NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

lunedì 8 giugno 2020

L'agonia della scuola: abolire il valore legale del titolo di studio


di Aldo A. Mola


Questo governo “uccide l'uomo morto”. Ha inflitto un colpo fatale alla Scuola, già agonizzante, sia la pubblica sia la paritaria. Non muore la Scuola di questo o quel partito. Con la Scuola muore l'Italia. Segniamo “nigro lapillo” i nomi dei due “esecutori”: Giuseppe Conte, presidente del Consiglio dei ministri; Lucia Azzolina, ministro della Pubblica istruzione.

Ma che Stato è mai questo?
I fatti. Nei quattro mesi dalla deliberazione con la quale il 31 gennaio 2020 avocò poteri speciali per fronteggiare la diffusione del contagio da covid-19 il Governo, cioè lo Stato, ha fatto una cosa sola per la Scuola di ogni ordine e grado, dagli asili nido alle università: ha chiuso tutto dall'oggi al domani con un Decreto del presidente del Consiglio dei ministri, poi “assorbito” nel decreto-legge 8 aprile 2020, n. 22: misure urgenti sulla “regolare conclusione” dell'anno scolastico in corso, l'“ordinato avvio” di quello futuro e sullo svolgimento degli esami di Stato.
Due mesi dopo abbiamo alcune certezze.
In primo luogo, a differenza di tutti gli altri Paesi dell'Unione Europea, solo la Repubblica italiana non ha riaperto e non riapre le scuole neppure per un giorno. In quattro mesi nulla è stato fatto per ospitare scolari e studenti almeno per qualche ora. I giovani sono finalmente liberi di andare ovunque, “sanza meta”, tranne che a scuola. In cambio della forzata latitanza, tutti gli iscritti, inclusi quelli dell'anno conclusivo della scuola dell'obbligo (la cosiddetta terza media), sono automaticamente promossi all'anno successivo senza valutazione alcuna. Quelli dell'ultimo anno del quinquennio superiore affronteranno un esame la cui modalità a dieci giorni dal suo inizio rimangono labili per quanto attiene l'accertamento della loro effettiva preparazione scolastica. Al momento non si sa quante commissioni di esame risulteranno regolarmente insediate (presidente esterno e sei commissari interni) e se, pertanto, esse avranno i requisiti di legge.
Il punto è lì. Le Commissioni rilasciano diplomi che hanno valore legale per iscrizione alle Facoltà universitarie (con o senza numero chiuso e relative selezioni, mai come quest'anno discutibili) e per ogni altro utilizzo pubblico e privato. Sono titoli “di Stato”. Ma di quale Stato? L'interrogativo non si ferma sulla soglia del Palazzo di Viale Trastevere, né negli ambulacri di Palazzo Chigi. Arriva al Quirinale, perché i titoli di Stato (come onorificenze et similia) sono convalidati dall'emblema della Repubblica, impegnano il suo Capo, che anche sotto questo profilo è lontano successore di Vittorio Emanuele II di Savoia, primo Re d'Italia.

