Questo governo “uccide l'uomo morto”. Ha
inflitto un colpo fatale alla Scuola, già agonizzante, sia la pubblica sia la
paritaria. Non muore la Scuola di questo o quel partito. Con la Scuola muore
l'Italia. Segniamo “nigro lapillo” i nomi dei due “esecutori”: Giuseppe Conte,
presidente del Consiglio dei ministri; Lucia Azzolina, ministro della Pubblica
istruzione.
Ma che Stato è mai questo?
I fatti. Nei quattro mesi dalla deliberazione
con la quale il 31 gennaio 2020 avocò poteri speciali per fronteggiare la
diffusione del contagio da covid-19 il Governo, cioè lo Stato, ha fatto una
cosa sola per la Scuola di ogni ordine e grado, dagli asili nido alle
università: ha chiuso tutto dall'oggi al domani con un Decreto del presidente
del Consiglio dei ministri, poi “assorbito” nel decreto-legge 8 aprile 2020, n.
22: misure urgenti sulla “regolare conclusione” dell'anno scolastico in corso,
l'“ordinato avvio” di quello futuro e sullo svolgimento degli esami di Stato.
Due mesi dopo abbiamo alcune certezze.
In primo luogo, a differenza di tutti gli altri
Paesi dell'Unione Europea, solo la Repubblica italiana non ha riaperto e non
riapre le scuole neppure per un giorno. In quattro mesi nulla è stato fatto per
ospitare scolari e studenti almeno per qualche ora. I giovani sono finalmente
liberi di andare ovunque, “sanza meta”, tranne che a scuola. In cambio della
forzata latitanza, tutti gli iscritti, inclusi quelli dell'anno conclusivo
della scuola dell'obbligo (la cosiddetta terza media), sono automaticamente
promossi all'anno successivo senza valutazione alcuna. Quelli dell'ultimo anno
del quinquennio superiore affronteranno un esame la cui modalità a dieci giorni
dal suo inizio rimangono labili per quanto attiene l'accertamento della loro
effettiva preparazione scolastica. Al momento non si sa quante commissioni di
esame risulteranno regolarmente insediate (presidente esterno e sei commissari
interni) e se, pertanto, esse avranno i requisiti di legge.
Il punto è lì. Le Commissioni rilasciano
diplomi che hanno valore legale per iscrizione alle Facoltà universitarie (con
o senza numero chiuso e relative selezioni, mai come quest'anno discutibili) e
per ogni altro utilizzo pubblico e privato. Sono titoli “di Stato”. Ma di quale
Stato? L'interrogativo non si ferma sulla soglia del Palazzo di Viale
Trastevere, né negli ambulacri di Palazzo Chigi. Arriva al Quirinale, perché i
titoli di Stato (come onorificenze et similia) sono convalidati dall'emblema
della Repubblica, impegnano il suo Capo, che anche sotto questo profilo è
lontano successore di Vittorio Emanuele II di Savoia, primo Re d'Italia.
Tra metri quadri, classi e allievi non tornano
Conte né Azzolina
In tutt'altre faccende affaccendato (anzitutto
a sopravvivere alla crisi di credibilità, ormai prossima a deflagrare il
presidente del Consiglio si è occupato del “decreto scuola” solo quando, molto
tardivamente, ha capito che l'immagine sua (alla quale tiene più che a sé
stesso) è compromessa agli occhi dei dieci e più milioni di famiglie coinvolte
dal sistema scolastico, lasciato in abbandono per mesi. In famelica caccia di
“consensi” Conte ha percepito che la Scuola non è “quantité négligéable à
merci”. A sua volta Azzolina, forse vagamente consapevole che, senza alcuna
prova scritta, in un'ora di vezzeggiante colloquio non si accerta affatto la
preparazione disciplinare, ha suggerito ai commissari di domandare ai maturandi
come abbiano vissuto l'emergenza e la chiusura delle lezioni: una stucchevole
litania priva di valore scientifico.
Dal confronto di Conte e del ministro con “le
parti” (sindacati della scuola, di cui Azzolina risulterebbe esperta essendone stata
militante) sono emerse alcune altre certezze degne di attenzione. In primo
luogo (come in questa sede ampiamente segnalato) a ormai meno di tre mesi dal
1° settembre, data d’inizio formale dell'anno scolastico venturo (compresi i
“contratti” con i “precari”: da segnalare a Bellanova, ministra dell'Italia
sedicente Viva), Governo e Ministero della Pubblica istruzione non hanno alcun
progetto chiaro sul suo “ordinato avvio”.
