Nei giorni scorsi è tornato in libreria,
edito da Pagine nella collana “I
libri del Borghese”, la casa editrice diretta da Luciano Lucarini, “La guerra
1915-18”, (pp-171, € 17,00), un volume che pubblica i testi delle conversazioni
tenute presso il Circolo di Cultura ed Educazione
Politica Rex nelle domeniche del 1965, per illustrare le vicende della Grande
Guerra, secondo un organico programma indicato da Gioacchino Volpe, il grande
storico che del libro ha scritto la prolusione, e che introduce agli scritti di
Ugo d’Andrea, “l’Italia del 1915 e le ragioni del nostro intervento in guerra”,
Enzo Avallone, “L’Esercito italiano nella guerra 1915 – 1918”, Vittorio Tur,
“La Marina italiana nella guerra 1915 – 1918”, e Roberto Lucifero, “La vittoria
e il Re soldato”.
Osserva Gioacchino Volpe che “l’Italia
ufficiale non sembra si riscaldi troppo per questo evento. Forse perché esso fu
nazionale o irredentista, laddove oggi, per chi ci governa, tutto è o dovrebbe
essere internazionale, europeo, atlantico, cosmopolita? e la parola “Nazione”
viene quasi cancellata dal vocabolario politico, come che i due concetti siano
contraddittori? O perché si teme di urtare partiti di Sinistra e del Centro-Sinistra
che, nei mesi fra il 1914 e il ‘15 furono e poi si mantennero avversi alla
guerra e fecero quel che poterono per insidiarla o svigorirla? O perché, quando
si parla di quei fatti, non è sempre possibile, neppure ricorrendo a ridicole
circonlocuzioni o al silenzio, come si suole, nascondere certi nomi e
innanzitutto un nome di Re? O perché oggi penne e lingue sono tutte
affaccendatissime a parlare di “Resistenza”, a glorificare la “Resistenza” di
cui ricorre il ventennale?”
Per Volpe la Grande Guerra è la “prova
dell’Italia unificata, conclusione o consacrazione del Risorgimento”. E ricorda
le parole del Re “siate un Esercito solo”. E “prima resistettero alle poderose
offensive austroungariche: poi presero essi l’iniziativa dell’azione, ripassarono
il Piave, liberarono le province invase, giunsero a Trieste e Gorizia e Trento
e Fiume e Zara, cioè ai “confini che natura pose”. Giornate inebrianti per chi
le visse”. Fu la prima occasione di un popolo finalmente unificato nel Regno
consacrato dal voto popolare nei plebisciti che lungo gli anni si tennero nei
territori già sotto dominio straniero, nei regni e nei principati confluiti
nello Stato nazionale. Per poi venire a parlare del tempo presente, della
democrazia sociale che “con la sua scarsa sensibilità nazionale, con le sue
solidarietà ideologiche oltre i confini, con suo regionalismo, non ci dà molto
affidamento”. Valutazioni valide anche per l’oggi.
Il testo della prima conversazione è di Ugo
d’Andrea, giornalista, scrittore (sua la voce Nazionalismo nell’Enciclopedia Italiana), parlamentare: “L’Italia
nel 1915 e le ragioni del nostro intervento in guerra”, una ricostruzione
approfondita dell’evoluzione della storia politica e sociale del nostro Paese a
partire dai primi anni del regno di Vittorio Emanuele III, con l’azione sociale
di Giolitti, il suffragio allargato, il monopolio delle assicurazioni, la
guerra di Libia nel 1911 ampiamente condivisa. Ricorda l’azione politica
fortemente innovativa, spesso ardita, dello statista di Dronero, la sua
apertura ai radicali con Credaro, Nitti, Ettore Sacchi, il dibattito politico
con Gaetano Mosca, il ruolo del Corriere
della Sera di Albertini. D’Andrea ripercorre le tensioni politiche ideali
di quegli anni il nazionalismo nato 1910, i similari movimenti francesi, con l’Action Française e Maurras. C’è una
ricognizione importante del pensiero e delle opere di quanti operarono in
questo momento straordinario dalla parte dell’irredentismo. E racconta le
iniziative politiche diplomatiche del Marchese di San Giuliano e la
preparazione dell’intervento, la difficile ma determinata modifica
dell’equilibrio internazionale con l’abbandono della Triplice Alleanza per puntare su un’intesa che, definita a Londra in
un trattato firmato il 26 aprile, alla vigilia dell’ingresso in guerra, avrebbe
riportato l’Italia in una alleanza con le potenze marittime, già in passato
ritenuta necessaria, “perché abbiamo 8.000 Km di coste da difendere” che ci farà vincere, come, invece, avendola
abbandonata, perderemo nella guerra 1940 - 45.