Tra metri quadri, classi e allievi non tornano Conte né Azzolina
In tutt'altre faccende affaccendato (anzitutto a sopravvivere alla crisi di credibilità, ormai prossima a deflagrare il presidente del Consiglio si è occupato del “decreto scuola” solo quando, molto tardivamente, ha capito che l'immagine sua (alla quale tiene più che a sé stesso) è compromessa agli occhi dei dieci e più milioni di famiglie coinvolte dal sistema scolastico, lasciato in abbandono per mesi. In famelica caccia di “consensi” Conte ha percepito che la Scuola non è “quantité négligéable à merci”. A sua volta Azzolina, forse vagamente consapevole che, senza alcuna prova scritta, in un'ora di vezzeggiante colloquio non si accerta affatto la preparazione disciplinare, ha suggerito ai commissari di domandare ai maturandi come abbiano vissuto l'emergenza e la chiusura delle lezioni: una stucchevole litania priva di valore scientifico.
Dal confronto di Conte e del ministro con “le parti” (sindacati della scuola, di cui Azzolina risulterebbe esperta essendone stata militante) sono emerse alcune altre certezze degne di attenzione. In primo luogo (come in questa sede ampiamente segnalato) a ormai meno di tre mesi dal 1° settembre, data d’inizio formale dell'anno scolastico venturo (compresi i “contratti” con i “precari”: da segnalare a Bellanova, ministra dell'Italia sedicente Viva), Governo e Ministero della Pubblica istruzione non hanno alcun progetto chiaro sul suo “ordinato avvio”.
Azzolina ha archiviato drasticamente il piano abborracciato dal “suo” comitato tecnico presieduto da un altrimenti ignoto prof. Bianchi (non sappiamo se per un residuo scatto di dignità questi si sia immediatamente dimesso da ogni incarico o se si tratti solo di un gioco ai quattro cantoni). Ha promesso un po' di quattrini ai sindaci, da elevare a “commissari” per gli interventi urgenti in vista della “ripresa”: un ventaglio vastissimo. Scartata l'ipotesi di doppi turni generalizzati, di ingressi scaglionati per classi (che richiederebbero un'intera mattina per edifici sciaguratamente edificati con strutture “verticali”, su quattro-cinque piani e con ascensori da sempre inadeguati per numero e capienza) e di “spacchettare” le classi (metà in aula, metà collegata via internet: un pasticciaccio impraticabile), la ministra ha affacciato alcune spassose proposte.
Poiché l'Esecutivo lamenta di essere bersaglio di polemiche aprioristiche, per quanto superfluo esse vanno sommariamente menzionate. In merito al rapporto aule/classi ha tacitamente preso atto che si tratta di una realtà non variabile a capriccio. I metri quadrati sono quelli e quelli saranno. Le classi non sono verdure per insalata russa, da prendere e redistribuire “secondo quanto basta” ma gruppi di “persone” o, se si preferisce, “cittadini”: una somma di esperienze umane, di “sentimenti”, da rispettare, a meno di ricorrere ai metodi cinesi così cari a tanta parte del governo Conte e dei parlamentari che ne costituiscono la palafitta (Leu, Democratici e Cinque stelle), miscuglio di fanatici di estrema sinistra e di analfabeti totali.
Mentre per motivi “storici” una buona metà degli edifici scolastici non è “a norma” e spesso versa in condizioni deplorevoli, anziché pensare a lezioni in sedi esterne (musei, teatri, parchi..., come in primo tempo ventilato), la ministra prospetta di moltiplicare tensostrutture e interventi “leggeri” (cartongesso? cortine di bambù? tettoie in lamiera o recuperate da discariche di amianto?) nelle adiacenze degli edifici esistenti, ma sempre all'interno degli spazi di loro competenza. Forse ignora che la maggior parte degli “istituti” manca di palestre, giardini, parcheggi almeno per il personale tenuto a rimanervi 36 ore alla settimana (dirigenti e amministrativi), per non parlare dei docenti. Essa trascura altresì che, a differenza della sua nativa Siracusa, il clima della maggior parte dei comuni d'Italia da ottobre ad aprile (cioè per otto mesi sui nove dell'anno scolastico vero) non è affatto propizio all'utilizzo di “locali” privi di adeguato riscaldamento e di servizi igienici collegati alla rete idrica e fognaria.
Di concerto con l'astuto presidente Conte, la ministra mira a scaricare nelle mani dei sindaci la patata bollente della predisposizione di spazi scolastici improvvisati ma al tempo stesso “a norma”. Un tiro mancino beffardo, giacché comporta l'azzeramento delle procedure di legge e quindi espone a verifiche, ricorsi e infine a denunce per le prevedibili ricadute negative sulla salute degli utenti, a cominciare dai bambini. Non solo. In questa Repubblica che fa trascorrere mesi e a volte anni prima di rilasciare una banalissima licenza edilizia per nuova costruzione o ristrutturazione, che mette mille “paletti” di traverso alla loro realizzazione, sottoposta al vaglio di una serqua di commissioni comunali, provinciali, regionali e che costringe all'abuso edilizio per risolvere le urgenze indifferibili, vedremo se i sindaci saranno disposti a fare gli “eroi” o gli “angeli” per conto del governo scaricabarile (quanta melensa retorica viene impiegata per nascondere le magagne del cattivo funzionamento delle istituzioni pubbliche, a cominciare dalla sanità) o chiederanno “poteri speciali”, a cominciare, quindi, dal conferimento di lavori senza gare d'appalto e, ciò che più conta, senza l’acquisizione a bilancio delle somme necessarie.
L'effettivo trasferimento di fondi dall'amministrazione centrale a quelle periferiche e lo stallo dell'esecuzione della montagna di opere pubbliche già deliberate e “coperte” da appositi stanziamenti non inducono affatto all'ottimismo. Il presidente Conte non è minimamente credibile quando assicura che verrà snellita la burocrazia: un ritornello scandito da tutti i governi precedenti e salmodiato da quello in carica, che si è prodotto in decine di decreti-legge e di DPCM, con la moltiplicazione di decreti, ordinanze, circolari attuative, cui si sono aggiunti analoghi provvedimenti di regioni e comuni sulle materie più disparate. Il caos, altro che semplificazione.

