6. Né
maggior pregio può riconoscersi ad un'altra argomentazione che si vorrebbe
trarre dall'art. 17, e cioè che nel primo comma di detta disposizione sarebbe
indicato compiutamente il modo per giungere alla proclamazione dei risultati
del referendum e che quindi esso sarebbe limitato al computo delle due somme
dei voti attribuiti rispettivamente alla Repubblica o alla Monarchia,
prescindendo quindi tanto dal numero dei votanti quanto dal numero dei voti
nulli.
In
questa argomentazione in vero si annidano almeno un difetto di interpretazione
letterale, nonché un difetto di interpretazione logica. Vi è un difetto in
interpretazione letterale, perché alla disposizione vuole darsi il senso che il
risultato dei referendum è costituito dalla somma dei voti attribuiti
rispettivamente alle due forme istituzionali. La legge però non dice questo, e
vedremo fra un momento che non avrebbe potuto neanche dirlo. La legge infatti,
stando esclusivamente alla sua lettera, nel I° comma dell'art. 17 descrive non
una ma due distinte operazioni: l'una quando dice che la Corte « procede alla
somma dei voti attribuiti alla Repubblica e di quelli attribuiti alla Monarchia
in tutti i collegi»: l'altra, successiva distinta e diversa ove dice che la
Corte «fa la proclamazione dei risultati del referendum». La prima operazione è
il presupposto della seconda, presupposto evidentemente necessario, ma non
unico, per la stessa diversità della seconda operazione non più di natura
matematica, ma di natura giuridica. E ciò è chiaro proprio da un raffronto con
la locuzione corrispondente usata nel precedente art. 16, dove è detto che
l'Ufficio circoscrizionale centrale «effettua» la somma dei voti validi e ne dà
atto, nell'art. 17 invece, premesso che la Corte « procede alla somma dei voti
attribuiti » successivamente si dice che essa « fa la proclamazione dei
risultati del referendum». Risultati quindi, non delle somme, ma del referendum
nel suo complesso.
7. Ad
ogni modo, se le esposte considerazioni relative alla lettera della legge già
ostano alla contraria tesi, questa è maggiormente contrastata da considerazioni
di natura razionale.
Invero,
sostenendosi che l'art. 17, menzionando solo le due somme dei voti
rispettivamente attribuiti alle due forme istituzionali avrebbe così anche
compiutamente indicati gli elementi necessari per il calcolo di maggioranza, si
cade nell'errore di ritenere che il calcolo di maggioranza sia un rapporto
matematico corrente tra due soli numeri. Ciò è inesatto, perché detto calcolo
si basa come minimo su tre numeri. Maggioranza, in vero, indica la parte
maggiore (pars maior) di un numero, e quindi essa presuppone non solo una
minoranza (pars minor) cioè la parte minore di un numero, ma anche e
necessariamente presuppone il numero intero del quale il primo e il secondo
numero sono le parti. Questi tre numeri sono i necessari ed irriducibili
elementi che devono concorrere sempre per un calcolo di maggioranza. Non è
possibile concepire maggioranza senza l'esistenza di una minoranza e, dà che
più importa, non è possibile concepire né l'una né l'altra, che sono entità
frazionarie, senza l'esistenza di un numero totale del quale esse sono
rispettivamente parte maggiore e parte minore.
Ciò
chiarito, risulta evidente che l'art. 17, limitandosi a richiamare il numero
dei voti attribuiti alla Repubblica e il numero dei voti attribuiti alla
Monarchia, non indica tutti gli elementi necessari per il calcolo di
maggioranza, perché non fa alcun cenno proprio del numero più importante, cioè
di quello al quale i due numeri frazionari devono essere rapportati.
Secondo
la contraria tesi, questo numero in definitiva sarebbe costituito dal totale di
voti validi. Interessa subito chiarire che ciò non è detto nell'art. 17,
assolutamente muto circa la determinazione del numero sul quale il calcolo di
maggioranza deve essere effettuato. Secondo i più semplici principi di
ermeneutica, nel silenzio dell'art. 17, l'interprete deve ricercare se la legge
stessa indichi questo numero totale in un'altra sua norma. In tal caso, per
l'unità sistematica della legge, la questione sarebbe testualmente risolta.