Azzolina ha archiviato drasticamente il piano
abborracciato dal “suo” comitato tecnico presieduto da un altrimenti ignoto
prof. Bianchi (non sappiamo se per un residuo scatto di dignità questi si sia
immediatamente dimesso da ogni incarico o se si tratti solo di un gioco ai
quattro cantoni). Ha promesso un po' di quattrini ai sindaci, da elevare a
“commissari” per gli interventi urgenti in vista della “ripresa”: un ventaglio
vastissimo. Scartata l'ipotesi di doppi turni generalizzati, di ingressi
scaglionati per classi (che richiederebbero un'intera mattina per edifici
sciaguratamente edificati con strutture “verticali”, su quattro-cinque piani e
con ascensori da sempre inadeguati per numero e capienza) e di “spacchettare”
le classi (metà in aula, metà collegata via internet: un pasticciaccio
impraticabile), la ministra ha affacciato alcune spassose proposte.
Poiché l'Esecutivo lamenta di essere bersaglio
di polemiche aprioristiche, per quanto superfluo esse vanno sommariamente
menzionate. In merito al rapporto aule/classi ha tacitamente preso atto che si
tratta di una realtà non variabile a capriccio. I metri quadrati sono quelli e
quelli saranno. Le classi non sono verdure per insalata russa, da prendere e
redistribuire “secondo quanto basta” ma gruppi di “persone” o, se si
preferisce, “cittadini”: una somma di esperienze umane, di “sentimenti”, da
rispettare, a meno di ricorrere ai metodi cinesi così cari a tanta parte del
governo Conte e dei parlamentari che ne costituiscono la palafitta (Leu,
Democratici e Cinque stelle), miscuglio di fanatici di estrema sinistra e di
analfabeti totali.
Mentre per motivi “storici” una buona metà
degli edifici scolastici non è “a norma” e spesso versa in condizioni
deplorevoli, anziché pensare a lezioni in sedi esterne (musei, teatri,
parchi..., come in primo tempo ventilato), la ministra prospetta di moltiplicare
tensostrutture e interventi “leggeri” (cartongesso? cortine di bambù? tettoie
in lamiera o recuperate da discariche di amianto?) nelle adiacenze degli
edifici esistenti, ma sempre all'interno degli spazi di loro competenza. Forse
ignora che la maggior parte degli “istituti” manca di palestre, giardini,
parcheggi almeno per il personale tenuto a rimanervi 36 ore alla settimana
(dirigenti e amministrativi), per non parlare dei docenti. Essa trascura
altresì che, a differenza della sua nativa Siracusa, il clima della maggior
parte dei comuni d'Italia da ottobre ad aprile (cioè per otto mesi sui nove
dell'anno scolastico vero) non è affatto propizio all'utilizzo di “locali”
privi di adeguato riscaldamento e di servizi igienici collegati alla rete idrica
e fognaria.
Di concerto con l'astuto presidente Conte, la
ministra mira a scaricare nelle mani dei sindaci la patata bollente della
predisposizione di spazi scolastici improvvisati ma al tempo stesso “a norma”.
Un tiro mancino beffardo, giacché comporta l'azzeramento delle procedure di
legge e quindi espone a verifiche, ricorsi e infine a denunce per le
prevedibili ricadute negative sulla salute degli utenti, a cominciare dai
bambini. Non solo. In questa Repubblica che fa trascorrere mesi e a volte anni
prima di rilasciare una banalissima licenza edilizia per nuova costruzione o
ristrutturazione, che mette mille “paletti” di traverso alla loro
realizzazione, sottoposta al vaglio di una serqua di commissioni comunali,
provinciali, regionali e che costringe all'abuso edilizio per risolvere le
urgenze indifferibili, vedremo se i sindaci saranno disposti a fare gli “eroi”
o gli “angeli” per conto del governo scaricabarile (quanta melensa retorica
viene impiegata per nascondere le magagne del cattivo funzionamento delle
istituzioni pubbliche, a cominciare dalla sanità) o chiederanno “poteri
speciali”, a cominciare, quindi, dal conferimento di lavori senza gare
d'appalto e, ciò che più conta, senza l’acquisizione a bilancio delle somme
necessarie.
