Dal momento in cui, per il veto di don Sturzo, cioè dei popolari, non aveva
potuto far ritorno al potere Giolitti, la macchina parlamentare continuava a
girare a vuoto. I popolari avevano motivato il loro veto con ragioni di
moralità politica. Essi, infatti, avevano determinato, unendosi ai socialisti,
la caduta di Giolitti alcuni mesi prima. Senza dubbio vi erano stati dei motivi
per determinare allora la crisi, ma nel febbraio 1922 e, infine, nell’agosto
dello stesso anno, si presentava l’occasione di tentare con Giolitti l'ultimo
esperimento parlamentare fondato sulla collaborazione delle sinistre democratiche
e dei popolari con il socialismo riformista e la Confederazione del lavoro.
Ogni altra combinazione non poteva realizzare l'unione dei due maggiori
partiti: socialisti e popolari. Doveva cadere quindi l'avversione di don Sturzo al ritorno di Giolitti poiché
nessuno era in socialisti e popolari. Doveva cadere quindi l’avversione di don
Sturzo al ritorno di Giolitti poiché nessuno era in grado di offrire una
soluzione migliore. I fascisti videro bene il pericolo di un ritorno di
Giolitti. Nel resoconto di una seduta segreta del 16 ottobre 1922 della
direzione del partito fascista a Milano, Farinacci esclamava: «Bisogna impedire
a Giolitti di andare al Governo. Come ha fatto sparare su d’Annunzio, farebbe
sparare sui fascisti».
Intanto appariva sempre più grave la
situazione che si era determinata con il Congresso di Napoli e con la minaccia mussoliniana di calare su Roma. Il Re giungeva da San Rossore la sera
del 27 ricevuto da Facta, Presidente del Consiglio, che gli aveva telegrafato.
Il Re appena disceso dal treno apparve
molto preoccupato: qualcuno che era alla stazione ricorda il suo viso oscurato
e pensoso. Sapeva che i fascisti avanzavano da nord e da sud verso la Capitale
che egli non avrebbe voluto lasciare assalire, ma gli ripugnava l’urto, il probabile spargimento di
sangue: bramava evitare delle giornate di lutto al paese. L’on. Facta disse la sua fiducia che tutto poteva
volgersi in bene: era ancora fermo nell’idea e nella speranza della
combinazione Giolitti-Mussolini, ormai tramontata come diciamo più oltre.
Credeva che con il capo del fascismo al
Governo, le camicie nere non avrebbero ecceduto: intanto conveniva impedire che invadessero Roma. L’on. Facta si intrattenne con il Re un quarto
d’ora e chiese di essere ricevuto più tardi — la sera stessa — per recare al
Sovrano le ultime notizie. Infatti egli andò a Villa Savoia alle ore 22 e ne uscì dopo un’ora, dirigendosi al Palazzo Viminale ove era convocato
il Consiglio dei Ministri che si può dire, sedeva in permanenza e seguiva di ora in ora la marcia fascista segnalata
dai telegrammi dei Prefetti. Nel Governo contrastavano due tendenze, due opinioni:
una parte credeva si dovesse ormai decretare lo stato di assedio per fermare le squadre fasciste: l’altra parte giudicava
inopportuno tale provvedimento. Dopo lunga animata appassionata discussione, a notte tarda in seguito alle notizie
che le camicie nere avanzavano sempre più ed erano ormai presso Roma, pronte all'assalto, prevalse la decisione
dello stato di assedio: fu redatto, nella notte stessa, il manifesto col quale
il comando e il controllo della città erano affidati all’autorità militare e
furono diramati gli ordini in proposito in tutta Italia.
Alle dieci del mattino il Presidente del
Consiglio ritornò dal Re per la firma del decreto che disponeva lo stato di assedio. Il Re aveva appreso dai giornali che già sui muri di Roma
erano comparsi i manifesti ed espresse all’on. Facta la sua meraviglia. Rilevò
che Roma non era difendibile giacché aveva solamente 8000 uomini armati
compresi i carabinieri e la guardia regia, non sicura: invece i fascisti erano
più di 100.000 secondo le informazioni pervenute al Governo, oppure 80.000 nei calcoli
dei carabinieri (secondo Mussolini — colloqui con Ludwig — erano 50.000). «
Fossero anche meno, concluse il Re, lo stato d'assedio opposto ai fascisti è la
guerra civile con le sue gravissime conseguenze: e non è possibile, non è
augurabile, soffocare nel sangue un movimento così forte nel paese e così sorretto
dalla opinione nazionale». Vero. Tanto più che il Parlamento si era dimostrato
incapace di costituire un governo solido e di risolvere nella legge, nella
provvida legalità, desiderata, invocata dal Sovrano, un conflitto che si
trascinava da quattro anni.