Tale
norma esiste ed è costituita dall'art. 2 del decreto n. 98, per cui il numero
totale è indicato in quello degli elettori «votanti».
8. Che
l'art. 2 citato sia applicabile, non sembra seriamente dubitabile. Esso
disciplina la stessa materia, con riguardo esplicito proprio al risultato del
referendum.
In
contrario però si è osservato che detto art. 2 non avrebbe invece valore
decisivo, perché suo diretto oggetto sarebbe la nomina del Capo provvisorio
dello Stato ed il riferimento della maggioranza dei votanti sarebbe solo di
natura descrittiva ed incidentale, come si evincerebbe dall'avverbio «qualora».
L'argomento,
in verità, non può aversi per buono? La svalutazione della norma, che con esso
si tenta, sarebbe logica solo se in altra disposizione la legge determinasse in
modo più diretto il numero totale al quale la maggioranza deve essere
rapportata. Ma escluso, come abbiamo visto, che in proposito alcun criterio sia
espresso all'art. 17 del decreto n. 219, risulta chiaro il valore decisivo che
deve riconoscersi al citato art. 2, che, sia pure incidentalmente, tuttavia sempre
chiaramente indica la volontà del legislatore di seguire il criterio della
maggioranza degli «elettori votanti».
Ma, anche
ammessa l'applicabilità dell'art. 2, si è ritenuto di poter ulteriormente
obiettare che « votante » può considerarsi solo colui che esprime un voto. e
che quindi, se la scheda è bianca, o il voto è nullo, in realtà mancherebbe il
voto inteso in senso giuridico e conseguentemente chi lo ha espresso, solo apparentemente
può sembrare un votante, ma egli non lo è sostanzialmente.
L'obiezione, in
verità, si lascia agevolmente confutare.
Innanzi
tutto può osservasi non essere esatto che dalla qualificazione giuridica del
voto dipende la qualificazione giuridica del votante; all'inverso ben può
sostenersi, che invece il concorso dei requisiti per votare ed il rispetto
delle formalità di esercizio del voto (art. 39 e 42 del decreto n. 74) e quindi
in definitiva la valida assunzione della qualifica di votante, costituisce il
necessario antecedente della giuridica validità del voto, e non la conseguenza
di' questa.
Ma, a
parte ciò, ed anche avendo per buona la cennata obiezione, ad essa al massimo
potrebbe conseguirsi solo che il termine «votante» può essere inteso in due
diversi significati, e cioè in quello di «votante in senso formale», ed anche
in quello «di votante in senso sostanziale». Con ciò rimangono impregiudicate
le argomentazioni già svolte e quelle che saranno più avanti menzionate, con
le quali si dimostra proprio questo: che cioè il legislatore, nelle leggi in
esame, ha usato il termine «votante» nel suo significato esclusivamente
formale.
Né assolutamente alcun valore
in proposito può riconoscersi alla obiezione che, poiché l'art. 2 parla di
maggioranza di elettori votanti che « si pronunci in favore della Repubblica »,
conseguentemente ha riferimento solo a coloro che, per essersi pronunciati,
hanno necessariamente espresso un voto giuridicamente valido. Questa obiezione
in verità riposa su di un grave equivoco.
Invero,
che la maggioranza debba essersi pronunziata con voto valido, non è certamente
discutibile. Ma non è qui la questione. Essa è nella determinazione del numero
sul quale questa maggioranza, la quale si è pronunziata validamente, deve essa
stessa essere calcolata. Ed allora è chiaro che, quando la legge dice: «la
maggioranza degli elettori votanti», con ciò indica chiaramente che la
maggioranza pronunciatasi validamente per la Repubblica, deve essere calcolata
sul totale degli elettori votanti. Ma la legge non dice che tutti gli elettori
votanti devono essersi pronunziati validamente.
