di Aldo A. Mola
Giolitti: spegnere l'incendio...
“Quando la casa brucia, ogni sforzo deve
tendere a spegnere l'incendio; a rendere la casa più comoda si penserà dopo”.
Fu il programma col quale il massimo Statista italiano dall'unità a oggi,
Giovanni Giolitti (Mondovì, 1842- Cavour,1928), tornò la quinta volta ad
assumere la presidenza del Consiglio dei ministri il 16 giugno 1920. Aveva 78
anni: idee chiare, energia ferrea. Le sue parole vanno meditate dal presidente
del Consiglio, Giuseppe Conte, che si trastulla in chiacchiere e rinvia di mese
in mese ogni seria decisione mentre l'Italia sprofonda nella voragine del
debito pubblico, destinato a recidere i garretti dei cittadini per un paio di
generazioni.
Il centenario del quinto governo Giolitti è
passato del tutto sotto silenzio in Piemonte. Silenzio tombale anche da parte
della Provincia di Cuneo, di cui lo Statista fu presidente per vent'anni. A
volte chi dovrebbe ricordare preferisce non vedere. Ma ormai a troppi vien
comodo il “distanziamento”: dalla memoria del passato, sempre più imbarazzante
per chi annaspa al “potere”. Ne ha scritto Luigi Rizzo in Il pensiero di
Giovanni Giolitti fondatore dello Stato sociale, tra guerra e pace (ed.
Arbor Sapientiae).
Un governo di coalizione per risalire la china
Il 16 giugno 1920 Vittorio Emanuele III chiamò
Giolitti alla guida dell'Esecutivo su indicazione unanime delle personalità
consultate. Lo Statista era pronto da tempo. Aveva varato il suo primo governo
il 15 maggio 1892 su incarico di Umberto I. Erano passati 28 anni. Perché
proprio lui, malgrado l'età? L'Italia aveva alle spalle il passivo
dell'intervento nella Grande Guerra voluto da Antonio Salandra e da Sidney
Sonnino d'intesa con il sovrano. La Vittoria del 4 novembre 1918 aveva avuto un
costo altissimo in vite umane, indebitamento dello Stato, svalutazione della
moneta, disordine economico e sociale. Occorreva una “cura da cavallo”. Con il
trattato di Versailles (28 giugno 1919), prima fase del congresso della pace,
il governo Orlando-Sonnino aveva sprecato i sacrifici sopportati dal Paese.
Malgrado i tanti discorsi e i ben remunerati articoli del nuovo presidente del
Consiglio, Francesco Saverio Nitti, il trattato di pace con l'Austria
(Saint-Germain, 10 settembre 1919) negò all'Italia Fiume. Di lì, due giorni
dopo, la marcia guidatavi da Gabriele d'Annunzio e la Reggenza del Carnaro,
spina nel fianco del governo. Nitti navigò a vista, si dimise e formò un
secondo ministero che durò poche settimane (22 maggio-16 giugno).
Sin dall'agosto 1917, in
piena guerra, Giolitti aveva indicato la via per riorganizzare i rapporti
interni e internazionali: abolizione della diplomazia segreta (altra cosa dal
segreto diplomatico) e riforme sociali rispondenti alle enormi difficoltà del
Paese. Lo ripeté il 12 ottobre 1919 nel discorso pronunciato a Dronero in vista
delle prime elezioni con il riparto dei seggi in proporzione ai voti ottenuti
dai partiti. Lo ribadì nel discorso di insediamento alla Camera, il 24 giugno
1920, suo onomastico. L'Italia era annichilita dal debito pubblico, balzato da
13 a 90 miliardi di lire, dal prezzo politico del pane, dalla moltiplicazione
di stipendi e salari per lavori inutili: costavano alla pubblica
amministrazione (Stato, province, comuni) e si risolvevano in indebitamento
ulteriore, non in benefici. Con le dita rosate già allora la burocrazia
intesseva in sudario dell'Italia. I regimi seguenti fecero di peggio.
Per voltare pagina Giolitti chiamò al governo
esponenti dei partiti costituzionali: Carlo Sforza agli Esteri, il democratico
ed ex socialista Ivanoe Bonomi alla Guerra, i cattolici Filippo Meda e Giuseppe
Micheli al Tesoro e all’Agricoltura, l'ex sindacalista Arturo Labriola al
Lavoro, massone come Luigi Fera, ministro della Giustizia, e Giulio Alessio.