Fatti non foste a viver come elmuti
Dagli edifici passando agli studenti, la ministra (non sappiamo quanto in perfetta intesa con Sua Emergenza Conte) con uno dei molti “potremmo” e “vorremmo” con i quali condisce la sua impotenza (“cento vorrei non fanno un voglio”) pare orientata a scartare l'imposizione a scolari e studenti di mascherine dall'utilità e validità più che dubbia (andrebbero sostituite, e quindi “cestinate”, a metà mattina...) con “visiere”. Per essere efficaci, queste dovrebbero coprire dalla nuca al mento. In concreto ogni studente di ambo i sessi dalle elementari ai 18/19 anni dovrebbe prendere posto in file di banchi separate da paratie di plexiglass e calcare sul capo una visiera in plastica o chissà cosa: la caricatura dell'Elmo di Scipio...
Questo fantasma era già stato affacciato per isolare gli spazi di un ombrellone e due lettini negli stabilimenti balneari: ipotesi folle, bocciata perché avrebbe ridotto a caldarroste gli aspiranti bagnanti. La domanda doverosa è: su quali basi sanitarie e sulla scorta di quali sperimentazioni viene ora prospettato il combinato disposto paratie di plexiglas/caschi di chissà che? (attendiamo aggiornamenti dal cantilenante Arcuri Domenico). A parte lo spirito di Aladino e il proprio specchio, il ministro Azzolina ha mai consultato al riguardo un genitore, un pediatra, uno psicologo? Ha provato a far indossare visiere a una classe “in carne ed ossa”? Il Ministero si è interrogato sulle ripercussioni della sua “invenzione” sul rapporto allievo/allievo, allievo/docente e sulla sua ricaduta sull'apprendimento?
Con ogni evidenza questo Governo vaga nel bosco incantato dell'improvvisazione perpetua. A tutto danno della credibilità non solo sua, del presidente Conte (di cui poco ci cale), del di costui portavoce/suggeritore e dei ministri ma, va detto una volta per tutte, dello Stato, e quindi, fatalmente, del suo Capo.

Quando lo Stato c'era...
La Pubblica Istruzione in Italia non è una variabile dipendente dall'Esecutivo. È un dovere dello Stato: un dovere, diciamolo, scritto sia pure in maniera assai confusa nella “Carta più bella del mondo”. Lo Statuto albertino non parlava di Scuola, ma il regno di Sardegna e quello d'Italia ebbero all'Istruzione ministri di prim'ordine, da Carlo Boncompagni e Carlo Cadorna a Gabrio Casati (che dette il nome alla celebre legge del 1859), da Francesco De Sanctis e Michele Coppino sino a Benedetto Croce, titolare dell'Istruzione esattamente cento anni fa nel V Governo Giolitti, e poi Giovanni Gentile, che davvero non meritava di essere vilmente assassinato nei modi oscuri indagati da Luciano Mecacci nel poderoso volume “La Ghirlanda fiorentina e la morte di Giovanni Gentile” (Adelphi), che meritò il Premio Acqui Storia, suscitando dispute meschine.
La Scuola venne intesa quale corpo della Nazione. Come è avvenuto sino a ieri, tra i suoi banchi sono nate amicizie e “affetti durevoli” destinati a perpetuarsi per la vita intera. Lì nascevano emulazioni del tutto positive. Durò sino alla nefasta crisi del 1967 e al devastante “sessantottismo” dei vari Mario Capanna e di quanto ne seguì. L'associazionismo universitario, che aveva alle spalle la gloriosa Corda Fratres, fu palestra della dirigenza politica, come attestano gli studi di Giovanni Orsina e di Marco Albera. Tra altri, lì si formarono Paolino Ungari e Marco Pannella.