Nessun
valore decisivo può riconoscersi ad un'altra obiezione. Invero, con-. tro la
tesi che qui si sostiene è stato ancora osservato che, se fosse vero che la
maggioranza va rapportata al totale degli elettori votanti, intesi in senso
formale, potrebbe conseguirne in ipotesi che in esito al referendum nessuna maggioranza
si raggiungesse né per la Repubblica né per la Monarchia; ipotesi questa che
allora la legge avrebbe dovuto disciplinare; cosa che invece non ha fatto. È
una obiezione fondata sull'acIducere inconvenientem, che non ha pregio. È
facile rispondere che, se questa fosse una lacuna, non sarebbe certo la sola
che si riscontra nelle leggi in genere ed in quella che ci occupa in
particolare.
E' facile
rispondere ancora che, anche con il sistema della maggioranza dei voti validi,
la ipotesi è ugualmente possibile qualora i voti per l'uno o per l'altra forma
istituzionale siano stati pari. Né varrebbe dire che, in tal caso, l'ipotesi è
improbabile, perché questa sarebbe una considerazione di valore pratico e non
di valore giuridico, considerazione quindi di pertinenza non dell'interprete
della legge, ma del legislatore nell'atto in cui pone la norma. Bisogna quindi
inferirne solo che, se il legislatore non ha disciplinato l'ipotesi di uno
scarto talmente lieve di voti da non essere sufficiente a determinare la
maggioranza, ciò significa che egli ha ritenuto praticamente improbabile questa
eventualità.
È chiaro
che in tal caso trovano applicazione le normali regole d'interpretazione per
colmare le lacune legislative. La bibliografia, proprio in relazione al tema delle
maggioranze nelle votazioni, è copiosa, e non vuole certo essere qui ricordata.
9. Ma le leggi vanno
interpretate le une per mezzo delle altre, allorché costituiscono un unico corpus
sulla stessa materia.
Bisogna
in conseguenza accertare se il termine «votante» abbia lo stesso significato
sopra attribuitogli anche nel decreto legislativo luog. 10 marzo 1946 n. 74,
che contiene le norme per le elezioni per i deputati all'Assemblea costituente.
Tanto più necessaria è, nella specie, questa indagine, in quanto il decreto n.
219 non solo fa proprie numerose disposizioni del decreto n. 4, ma con l'art.
21 rinvia alle disposizioni del secondo, per tutto quanto non è in esso
espressamente previsto.
Qui è veramente rilevante e
decisivo il numero degli elementi che contrastano la tesi per cui «votanti»
sarebbero solo quelli che hanno espresso un voto successivamente dichiarato
valido, e confortata invece la tesi secondo cui per «votante» deve intendersi
chiunque si è presentato alle urne, ed ha formalmente compiuto le operazioni
di voto.
Innanzi
tutto l'art. 42 del decreto n. 74 chiama «votante» l'elettore che per
impedimento fisico è ammesso dal presidente dell'ufficio a fare esprimere il
voto da un elettore di sua fiducia. L'art. 44 dello stesso decreto prescrive
quelle che la legge stessa chiama operazioni di «voto», e che si esauriscono
con la introduzione della scheda nell'urna. Il compimento di esse riceve
consacrazione con la firma di uno dei membri dell'ufficio «nell'apposita
colonna della lista», firma con la quale «si accerta che l'elettore ha votato».
L'art. 44 sancisce quindi esplicitamente il valore formale nel quale sono
intese dalla legge elettorale le operazioni di voto, e secondo il quale va
interpretato il termine di elettore che ha votato, cioè di «votante». L'art.
50 (corrispondente all'art. II del decreto n. 2I9), al primo comma n. 2
chiarisce che il numero dei votanti è quello che risulta, sia dalla lista
elettorale autenticata dalla commissione elettorale e dalla speciale lista di
cui all'art. 4I (per i militari ed i militarizzati), liste nelle quali è
consacrato quali elettori abbiano votato, sia dai tagliandi dei certificati
elettorali.
Sicché votanti sono anche coloro che hanno consegnato una scheda, che
più tardi in corso di scrutinio, potrà essere riconosciuta bianca o nulla. Lo stesso comma dell'art. 50 al n. 3 conferma
la qualità di votante in colui che ha restituito la scheda al presidente;
giacché, per controllare il numero di coloro che si sono presentati alle urne
col numero degli elettori votanti, calcola espressamente come votanti perfino
coloro che non hanno restituite la scheda o ne hanno restituita una
contraffatta o irregolare.
