Commemorazione tenuta a Firenze -
dalla Medaglia d’Oro, Prof. Raffaele Paolucci il 1° marzo 1953, nella ricorrenza dell’XI anniversario della morte
dell’Augusto Principe Sabaudo.
Opuscolo donato dall'Ingegnere Giglio, Presidente del Circolo Rex
Opuscolo donato dall'Ingegnere Giglio, Presidente del Circolo Rex
Compiranno poi domani undici anni
da quel giorno triste nel quale a Nairobi, in prigionia, su un piccolo lettino
di ferro di un misero ospedale, mentre tante nuvole nere si addensavano sul
cielo della Patria lontana, esalò il Suo ultimo respiro Amedeo di Savoia Duca
di Aosta.
Gli amici Fiorentini della Unione
Monarchica Italiana hanno voluto, in tale anniversario, che io rievochi la
figura leggendaria dell’Eroe; pur essendo piena e dura la mia giornata, ho
accettato, subito, e con animo profondamente grato, perché parlare di Lui vuol
dire elevarsi fino a Lui, staccarsi sia pure per un attimo solo dalla bassura
nella quale siamo piombati, ritrovarsi vecchi ed onorati soldati di questa Patria
umiliata, ed illuderci ancora che non invano credemmo, non invano sperammo, non
invano versammo, in Suo nome, sangue e sudore.
E nulla importa, nulla importa se
qualcuno che mai ci comprese e mai ci comprenderà, ci chiamerà spregiando,
nostalgici.
Sì, abbiamo la nostalgia della
bellezza, della poesia, della fedeltà, siamo i nostalgici dell’onore e della
virtù militare, senza di che non esistono grandezze di popoli; ed in questa
bassura nella quale siamo costretti a vivere e ci sentiamo di essere, siamo, e
vogliamo rimanere, i superstiti di un grande mondo perduto, aneliamo alle
alture da cui siamo discesi, e cui abbiamo fede di ritornare, e ritorneremo.
E perciò parliamo di Lui.
Amedeo di Savoia nacque il 21
ottobre 1898 nel palazzo della Cisterna, a Torino. Ed in quella casa rimase per
sette anni fino a quando il Padre, Emanuele Filiberto, non fu trasferito a
Napoli, al comando di quel Corpo di Armata.
Quegli anni della prima
fanciullezza non erano stati lieti per il piccolo principe, che certo non era
lieto l’ambiente familiare quando Egli nacque.
Da due anni appena si era infatti
svolta la tragedia di Adua, e la gazzarra antinazionale già si adunava nella
piazza allorché Egli cominciava i primi passi; e Suo Zio, il buon Re Umberto I
era stato assassinato quando Egli cominciava a balbettare le prime parole.
Iniziava allora in Italia lo strano
e ben doloroso fenomeno per il quale, a somiglianza di un solo altro paese, la
Francia, la istanza sociale e la necessità materiale delle folle sembrava dovessero
essere inscindibili da una furibonda, iconoclasta volontà distruggitrice delle
tradizioni patrie e della virtù militare.
A Napoli l’ambiente era più sereno:
quella Reggia di Capodimonte era più sorridente con il suo magnifico parco, il
cielo era più mite, l'anima popolare meno intristita dalla propaganda dei
negatori.
In quell'ambiente crebbero Amedeo
ed il Suo fratellino minore, Aimone, sopraggiunto dopo di Lui, e quel vasto
palazzo e quel parco senza fine videro disfrenarsi le loro fanciullezze.
Fu un ragazzo terribile Amedeo, di
quelli le cui ragazzate lasciano il cuore sospeso.
Bleriot aveva attraversato la
Manica, Chavez aveva sorvolato le Alpi, l’aviazione, con l’opera ed il
sacrificio dei pionieri, faceva le sue prime, asperrime prove, ed Amedeo aveva
una voglia pazza di volare.
Volle volare, ma macchine non ne
aveva; trovò due vecchi ombrelli in un solaio ne irrobustì le stecche con spago
e filo di ferro, ed ecco i nostri due argonauti lanciarsi con questi ombrelli
aperti, attaccati al manico, dal primo ma pur altissimo piano della Reggia.
Videro dal basso, col cuore sospeso, discendere precipitosamente i due ragazzi
e fu un accorrere di gente: non si erano fatti quasi niente in quel volo
precipitoso di otto metri, solo qualche ammaccatura. «Volare mi piace» annunciò
serissimo Amedeo, strizzando un occhio alla gente accorsa ansiosa e trepidante
a raccattare i due argonauti.