La trincea avanzata dei tablet: battaglia mai ingaggiata
In sintesi, l'anno scolastico 2019-2020 finisce nel peggiore dei modi.
Mentre Azzolina, clone perfetto di Sua Emergenza Conte, mira a rendere gli allievi atomi incomunicanti, nessuno sa prevedere quando e come otto milioni di scolari e di studenti torneranno effettivamente in aula, né, meno ancora, per farci cosa, con centomila cattedre vuote e l'imminenza del consueto degrado degli edifici scolastici a seggi per elezioni regionali, comunali e referendum.
Tra marzo e settembre questo inutile governo ha avuto ed ha a disposizione tempo, modi e, se richiesti, mezzi per affrontare la partita vera, anticipando i fondi da mettere in conto MES: acquistare tutti i tablet necessari ad assicurare parità tra gli allievi di tutti i Comuni d'Italia, fornire gli istituti dei fondi per predisporre server decenti in assenza della “banda larga” (che si guarda e si guarderà bene da raggiungere aree poco profittevoli) e organizzare corsi per genitori e studenti non ancora alfabetizzati all'uso dell'informatica. Questa era la grande partita, la sfida da vincere.
A settembre saremo nuovamente all'anno zero.

I docenti peggio pagati d'Europa
Ma se la Scuola oggi precipita nel baratro non è solo colpa del ministro in carica, né di un governo che si regge su una maggioranza parlamentare asimmetrica rispetto all'opinione nazionale. Cinque Stelle, democratici, Leu e Italia Viva hanno come unico cerotto il terrore di doversi ripresentare alle urne. Ma non è questo il tema. In Italia la Scuola è agonizzante da quando è stata messa tra i titoli finali dei governi ispirati dall’ideologia catto-comunista imperversante dall'eclissi della cultura liberalsocialista che ebbe tra i suoi propugnatori il cattolico liberale Francesco Cossiga. Una mazzata le venne inflitta da Luigi Berlinguer. Superfluo qui ricordarne le “imprese”. Basti, fra altro, lo sconvolgimento dei programmi di storia e l'appalto dell'aggiornamento dei docenti agli istituti di storia della resistenza, fondati per “ragione sociale” sull’apologia di un segmento della storia nazionale.
In secondo luogo vi fu l'avvilimento della docenza, umiliata da retribuzioni mortificanti. Sommato lo stipendio base, il contributo fisso e il variabile, in Italia la retribuzione degli insegnanti è “piatta”: dai 30.000 dollari a inizio carriera ai 44 finali. In Francia si passa invece da 30 a 57.000 dollari, in Belgio da 37 a 65.000; in Germania da 42 e 72.000; in Spagna da 40 a 57.000; in Svizzera da 54 a 82.000 dollari... E nell'ammiratissima Corea del Sud? Da 32 mila dollari iniziali a 90 alla vigilia della pensione. All'estero viene premiato il merito. In Italia l'indolenza. I docenti percepiscono un salario pari a quello di un “operaio”, con la differenza che i primi debbono avere una laurea. Gli altri si specializzano, si aggiornano e guadagneranno di più. I “professori” stagnano in una palude mefitica. Governi fa venne loro concessa una mancia di 500 euro l'anno per acquisti di prima necessità… didattica. Con tutto il rispetto, perciò in Italia  l'insegnamento venne e viene considerato un mestiere sottopagato per un lavoro apparente, tagliato per chi proprio non ha meglio da fare.

Abolire il valore legale del titolo di studio
Conte e Azzolina uccidono l'uomo morto.
Sic stantibus rebus non resta che tornare al mònito di Luigi Einaudi: abolire il valore legale dei titoli di studio. Poiché non prende sul serio la Scuola, lo Stato non può pretendere che abbiano valore i diplomi dispensati lippis et tonsoribus solo per esistenza in vita, come accade nell’anno sciagurato 2020. Ma anche a questo riguardo il peggio ha da venire...

Aldo A. Mola

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