Ma che questo sia il
linguaggio del legislatore, si evince in maniera ancora più chiara dall'art.
58 dello stesso decreto n. 74, che, al primo comma n. 3, contrappone il numero
dei «votanti» a quello dei voti nulli. Si rende così evidente come non sia
possibile commistione o confusione fra i due diversi concetti. Ciò è ancora
una volta ribadito nel numero 4 dello stesso comma.
Ulteriore
conferma della esattezza della interpretazione, che qui si sostiene, è data
dagli art. I e 84 del decreto n. 74. La prima disposizione infatti, sancisce la
istruzione nei certificati di buona condotta della menzione «che non ha votato»
a carico solamente di coloro che si sono astenuti dal partecipare alla
votazione. A questi solo dall'altra parte, l'art. 84 impone l'obbligo di dare
giustificazione del mancato esercizio del diritto
di voto. Non «votante» per legge, è quindi solo colui che si è astenuto dal
partecipare alle formali operazioni di voto, non presentandosi all'Ufficio
elettorale.
IO. E che tale e non altro debba essere il significato dal legislatore
attribuito al termine «votante», è confermato ancora dalle istruzioni
ministeriali 8 maggio 1946 dirette dal ministero per l'interno a tutti gli uffici elettorali.
La parte quarta di esse concerne lo scrutinio e la
proclamazione ed è divisa in due titoli, uno per le elezioni dei deputati,
l'altro per il referendum]. Il paragrafo I del titolo primo parla a lungo, di piena conformità della legge,
dell'accertamento e riscontro del numero dei votanti (pagg. 56-59 e 75), e
sempre chiama «votanti» coloro che abbiano in qualunque modo votato. Lo stesso
ha luogo nel titolo secondo. Il paragrafo primo (pagg. 101-103) è intitolato:
«Accertamento del numero dei votanti». Ivi si dice che la prima operazione per
il referendum istituzionale, successiva alla chiusura della votazione, è
quella riguardante l'accertamento del numero dei votanti e si specifica che il
numero dei votanti deve concordare col numero dei tagliandi staccati dai
certificati elettorali, quindi col numero di tutti coloro che si son presentati
alle urne ed hanno compiuto comunque le operazioni di votazione.
Ancora
più eloquente se fosse possibile, in tal senso, è quanto le stesse istruzioni
ministeriali dicono al paragrafo 2 del titolo secondo intitolato: «Riscontro
delle schede spogliate e del numero dei votanti » (pag. 109), ove, successivamente
all'esaurimento delle operazioni di scrutinio, cioè quando sono anche noti i
voli validi e quelli utili, il termine votante rimane sempre ad indicare tutti
gli elettori che hanno compiuto comunque le operazioni di votazione. Ivi,
infatti, si chiarisce che il numero dei votanti è uguale al numero non delle
schede valide, ma «a quello delle schede complessivamente spogliate », e si
precisa che «il numero dei votanti» è uguale non solo al totale dei voti
attribuiti alle due forme istituzionali, ma al totale di essi «più i voti nulli,
i voti contestati e non attribuiti, più le schede nulle, più le schede bianche».
Maggiore e più solenne
concordanza delle disposizioni legislative tra di loro, e delle istruzioni
ministeriali con quelle, non si potrebbe desiderare.
II. E va
ancora rilevato, che, il criterio di riferire la maggioranza non soltanto ai
voti validi, ma a tutti i votanti, si evince dalla economia della legge che,
proprio all'art. 2 del decreto n. 98, al secondo comma, nel disciplinare la
elezione del Capo provvisorio dello Stato (a parte la maggioranza relativa che
non influisce sulla nostra questione) richiede espressamente che la maggioranza
sia commisurata non ai voti validi, ma al numero dei «membri dell'Assemblea »,
e nella seconda parte di detto comma, abbandonando il criterio della
maggioranza relativa ed adottando quello della maggioranza assoluta, ugualmente
non adotta il sistema della maggioranza dei voti, validi, ma mantiene quello
della maggioranza dei membri.