L'effettivo trasferimento di fondi
dall'amministrazione centrale a quelle periferiche e lo stallo dell'esecuzione
della montagna di opere pubbliche già deliberate e “coperte” da appositi
stanziamenti non inducono affatto all'ottimismo. Il presidente Conte non è
minimamente credibile quando assicura che verrà snellita la burocrazia: un
ritornello scandito da tutti i governi precedenti e salmodiato da quello in
carica, che si è prodotto in decine di decreti-legge e di DPCM, con la
moltiplicazione di decreti, ordinanze, circolari attuative, cui si sono
aggiunti analoghi provvedimenti di regioni e comuni sulle materie più
disparate. Il caos, altro che semplificazione.
Fatti non foste a viver come elmuti
Dagli edifici passando agli studenti, la
ministra (non sappiamo quanto in perfetta intesa con Sua Emergenza Conte) con
uno dei molti “potremmo” e “vorremmo” con i quali condisce la sua impotenza
(“cento vorrei non fanno un voglio”) pare orientata a scartare l'imposizione a
scolari e studenti di mascherine dall'utilità e validità più che dubbia
(andrebbero sostituite, e quindi “cestinate”, a metà mattina...) con “visiere”.
Per essere efficaci, queste dovrebbero coprire dalla nuca al mento. In concreto
ogni studente di ambo i sessi dalle elementari ai 18/19 anni dovrebbe prendere
posto in file di banchi separate da paratie di plexiglass e calcare sul capo
una visiera in plastica o chissà cosa: la caricatura dell'Elmo di Scipio...
Questo fantasma era già stato affacciato per
isolare gli spazi di un ombrellone e due lettini negli stabilimenti balneari:
ipotesi folle, bocciata perché avrebbe ridotto a caldarroste gli aspiranti
bagnanti. La domanda doverosa è: su quali basi sanitarie e sulla scorta di
quali sperimentazioni viene ora prospettato il combinato disposto paratie di
plexiglas/caschi di chissà che? (attendiamo aggiornamenti dal cantilenante
Arcuri Domenico). A parte lo spirito di Aladino e il proprio specchio, il
ministro Azzolina ha mai consultato al riguardo un genitore, un pediatra, uno
psicologo? Ha provato a far indossare visiere a una classe “in carne ed ossa”?
Il Ministero si è interrogato sulle ripercussioni della sua “invenzione” sul
rapporto allievo/allievo, allievo/docente e sulla sua ricaduta
sull'apprendimento?
Con ogni evidenza questo Governo vaga nel bosco
incantato dell'improvvisazione perpetua. A tutto danno della credibilità non
solo sua, del presidente Conte (di cui poco ci cale), del di costui
portavoce/suggeritore e dei ministri ma, va detto una volta per tutte, dello
Stato, e quindi, fatalmente, del suo Capo.
Quando lo Stato c'era...
La Pubblica Istruzione in Italia non è una
variabile dipendente dall'Esecutivo. È un dovere dello Stato: un dovere,
diciamolo, scritto sia pure in maniera assai confusa nella “Carta più bella del
mondo”. Lo Statuto albertino non parlava di Scuola, ma il regno di Sardegna e
quello d'Italia ebbero all'Istruzione ministri di prim'ordine, da Carlo
Boncompagni e Carlo Cadorna a Gabrio Casati (che dette il nome alla celebre
legge del 1859), da Francesco De Sanctis e Michele Coppino sino a Benedetto
Croce, titolare dell'Istruzione esattamente cento anni fa nel V Governo
Giolitti, e poi Giovanni Gentile, che davvero non meritava di essere vilmente
assassinato nei modi oscuri indagati da Luciano Mecacci nel poderoso volume “La
Ghirlanda fiorentina e la morte di Giovanni Gentile” (Adelphi), che meritò il
Premio Acqui Storia, suscitando dispute meschine.
La Scuola venne intesa quale corpo della
Nazione. Come è avvenuto sino a ieri, tra i suoi banchi sono nate amicizie e
“affetti durevoli” destinati a perpetuarsi per la vita intera. Lì nascevano
emulazioni del tutto positive. Durò sino alla nefasta crisi del 1967 e al
devastante “sessantottismo” dei vari Mario Capanna e di quanto ne seguì.
