NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

martedì 2 giugno 2020

Il due giugno non è la festa della repubblica, ma un giorno di lutto.


di Emilio del Bel Belluz

Per questo mi accingo a pensare a quello che sarebbe successo se la giustizia fosse stata nelle mani di Dio e non degli uomini. Nel referendum la Monarchia fu sconfitta. 
Non sto a ricordare i brogli elettorali che vennero fatti, e penso a quelli che dissero in modo categorico: “O la repubblica o il caos”. Questi modi in cui fu attuato il referendum. L’Italia si era spaccata in due: al nord vinse la repubblica, da Roma in giù fu la Monarchia a trionfare, raggiungendo quasi il 100% dei voti. Il Re Umberto II fu ingannato, come risulta da una sua lettera scritta dal Portogallo pochi giorni dopo essere arrivato e che venne pubblicata il 28 marzo 1984 dal Giornale, un anno dopo che il sovrano era morto. Credo che il Re la scrisse con il cuore trafitto dalla malinconia e dalla tristezza per come erano andati gli eventi. Ne riporto alcune righe: “Ripenso alle ultime ore di Roma, a quanto mi fu detto che allontanandomi per poco dalla città tutto sarebbe stato più semplice, e invece fu un “trucco” che non voglio qui definire con termini appropriati!”. Basterebbero queste righe per capire cosa successe al buon sovrano, che nel cuore aveva solo l’amore per il suo popolo, e che avrebbe fatto qualsiasi cosa per l’Italia. Quel trucco per allontanarlo per un breve tempo, invece, durò fino alla sua morte e ancora adesso si trova sepolto in terra straniera, in Francia. In questo momento mi viene in mente una citazione dello scrittore Giuseppe Prezzolini che diceva: “Nulla è più stabile del provvisorio”. 
In questo triste 2 giugno, mi consola leggere un articolo comparso sul Secolo d’Italia dell’1 giugno 1996, dal titolo Il Re va in esilio dello scrittore Bruno Gatta. Per quanti non lo conoscono, mi permetto di dire che era una penna sincera, scrisse su giornali importanti e sapeva arrivare al cuore delle persone. Ne trascrivo una parte: “Umberto II prese la via dell’esilio, e sullo sfondo romantico, velatamente malinconico, della terra portoghese in cui visse, la sua figura regale ebbe a poco a poco rilevanza storica, ed anche una certa grandezza umana. Quel Re esule, in fondo, pagava colpe non sue, ed aveva firmato lui stesso il decreto che, indicendo il referendum, segnava la fine del Regno. Con la sua firma si era condannato da solo alla pena dell’esilio, scontata in un silenzio esemplare, rinunciando a tutto, anche alla polemica contro una repubblica inutilmente persecutoria, che gli aveva confiscato i beni e gli proibiva di rivedere la patria: per effetto di una norma cosiddetta finale della costituzione, il cui carattere transitorio era, però, evidente e che non fu mai cancellata per pavidità legislativa. Con quel veto disumano ed arcaico, di cui non si era mai parlato nei colloqui al Quirinale che precedettero l’assenso di Umberto al referendum istituzionale. I costituenti repubblicani compirono contro il Re una cattiva azione. Era ormai un Re senza regno, ma recitò la sua difficile parte con dignità, senza rancore, solo con nostalgia. 
A Giovanni Mosca confessò un giorno: “Nessuno immagina quanto io rimpianga l’Italia; c’è nella lingua portoghese una parola Saudade, che è qualcosa di più che rimpianto, qualcosa più che nostalgia, e intrisa di dolore”. Rimpianto di un regno che, compresa la luogotenenza, era stato breve ed effimero, nostalgia di un futuro che gli fu spezzato in tronco”. 
Dopo aver letto queste parole di Bruno Gatta posso dire che il sacrificio del Re fu davvero grande, e il suo comportamento mi fa pensare ai santi, quelli che si sacrificano per gli altri e vogliono essere diversi. La repubblica italiana nei confronti del sovrano fu spietata, non poteva comportarsi peggio, mise lungo la strada del suo ritorno in patria, mille ostacoli, mille tranelli, non ebbe cuore. Veniva trattato in questo modo un sovrano che ha amato l’Italia sia da vicino, nei momenti difficili, sia nella lontananza. Avrebbe voluto fare di più per il suo Paese, ma non gli fu concesso. L’amore che nutrì per la sua patria viene compreso nelle interviste che rilasciò. In queste conversazioni vi erano sempre delle parole di pacificazione e di rispetto. Amava ripetere che era vicino soprattutto nelle avversità della vita, non nella festa. 
Qualcuno scrisse che sarebbe stato un buon Re, perché aveva un cuore generoso, era molto legato alla Madre Chiesa, e lo dimostrò nel donare la Sacra Sindone dopo la sua morte. La Chiesa non ha mai avuto il tempo di ricordarlo. Da parte del Vaticano non ci furono mai degli appelli per farlo tornare. Questo conferma come sia sempre più conveniente restare con i vincitori. Nella mia vita davanti a un’ingiustizia preferisco stare dalla parte delle vittime, e dividere una solitudine con chi ne ha bisogno. Il re era e rimase fino alla fine un buon cattolico. In un domani la Chiesa si potrebbe impegnare per nominarlo Servo di Dio. 
Una frase di uno scrittore che amo dice:” Io sono un uomo che preferisce perdere piuttosto che vincere con modi sleali e spietati. Grave colpa da parte mia, lo so! E il bello è che ho la sfacciataggine di difendere tale colpa, di considerarla quasi una virtù”. (Pier Paolo Pasolini )

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