a Vittorio Emanuele III, non fecero o fecero male o fecero in senso opposto al dovuto. Tutto il suo opuscolo è intessuto di queste forme di giudizi, vietati allo storico, e di frasi in cui abbondano i «se», i «si sarebbe potuto», e simili. Lo storico ben conosce che non è dato sostituire se stesso all'individuo che operò nelle individue condizioni di animo e nelle circostanze in cui di volta in volta, effettivamente ebbe a trovarsi; e non smarrisce mai l'assioma che, se colui si comportò come si comportò, non poteva altrimenti, e prova ne è che, nel fatto, non fece altrimenti. Lo storico non consiglia, e non rimprovera, per più efficacemente indirizzarli, uomini viventi, plastici, trasformabili, da persuadere o da intimidire per la più avveduta o la più giusta loro azione nell'avvenire; ma ha innanzi il passato, reso sacro dal suo carattere stesso di passato, voluto così da Dio o dallo spirito del mondo o (se ciò aggrada ai miei filosofici colleghi comunisti) dalla necessità dialettica della Materia. Il passato bisogna bensì intenderlo, ma non già presumere di censurarlo, né di somministrargli l'errata corrige. L'esecuzione stessa di questo errato schema si sarebbe presto fatta sentire al Salvatorelli disagevole e insostenibile nel fatto, se egli non possedesse, altresì in comune col suo avversario, un'idea che è un'immaginazione, contro la quale non ho mai tralasciato di mettere in guardia gli studiosi: quella di un'unitaria storia d'Italia nei secoli, protagonista la persona spirituale dell'Italia. Ma l'unità, d'Italia, e anche l'aspirazione effettiva all'unità statale, fu un avvenimento del secolo decimonono, nel quale tutti sanno la grande parte che ebbe Giuseppe Mazzini; e non è lecito assumerla a misura e criterio per i fatti di altre età, che ebbero altri problemi e si mossero in altre cerchie ideali e operative, e le cui persone erano Venezia, Firenze, Milano, Napoli, Sicilia, e via dicendo. Così il Salvatorelli accusa i principi di casa Savoia di non aver avuto di mira l'unità d'Italia, di aver negletto di lavorare a tal fine, e di averlo contrastato. Ma anche quando non c'era il problema dell'unità d'Italia, si poteva lavorare utilmente per la civiltà e preparare alla lontana e inconsapevolmente le forze per affrontare un giorno, allorché sarebbe sorto, il problema della unità nazionale, e gli altri che l'hanno seguito e lo seguiranno. E la casa di Savoia governò, soprattutto nel settecento e nell'ottocento, uno degli stati più saldamente costituiti tra quelli italiani, che per questa sua saldezza poté, al momento buono, farsi promotore dell'indipendenza e attuare intorno a sé l'unità d'Italia.

Non meno stridente che non sia con la sua narrazione storica (la quale dal secolo undecimo va fino al decimonono) è il tono mordace, acre, sarcastico, astioso, e, insomma, appassionato, del racconto del Salvatorelli quando egli giunge al secolo ventesimo e alla sciagurata contaminazione di quell'assai stimata monarchia col fascismo. Ciò che egli dice della responsabilità del Re Vittorio Emanuele III nel triste e vergognoso periodo ora chiuso della nostra vita nazionale, è stato gridato alto da noi, qui in Napoli prima che il Salvatorelli e i suoi compagni potessero liberamente muoversi e parlare. Ma noi appunto, nel dire quel che dicemmo, nell'esortare e nel premere perché il Re lasciasse il potere, come alla fine ottenemmo, facevamo politica e non già scrivevamo storia. Forse anche nella nostra indignazione per l'accaduto c'era, almeno in alcuni di noi, il senso doloroso dell'offesa che si era recata da un re dei Savoia a questa veneranda casa sovrana, la più antica di Europa, che noverava nove secoli di vita, ricchi di nobili e severe memorie, e che, quando noi eravamo giovani, aveva ispirato l'altissimo canto di Giosuè Carducci.

Un'ultima osservazione. Si avverte, nelle pagine del Salvatorelli, come un continuo sospetto e rimprovero che i Re di casa Savoia, o i Re in genere, dirigessero la loro politica nell'interesse della conservazione e salvazione della monarchia e della dinastia. Ma, se la Monarchia è la forma di uno stato, quale meraviglia che Re intenda conservarla e tenga in conto le necessità vitali di essa, giacche il suo vigore è pur necessario allo Stato e al popolo che essa governa? Tutto sta a non perdere, propter vitam vitae causas, e, per conservare la monarchia, a non sacrificare il bene pubblico, a non sacrificare il popolo che si regge: con che si perde, infine, la Monarchia stessa.

Così un esercito è fatto per difendere la Patria, ma insieme con ciò ha i suoi interessi proprii, di esercito, che non può servire la patria se prima non conserva se stesso, cioè non serve alle ragioni del suo organismo militare. Così gli scienziati servono alla patria fornendola di scienza, ma questa forza non potrebbero prestare alla patria se innanzi tutto non servissero agli interessi della scienza, della pura scienza, autonomi e distinti da quelli della patria, sebbene con esso unificabili. Non vedo perché i monarchi, che hanno a cuore la stabilità della monarchia e la successione del trono, debbano essere trattati peggio dei militari e degli scienziati, e sottomessi a un sospetto e a un discredito dal quale gli altri vanno esenti. In fondo, il Re Vittorio Emanuele III fu colpevole di avere non già provveduto alla stabilità della Monarchia e alla successione dinastica, ma, per accomodamento, per quieto vivere, per fiacchezza, compromesso l'una e l'altra con l'abbandonare prerogative che erano non soltanto sue ma del suo popolo, come la successione ereditaria, e diritti e doveri che lo Statuto gli assegnava e che egli lasciò esercitare a un avventuriero, come la dichiarazione di guerra e il comando delle forze di terra e di mare. Così avesse egli difeso le sorti della sua casa, «inseparabili» (come in una solenne occasione aveva affermato) «da quelle della libertà».


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