A distanza di 23 anni dagli avvenimenti ci
troviamo dinanzi a una inaudita mistificazione e a una totale alterazione di
essi.
Ristabiliamo dunque la verità. Le ultime
crisi parlamentari, quelle del febbraio e dell'agosto, erano state lunghe,
faticose, snervanti. 11 paese reclamava un Governo e il Parlamento non riusciva
a darlo. La crisi aperta il 26 ottobre con le dimissioni del Ministero Facta si
presentò ancora più difficile delle altre. Furono discussi dalla stampa gli
stessi uomini e le stesse soluzioni delle crisi precedenti, ma tutti
declinavano l'invito: Mussolini sicuro che, quale animatore di un vasto movimento,
sarebbe stato chiamato comunque al Governo, già aveva aperto dopo il suo
discorso di Napoli, trattative con Giolitti per fare un Ministero del quale
offriva al vecchio e forte statista piemontese di essere presidente.
Intermediari Camillo Corradini, che andò da Roma a Dronero, e il senatore
Lusignoli Prefetto di Milano ove era Mussolini. Il quale aveva subdolamente altro scopo da quello che
annunciava: mirava a guadagnare tempo per far arrivare fino a Roma le squadre fasciste e quindi imporre al Re, in
pieno, la sua volontà, il suo vero disegno: che era un governo presieduto da
lui stesso. Alla fine, fissò alte condizioni che credeva non sarebbero accolte
da Giolitti: cioè 8 Dicasteri a deputati fascisti compresi l’Interno, gli
Esteri, la Finanza, il Tesoro, la Guerra, la Marina. Fu riluttante il Giolitti,
ma Corradini e Lusignoli si adoperarono a persuaderlo con tale calore che
l'uomo di Dronero finì per consentire ad avere la presidenza sic et simpliciter,
senza alcun portafoglio, senza quel Dicastero degli Interni che era la sua
rocca tradizionale. Ma quando Mussolini seppe, con meraviglia, che tutte le sue
condizioni erano accettate, dichiarò che non le... accettava più lui. Intanto
aveva guadagnato, con la laboriosa discussione. 4 giorni, dal lunedì al giovedì.
Ma le squadre fasciste non erano ancora a Roma: erano, al sud, a Capua e, al
nord, a Civitavecchia: occorrevano altre 48 ore perché giungessero alle porte
della capitale e impressionassero il Re. E Mussolini volse a Salandra Io stesso
inganno teso a Giolitti, prolungato tinche gli era stato possibile: e riuscì.
Non appena Mussolini fu informato a Milano, ove era rimasto, che la sua gente,
più o meno armata era presso Roma, abbandonò Salandra come aveva abbandonato
Giolitti. Più tardi si compiacque di aver “dupé” l'uno e l’altro.
La notizia del non corrispondeva alle
correnti della Camera, ma poichéil Parlamento non era capace di altra
designazione; ilRe, guidato dal suo rigoroso spirito costituzionale, dovè tener
conto della chiara e irrompente volontà che mostrava la nazione. Del resto la
Camera e il Senato non tardarono a confermare, a consacrare quella volontà a grandissima
maggioranza. Vi fu più tardi la secessione dell’Aventino, ma essa fu sterile,
fu un errore. E ne parleremo più avanti.
Il male è che da tempo si era creato un
abisso tra il paese legale e il paese reale. Incaricando Mussolini la Corona andava incontro al paese. Senza dubbio il Sovrano si decideva ad un
passo così grave con profondo rammarico. Le dichiarazioni di Mussolini erano state assai aspre e
intimidatorie verso la Corona anche in quei giorni di lotta. Era la prima volta che si diventava Primi Ministri minacciando
la rivoluzione e ricattando il Parlamento e il Re. Ma non vi era alternativa
migliore: o aprire il fuoco con risultati imprevisti accendendo la guerra civile, o dare l’incarico a Mussolini con la speranza di riassorbire il
movimento fascista nell’ordine costituzionale.