All'Istruzione lo Statista volle il sommo pensatore italiano del Novecento,
Benedetto Croce, storico e “filosofo di buon senso”, come egli disse quando lo
vide all'opera nel ministero oggi nelle mani di una giovine inconcludente. Si
circondò di cuneesi: Camillo Peano, ministro dei Lavori pubblici; Marco di
Saluzzo, sottosegretario agli Esteri e Giovanni Battista Bertone, popolare,
alle Finanze; Marcello Soleri, cui affidò il commissariato per
approvvigionamenti e consumi alimentari, cioè l'abolizione del prezzo politico
del pane, rovina dell'erario.
Debito pubblico...
All'insediamento del governo Giolitti sintetizzò
il programma per risanare il Paese: sovranità del Parlamento anziché litania di
decreti-legge come accadeva dal 1914 (malvezzo imperante nell'Italia
giallorossa di Conte, democratici e pentastellati, lotta alle “delittuose
speculazioni”, freno all’emissione di moneta cartacea (fomite dell'inflazione),
promozione della produzione cerealicola (la mussoliniana “battaglia del grano”
non inventò nulla rispetto all'età di Giolitti e di Vittorio Emanuele III, che
seguiva di persona la sperimentazione agricola, sull'esempio dei poderi modello
allestiti a Pollenzo già da Carlo Alberto), riduzione delle spese militari
superflue, avocazione dei profitti di guerra, progressività delle imposte e in
specie delle tasse sulle successioni, nominatività dei “titoli al portatore di
qualsiasi specie, azioni, obbligazioni, rendite di Stato, cartelle fondiarie e
simili, eccettuati solamente i buoni del Tesoro”: una montagna di 70 miliardi
di lire che sfuggivano alle imposte. A quel modo avrebbe anche stanato la
“finanza vaticana”.
Quasi non toccò la politica estera. Non per
trascuratezza. Poiché era aggrovigliata, l'avrebbe affrontata quando lo Stato
sarebbe tornato sicuro di sé.
A chi gli chiedeva di confiscare i beni della
Corona rispose che, dopo le generose donazioni fatte da Vittorio Emanuele III
allo Stato, erano ormai pochi centesimi.
A chi, da sinistra, voleva l'abolizione della guardia regia replicò che
costoro l’avrebbero soppiantata con la guardia rossa. Pensava a quanto avveniva
in Russia. Le sue linee maestre erano “pace all'estero e pace all'interno”,
superamento della lotta muro contro muro tra operai e datori di lavoro
attraverso la cooperazione. Ribadì: “Ognuno, secondo le sue convinzioni, può e
deve aiutare l'opera dello Stato; non dico l'opera del governo, dico l'opera
dello Stato”. Al Senato spiegò perché il
governo comprendeva esponenti di partiti diversi: liberali, democratici e
popolari, tutti costituzionali. La proporzionale aveva frantumato la Camera in
undici gruppi parlamentari. Mentre i socialisti contavano oltre 150 seggi e i
popolari un centinaio, i “liberali” erano spappolati in varie denominazioni e
privi di un'organizzazione unitaria. Il primo “partito liberale” nazionale,
presieduto dal genovese Emilio Borzino, che non è il più famoso tra i politici
italiani, nacque solo nell'ottobre 1922 quando il liberalismo volgeva al
crepuscolo. Per governare, l'esecutivo doveva contare su un'ampia e stabile
maggioranza parlamentare: non su compromessi ideologici, su gruppi litigiosi e
inconcludenti (come anche oggi accade), bensì sul “senso del dovere dei
politici verso la Patria”. Quasi quarant'anni prima, nella Lettera
indirizzata agli elettori del I collegio di Cuneo il 15 ottobre 1882 aveva
scritto: “Allorché gli uomini di Stato più eminenti e gli operai sono concordi
in un programma, vi ha la certezza che questo risponde ai veri bisogni del
Paese”.
...avocazione al Parlamento del potere di
dichiarare guerra...
Due erano gli obiettivi fondamentali del quinto
governo Giolitti. In primo luogo la modifica dell'articolo 5 dello Statuto:
“senza la preventiva approvazione del Parlamento non vi può essere
dichiarazione di guerra”. Questa andava trasferita dalla Corona ai
rappresentanti dei cittadini, sui quali ricade il peso delle decisioni supreme:
vite umane e impoverimento, come era avvenuto nella Grande guerra. Sino a quel
momento nessun uomo politico aveva mai messo in discussione la prerogativa
principale del sovrano: la dichiarazione di guerra. Giolitti lo fece, proprio
perché monarchico, liberale, conservatore: per le istituzioni, i cui titolari
non sempre sono consci dei loro doveri. Lo propose alla luce della catastrofe
delle teste coronate spazzate via dalla sconfitta: lo zar di Russia, eliminato
dai bolscevichi con l'intera famiglia; gli imperatori di Austria-Ungheria e del
Reich germanico e il sultano di Istanbul, tutti costretti all'esilio da
rivoluzioni dei loro popoli ancor più che dalle vittorie del nemico.