L'associazionismo universitario, che aveva alle spalle la gloriosa Corda
Fratres, fu palestra della dirigenza politica, come attestano gli studi di
Giovanni Orsina e di Marco Albera. Tra altri, lì si formarono Paolino Ungari e
Marco Pannella.
La trincea avanzata dei tablet: battaglia mai
ingaggiata
In sintesi, l'anno scolastico 2019-2020 finisce
nel peggiore dei modi.
Mentre Azzolina, clone perfetto di Sua
Emergenza Conte, mira a rendere gli allievi atomi incomunicanti, nessuno sa
prevedere quando e come otto milioni di scolari e di studenti torneranno effettivamente
in aula, né, meno ancora, per farci cosa, con centomila cattedre vuote e
l'imminenza del consueto degrado degli edifici scolastici a seggi per elezioni
regionali, comunali e referendum.
Tra marzo e settembre questo inutile governo ha
avuto ed ha a disposizione tempo, modi e, se richiesti, mezzi per affrontare la
partita vera, anticipando i fondi da mettere in conto MES: acquistare tutti i
tablet necessari ad assicurare parità tra gli allievi di tutti i Comuni
d'Italia, fornire gli istituti dei fondi per predisporre server decenti in
assenza della “banda larga” (che si guarda e si guarderà bene da raggiungere
aree poco profittevoli) e organizzare corsi per genitori e studenti non ancora
alfabetizzati all'uso dell'informatica. Questa era la grande partita, la sfida
da vincere.
A settembre saremo nuovamente all'anno zero.
I docenti peggio pagati d'Europa
Ma se la Scuola oggi precipita nel baratro non
è solo colpa del ministro in carica, né di un governo che si regge su una
maggioranza parlamentare asimmetrica rispetto all'opinione nazionale. Cinque
Stelle, democratici, Leu e Italia Viva hanno come unico cerotto il terrore di
doversi ripresentare alle urne. Ma non è questo il tema. In Italia la Scuola è
agonizzante da quando è stata messa tra i titoli finali dei governi ispirati
dall’ideologia catto-comunista imperversante dall'eclissi della cultura
liberalsocialista che ebbe tra i suoi propugnatori il cattolico liberale
Francesco Cossiga. Una mazzata le venne inflitta da Luigi Berlinguer. Superfluo
qui ricordarne le “imprese”. Basti, fra altro, lo sconvolgimento dei programmi
di storia e l'appalto dell'aggiornamento dei docenti agli istituti di storia
della resistenza, fondati per “ragione sociale” sull’apologia di un segmento
della storia nazionale.
In secondo luogo vi fu l'avvilimento della
docenza, umiliata da retribuzioni mortificanti. Sommato lo stipendio base, il
contributo fisso e il variabile, in Italia la retribuzione degli insegnanti è
“piatta”: dai 30.000 dollari a inizio carriera ai 44 finali. In Francia si
passa invece da 30 a 57.000 dollari, in Belgio da 37 a 65.000; in Germania da
42 e 72.000; in Spagna da 40 a 57.000; in Svizzera da 54 a 82.000 dollari... E
nell'ammiratissima Corea del Sud? Da 32 mila dollari iniziali a 90 alla vigilia
della pensione. All'estero viene premiato il merito. In Italia l'indolenza. I
docenti percepiscono un salario pari a quello di un “operaio”, con la
differenza che i primi debbono avere una laurea. Gli altri si specializzano, si
aggiornano e guadagneranno di più. I “professori” stagnano in una palude
mefitica. Governi fa venne loro concessa una mancia di 500 euro l'anno per
acquisti di prima necessità… didattica. Con tutto il rispetto, perciò in
Italia l'insegnamento venne e viene
considerato un mestiere sottopagato per un lavoro apparente, tagliato per chi
proprio non ha meglio da fare.
Abolire il valore legale del titolo di studio
Conte e Azzolina uccidono l'uomo morto.
Sic stantibus rebus non resta che tornare al
mònito di Luigi Einaudi: abolire il valore legale dei titoli di studio. Poiché
non prende sul serio la Scuola, lo Stato non può pretendere che abbiano valore
i diplomi dispensati lippis et tonsoribus solo per esistenza in vita, come
accade nell’anno sciagurato 2020. Ma anche a questo riguardo il peggio ha da
venire...
Aldo A. Mola
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