Per questo mi accingo a
pensare a quello che sarebbe successo se la giustizia fosse stata nelle mani di
Dio e non degli uomini. Nel referendum la Monarchia fu sconfitta.
Non sto a
ricordare i brogli elettorali che vennero fatti, e penso a quelli che dissero
in modo categorico: “O la repubblica o il caos”. Questi modi in cui fu attuato
il referendum. L’Italia si era spaccata in due: al nord vinse la repubblica, da
Roma in giù fu la Monarchia a trionfare, raggiungendo quasi il 100% dei voti.
Il Re Umberto II fu ingannato, come risulta da una sua lettera scritta dal
Portogallo pochi giorni dopo essere arrivato e che venne pubblicata il 28 marzo
1984 dal Giornale, un anno dopo che il sovrano era morto. Credo che il Re la
scrisse con il cuore trafitto dalla malinconia e dalla tristezza per come erano
andati gli eventi. Ne riporto alcune righe: “Ripenso alle ultime ore di Roma, a
quanto mi fu detto che allontanandomi per poco dalla città tutto sarebbe stato
più semplice, e invece fu un “trucco” che non voglio qui definire con termini
appropriati!”. Basterebbero queste righe per capire cosa successe al buon
sovrano, che nel cuore aveva solo l’amore per il suo popolo, e che avrebbe
fatto qualsiasi cosa per l’Italia. Quel trucco per allontanarlo per un breve
tempo, invece, durò fino alla sua morte e ancora adesso si trova sepolto in
terra straniera, in Francia. In questo momento mi viene in mente una citazione
dello scrittore Giuseppe Prezzolini che diceva: “Nulla è più stabile del
provvisorio”.
In questo triste 2 giugno, mi consola leggere un articolo
comparso sul Secolo d’Italia dell’1 giugno 1996, dal titolo Il Re va in esilio
dello scrittore Bruno Gatta. Per quanti non lo conoscono, mi permetto di dire
che era una penna sincera, scrisse su giornali importanti e sapeva arrivare al
cuore delle persone. Ne trascrivo una parte: “Umberto II prese la via
dell’esilio, e sullo sfondo romantico, velatamente malinconico, della terra
portoghese in cui visse, la sua figura regale ebbe a poco a poco rilevanza
storica, ed anche una certa grandezza umana. Quel Re esule, in fondo, pagava
colpe non sue, ed aveva firmato lui stesso il decreto che, indicendo il
referendum, segnava la fine del Regno. Con la sua firma si era condannato da
solo alla pena dell’esilio, scontata in un silenzio esemplare, rinunciando a
tutto, anche alla polemica contro una repubblica inutilmente persecutoria, che
gli aveva confiscato i beni e gli proibiva di rivedere la patria: per effetto
di una norma cosiddetta finale della costituzione, il cui carattere transitorio
era, però, evidente e che non fu mai cancellata per pavidità legislativa. Con
quel veto disumano ed arcaico, di cui non si era mai parlato nei colloqui al
Quirinale che precedettero l’assenso di Umberto al referendum istituzionale. I
costituenti repubblicani compirono contro il Re una cattiva azione. Era ormai
un Re senza regno, ma recitò la sua difficile parte con dignità, senza rancore,
solo con nostalgia.
A Giovanni Mosca confessò un giorno: “Nessuno immagina
quanto io rimpianga l’Italia; c’è nella lingua portoghese una parola Saudade,
che è qualcosa di più che rimpianto, qualcosa più che nostalgia, e intrisa di
dolore”. Rimpianto di un regno che, compresa la luogotenenza, era stato breve
ed effimero, nostalgia di un futuro che gli fu spezzato in tronco”.
Dopo aver
letto queste parole di Bruno Gatta posso dire che il sacrificio del Re fu
davvero grande, e il suo comportamento mi fa pensare ai santi, quelli che si
sacrificano per gli altri e vogliono essere diversi. La repubblica italiana nei
confronti del sovrano fu spietata, non poteva comportarsi peggio, mise lungo la
strada del suo ritorno in patria, mille ostacoli, mille tranelli, non ebbe
cuore. Veniva trattato in questo modo un sovrano che ha amato l’Italia sia da
vicino, nei momenti difficili, sia nella lontananza. Avrebbe voluto fare di più
per il suo Paese, ma non gli fu concesso. L’amore che nutrì per la sua patria
viene compreso nelle interviste che rilasciò. In queste conversazioni vi erano
sempre delle parole di pacificazione e di rispetto. Amava ripetere che era
vicino soprattutto nelle avversità della vita, non nella festa.
Qualcuno
scrisse che sarebbe stato un buon Re, perché aveva un cuore generoso, era molto
legato alla Madre Chiesa, e lo dimostrò nel donare la Sacra Sindone dopo la sua
morte. La Chiesa non ha mai avuto il tempo di ricordarlo. Da parte del Vaticano
non ci furono mai degli appelli per farlo tornare. Questo conferma come sia
sempre più conveniente restare con i vincitori. Nella mia vita davanti a
un’ingiustizia preferisco stare dalla parte delle vittime, e dividere una
solitudine con chi ne ha bisogno. Il re era e rimase fino alla fine un buon
cattolico. In un domani la Chiesa si potrebbe impegnare per nominarlo Servo di
Dio.
Una frase di uno scrittore che amo dice:” Io sono un uomo che preferisce
perdere piuttosto che vincere con modi sleali e spietati. Grave colpa da parte
mia, lo so! E il bello è che ho la sfacciataggine di difendere tale colpa, di
considerarla quasi una virtù”. (Pier Paolo Pasolini )
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