Già nel citato Discorso di Dronero del 1919
Giolitti aveva pronunciato parole da rileggere mentre il governo oggi in carica
anziché aprire un vero confronto sulla politica estera (alleanze, posizione
dell'Italia in Libia...) pretende di limitarsi a “informative”, senza dibattito
né votazioni (e così scopre il fianco del presidente della Repubblica, Sergio
Mattarella, costretto a ripetere che le alleanze non sono porte girevoli). Fra
altro osservò: “Nei nostri ordinamenti politici interni esiste la più strana
delle contraddizioni. Mentre il potere esecutivo non può spendere una lira, non
può modificare in alcun modo gli ordinamenti amministrativi, non può né creare
né abolire una pretura, un impiego d'ordine senza la preventiva approvazione
del Parlamento, può invece per mezzo di trattative internazionali assumere, a
nome del Paese, i più terribili degli impegni che portano inevitabilmente alla
guerra; e non solo senza l'approvazione del Parlamento, ma senza che né
Parlamento né Paese ne siano, o ne possano essere in alcun modo informati.
Questo stato di cose va radicalmente mutato”. Occorreva dunque abolire i
trattati segreti, come l'accordo di Londra del 26 aprile 1915, germe di
conseguenze disastrose per la miopia di chi l'aveva stipulato all'insaputa
delle Camere. Aggiunse: “sarebbe una grande garanzia di pace se in tutti i
paesi fossero le rappresentanze popolari a dirigere la politica estera; poiché
così sarebbe esclusa la possibilità che minoranze audaci, o governi senza
intelligenza e senza coscienza, riescano a portare in guerra un popolo contro
la sua volontà”.
Contrariamente a quanto ritennero alcuni
cortigiani e reazionari particolarmente ottusi, la proposta giolittiana non era
affatto anti-monarchica. Essa, anzi, mirava a tenere separata la responsabilità
del Re da quella di presidenti del Consiglio e di ministri corrivi a confiscare
la sovranità e a decidere all'insaputa delle Camere, così esponendo la Corona
ai rischi di una disfatta militare che fatalmente ne avrebbe comportato il
crollo, come poi accadde.
Nel corso dei secoli lo stato sabaudo aveva
subito invasioni e perso battaglie, ma neppure nei momenti più drammatici era
stato debellato perché i suoi sovrani avevano sempre contato sul leale sostegno
della popolazione che si riconosceva nei duchi e re di Savoia. Lo si era veduto
ai tempi di Carlo Emanuele I, di Vittorio Amedeo II, di Carlo Emanuele III.
Quanto era valso nei secoli della monarchia consultiva e amministrativa valeva
ancor più con l'avvento di quella costituzionale, come ha bene spiegato
Domenico Fisichella nella sua imponente trilogia dal Risorgimento al 1940 (ed.
Pagine). Dopo la sconfitta di Novara (23 marzo 1849) il regno aveva fatto
quadrato attorno a Vittorio Emanuele II che aveva rifiutato di abolire lo
Statuto. Quel “patto”, però, andava aggiornato alla luce dell'esperienza
maturata durante la Grande guerra e di trattati di pace niente affatto
lungimiranti.
Con argomenti attualissimi Giolitti rivendicò
la centralità della rappresentanza elettiva, tenuta a mostrare con i fatti di
volere e sapere esercitare i poteri statutari.
...e risanamento dell'istruzione pubblica
L'altro caposaldo, parimenti attualissimo, del
programma del V governo giolittiano fu la “completa trasformazione
dell'istruzione pubblica, che è fra tutte le nostre istituzioni quella che
procede con maggior disordine e con minor efficacia”. Fermo nel ritenere che
“un popolo tanto vale quanto sa”, spiegò che il mondo scolastico, “vecchio,
chiuso, arretrato”, autoreferenziale, andava “aperto largamente al sole della
libertà, la più efficace delle spinte al progresso”. Parlava sulla scorta delle
esperienze dei figli e dei numerosi nipoti. Il rinnovamento dell'istruzione
pubblica andava promosso di concerto con l'“alta industria”, “in modo da
attrarre all'insegnamento le migliori intelligenze del paese e da costringere
gli insegnanti a tenersi perfettamente al corrente delle scienze”. A tale scopo
le cattedre, soprattutto delle discipline “esatte”, anziché popolate di
precari, andavano rimesse a concorso ogni dieci anni. Chi non si aggiornava
andava sostituito dai più preparati.