E questo
sistema della legge, che mai ha riguardo ad una maggioranza dei voti validi, è
confermato ancora dall'ultimo comma dell'art. 3 che, disciplinando la votazione
delle mozioni di sfiducia al governo, ugualmente richiede la «maggioranza assoluta, non dei voti, ma dei membri dell'Assemblea». Ora non
può l'interprete coscienzioso della legge assolutamente prescindere da questi
elementi che univocamente indicano il senso del legislatore attribuito alle
sue parole, mentre non rivelano in nessun caso la adozione di un sistema di
maggioranza calcolata sui soli voti dichiarati validi.
12. In
mancanza quindi di ogni base nella lettera della legge, ed anzi in
contrasto con questo, i sostenitori
dell'opposta tesi hanno ritenuto di invocare in loro favore «lo spirito della
legge». Ora, «lo spirito della
legge», o meglio l'intenzione del legislatore, solo allora può essere preso in
considerazione a norma dell'art. 12 delle preleggi, quando non sia sufficiente
la interpretazione logica e letterale.
Ad ogni modo, è noto che
l'intenzione del legislatore va ricavata dal contesto della stessa legge
inquadrata nei principi fondamentali. Ora, se si svolge una indagine in tal
senso, la interpretazione, che qui si sostiene, risulta ancora una volta
confermata.
Per
quanto attiene ai principi generali, infatti, va osservato che il referendum
come atto di esercizio diretto di sovranità da parte della collettività popolare,
come responso cioè di una collettività organizzata, costituisce, cosi come una
deliberazione di assemblea, un atto collettivo o meglio un atto di volontà
collettiva. Comuni quindi al referendum. come alle deliberazioni delle assemblee,
sono la teoria e i principi relativi alla formazione della volontà collettiva,
relativi alla formazione di una volontà giuridicamente valida, come volontà di
tutti gli associati in una comunità. Questi principi hanno trovato pieno
accoglimento nel diritto positivo italiano e precisamente nell'art. 21 del
codice civile che, nel secondo comma, disciplinando l'ipotesi che ci riguarda,
di variazioni dell'atto costitutivo o dello statuto, stabilisce che occorrono
la presenza di almeno tre quarti degli associati ed il voto favorevole della
maggioranza dei presenti. A parte quindi la ulteriore garanzia del minimo di
numero legale, è evidente la statuizione del principio fondamentale che la
maggioranza va calcolata non in relazione ai voti validi, ma in relazione al
numero dei presenti, cioè, alla deliberazione, il che, in relazione alla
votazione per il referendum, si traduce precisamente nella formula della «
Maggioranza dei votanti », intesi questi come « presenti alle urne », coloro
cioè che hanno partecipato alle « operazioni di votazione ».. La
corrispondenza del principio generale, sancito nell'art. 21, secondo comma
codice civile, alla disciplina adottata nell'art. 2 primo comma del decreto n.
98, illumina il valore ed il significato della locuzione «elettori votanti»,
confermando la interpretazione che qui si sostiene, la quale quindi risulta particolarmente conforme proprio-ai principi giuridici fondamentali.
13. Non solo quindi la lettera della legge impone di interpretare il
termine «elettori votanti», nel senso di elettori che
hanno comunque compiuto le operazioni di votazione, ma anche e soprattutto lo
spirito della legge, se la legge elettorale mira, come è, a costituire
precisamente un sistema di garanzie per la formazione della volontà collettiva.
Votazione
Il
Presidente di Sezione Colagrosso sostenne il principio dei soli voti validi
(maggioranza numerica) in contrasto alla tesi Pilotti del complesso degli
elettori votanti (maggioranza qualificata).
IL PRIMO
PRESIDENTE PAGANO SI ASSOCIO' ALLA RELAZIONE PILOTTI E VOTO' CONTRO LA
DELIBERAZIONE DELLA CORTE: « IO VOTO IN
CONFORMITA' DELL'AVVISO ESPRESSO DAL PROCURATORE GENERALE ».
RISULTATO
DEFINITIVO: 12 VOTI CONTRARI AL RICORSO SELVAGGI, 7 FAVOREVOLI PIU' IL PARERE
DEL PROCURATORE GENERALE.
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