Sempre in tema di ragazzate
terribili eccone un’altra, di cui fece le spese il Colonnello Montasini, aiutante
di campo del Padre. Questi era un bravo colonnello di artiglieria, ed Amedeo,
da promesso artigliere, volle rendergli onore.
Vi erano nel parco della reggia
alcuni vecchi cannoni di bronzo del ’700 ad avancarica. Amedeo prese la polvere
di molte cartucce da fucile, caricò il vecchio cannone, pose una lunga miccia,
mise Aimone a far da palo per annunciare l’arrivo del Colonnello e quando
questi apparve al cancello ed Egli ebbe il segnale diede fuoco alla miccia. Il
vecchio palazzo tremò, il boato si udì per tutta Napoli. Pallido, emozionato il
Colonnello accorse.
Questa volta era stata troppo
grossa, ed i due colpevoli furono trascinati davanti ai genitori per avere la
giusta sanzione. Ma, nel salire la grande scalea, Amedeo diceva al fratello: «
Hai inteso che colpo? Io di artiglieria me ne intendo! » .
Questo spirito avventuroso, questo
sorridente arditismo spericolante lo accompagnarono per tutta la vita.
Ma una, grossa assai, la fece a
Madrid: era un giovinetto, allo e lungo, ed un po’ buffo anche, con quelle
gambe interminabili, come un cucciolo cresciuto troppo presto. Si trovavano a
Madrid, Egli ed il Fratello accompagnati dall’istitutore, in viaggio di
istruzione. Andarono un giorno a vedere una corrida, ed era la prima volta che
assisteva ad un simile spettacolo. Era ospite nel palco di una nobile dama; ma
quando vide entrare nell’arena i toreros, i picadores, i caballeros nelle loro ricche
gualdrappe, e poi sopraggiungere il toro, e ed attorno a questo sballonzare gli
uomini in atteggiamenti strani, un riso incontenibile lo dominò, cui faceva eco
il fratello. E più si sviluppava l’azione tra l’ansia fervida ed attenta degli
spettatori, più Egli rideva, finché la nobile dama non poté contenersi e Gli
disse, un po’ brusca «non so in verità, Altezza Reale, cosa ci sia da ridere».
«Ma non trova che ciò è buffo? Non
vede come sono buffi quegli uomini che saltellano davanti al toro? Ma che forse
è una prodezza quella lì? ».
« Ah sì? E perchè non ci prova Lei
» rispose la dama?
Ora Amedeo era punto sul vivo. Provare?
Ecco fatto: due mani sulla
balaustra, e con un salto era giù nell’arena.
Il toro era piuttosto vicino, vide
il nuovo venuto, prima titubante, poi caricando. Ahimè! Amedeo alzò le gambe e
cominciò la Sua corrida tra la gente che urlava, divertita all’inatteso
spettacolo, mentre i toreros ed i piccadores guardavano con dispregio
quell’intruso, che doveva essere un pazzo.
Con quelle lunghe gambe attraversò
di un baleno tutta l’arena, ma il toro stava per atterrarlo, mentre la folla
urlava in subbuglio, e la nobile dama stava per svenire, ed Aimone e
l’istitutore avevano le mani nei capelli, pallidi, anelanti, tremanti di
angoscia e di sgomento. Amedeo si fermò col cuore in gola, il toro gli stava
quasi sopra, si voltò, riprese la corsa, riattraversò diagonalmente l'arena in
un baleno, arrivò, trafelato sotto la balaustra, spiccò un salto, si ritrovò
nel palco, mentre il toro puntava li, dove Egli era un attimo prima.
L’arena fu in tumulto tra applausi
ed urla di entusiasmo e lanci di cappelli. I giornali Madrileni ne fecero un
gran parlare e dissero chi era il protagonista: il figlio del figlio dell’ex Re
di Spagna: i giornali Italiani si imposero il silenzio.
Ce lo ricordava un giorno, dietro
mia richiesta, questo episodio, lo stesso Principe Amedeo su un autobus che ci
portava lungo il lago di Carezza, in Alto Adige. Insisteva sulla paura tremenda
che aveva provato quando il toro stava per infilarlo. Egli era seduto ad una
delle ultime poltrone dell’autobus.
Finita la storia ci voltammo a
vedere il paesaggio incantevole, ma quando cercammo il Duca, non c’era più! Ma
dove era andato? Scomparso? Volatilizzato?
Facemmo fermare la macchina: era
fuoriuscito dal finestrino, si era, come uno scoiattolo, arrampicato sul tetto
dell’autobus, ed ora se ne stava lassù, disteso, e sorrideva, c strizzava
l’occhio come per dire: ve l’ho fatta!
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