Il suo criterio di governo fu:“dire sempre al
Paese la rude verità, abbandonando la vuota retorica, la quale, ponendo sotto
falsa luce fatti e apprezzamenti, costituisce una delle forme più insidiose di
menzogne”. Come accennato, nei discorsi di insediamento del governo alla Camera
e al Senato Giolitti spiegò perché non intendeva esporre il programma nella
politica estera. Gli occorreva anzitutto conoscerne lo stato vero alla luce
della documentazione: premessa per affrontare le molte e complesse
articolazioni, in specie con riferimento alla “questione adriatica”, di cui
quella di Fiume era un gradiente aspro da superare in una visione più larga di
quella sino a quel momento dominante.
Il 15 luglio non esitò a dichiarare ai senatori
di aver accettato un mandato forse superiore alle sue forze per “sentimento del
dovere” verso “una Alta volontà”: quella del Re.
Un suo autorevole biografo, Nino Valeri,
iniziato massone con Gabriellino d'Annunzio in un'officina della Gran Loggia
d'Italia quando da “agente cinematografico” collaborava con il figlio del Vate,
dedicò al V e ultimo governo Giolitti pagine fondate sul preconcetto che
l'anziano Statista non fosse più “in linea” con i tempi nuovi, con gli umori
che alimentavano il rivoluzionarismo dilagante dall'estrema destra alla
sinistra. In realtà Giolitti ebbe chiarissima la percezione che i princìpi
ispiratori della dirigenza politica durata dall'unificazione nazionale alla
Grande Guerra rimanevano patrimonio di una minoranza di patrioti veri, dediti
agli interessi generali permanenti dell'Italia anziché ai propri personali o a
quelli di fazioni partitiche. Egli stesso aveva concorso a promuoverne il
radicamento con le grandi riforme d'inizio secolo e con il conferimento del
diritto di voto ai maschi maggiorenni, anche se analfabeti. Comprendeva la
genesi dello sperimentalismo e del disordine del dopoguerra, ma ritenne che il
governo non potesse né dovesse subirlo e assecondarlo, vivendo di esperimenti,
di appelli alle piazze, di incitamento alla rissa tra vacue ideologie, come
oggi accade. All'opposto sentiva il dovere di “rialzare l'autorità del
Parlamento” per “rialzare l'autorità dello Stato”, accompagnandolo con il
monito che “non bisogna confondere lo Stato col Governo. Il Governo è il
servitore dello Stato, e nient'altro”.
La Camera alla quale si rivolse nel
giugno-luglio del 1920 comprendeva una esigua pattuglia di nazionalisti ma
ancora nessun “fascista”. Alle elezioni del 16 novembre 1919 Mussolini aveva
raccattato circa 2500 preferenze sui 5.000 voti andati alla sua lista: un risultato
mortificante. Nondimeno alla Camera sedevano molti esagitati, massimalisti,
estremisti, integralisti, fautori del tanto peggio tanto meglio. Per venirne a
capo occorreva una lunga stagione di armonia tra gli Stati, il trascorrere del
tempo, che è sempre la medicina migliore. Non fu Giolitti a decidere
l'autoesclusione degli USA dalla Lega delle Nazioni, l'ingorda spartizione
delle colonie tedesche tra Gran Bretagna e Francia, l'esasperazione dei vinti
attraverso politiche punitive. Cercò di mettere ordine almeno in Italia, “in
casa”.
Era guidato da un concetto di bruciante
attualità: “Seguire una politica che possa condurre ad altre guerre
significherebbe condannare sin d'ora a morte due milioni di nostri figli o dei
nostri nipoti, e condannare l'Italia ad un altro mezzo secolo di esaurimento
economico per arricchire un'altra generazione di speculatori; e ciò
nell'ipotesi che in una nuova guerra si abbia di nuovo una completa vittoria,
poiché in caso di sconfitta le condizioni dell'Italia diverrebbero molto
peggiori di quelle dei popoli che in questa guerra furono vinti”: parole
profetiche ma non abbastanza comprese. Perciò l'esempio dello Statista che
quasi ottantenne si fece carico del governo d'Italia merita di essere rievocato
e meglio conosciuto: non fu un segmento qualunque nella sequenza dei sei
governi susseguitisi nel dopoguerra prima dell'avvento di Mussolini. Le
dimissioni di Giolitti un anno dopo l'insediamento segnarono l'eclissi del
liberalismo italiano in un'Europa che si avviava alla seconda catastrofica fase
della Guerra dei Trent'anni (1914-1945).
Cinque
volte presidente del Consiglio non ha monumenti. Quindi la sua “esteriorità”
non rischia. A farne ricordare l'opera fu il presidente Carlo Azeglio Ciampi nella visita a Cuneo,
nel 2003.Quando si recò a Cuneo, Napolitano lo ignorò. Mattarella, che rese
omaggio a Einaudi in Dogliani, è in tempo riproporlo ai “governanti” di oggi e
di domani.
Aldo A. Mola
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