“L’Esercito italiano nella guerra
1915-1918” è di Enzo Avallone e si sofferma sulle difficili condizioni dell’Esercito
italiano all’inizio della guerra che già aveva impegnato le potenze europee nel
1914. Per descrivere le condizioni dell’arduo amalgama di forze prive di un
autentico passato militare, se si esclude l’esercito piemontese e quello
napoletano. Al di fuori di questi ambienti non c’era una “tendenza militare
delle famiglie, che trasmettesse l’abitudine all’esercizio delle armi di padre
in figlio”, quella tradizione che era stata sempre, ricorda, una forza
dell’esercito germanico. Le condizioni dei mezzi, degli armamenti, oltre che
dell’addestramento vengono analizzate con dovizia di particolari ricordando
l’opera di rammodernamento degli armamenti del generale Pollio ed in
particolare dell’artiglieria che si rivelerà essenziale nel corso di un
conflitto nel quale un ruolo speciale ebbero le posizioni fortificate del
nemico sulle montagne del Trentino che si dovettero smantellare, una dopo
l’altra, con l’impiego di grossi obici. Avallone richiama anche quello che ha
scritto Salandra, il Presidente del consiglio all’atto dell’intervento in un
volume di recente ripubblicato in anastatica, sulle insufficienze delle Forze
Armate che avevano consumato ingenti risorse nella recente guerra di Libia. E
dà conto dell’impegno di quanti erano tenuti a provvedere, comprese le
incertezze negli approvvigionamenti a causa della posizione politica di
neutralità che l’Italia aveva assunto. Significativo il caso delle
mitragliatrici. Erano state ordinate già da due anni alle industrie inglesi che
tuttavia tardavano a consegnarle per ragioni politiche, non essendo certo il
Regno Unito, nel 1914, della scelta che l’Italia, impegnata a fianco degli
imperi centrali dal 1882, avrebbe fatto. Si dovete pertanto provvedere a
progettare una mitragliatrice italiana, la Fiat 14, con la conseguenza che,
entrato in guerra, l’Esercito italiano disponeva di quell’arma, già da tempo
ritenuta sempre più importante nella guerra moderna, in quantità nettamente
inferiore al necessario.
L’Autore segnala una serie di errori delle
autorità di governo, dovute in primo luogo all’incertezza della scelta del
campo nel quale schierarsi e della segretezza della decisione di abbandonare la
Triplice Alleanza per schierarsi a fianco del Regno Unito e della Francia, a
seguito del Trattato di Londra, rimasto a lungo segreto, tanto che Sonnino non
volle darne una copia a Salandra finché non lo poté trascrivere di proprio
pugno e il Capo di stato maggiore italiano fu tenuto all’oscuro della firma del
patto e di una clausola importantissima di esso, cioè che entro 30 giorni dalla
firma (26 aprile) l’Italia doveva entrare in guerra. E fu, infatti, il 24
maggio, il passaggio del Piave. Racconta Avallone che “Cadorna venne a
conoscenza di questa clausola per vie secondarie, quando un colonnello del Comando
supremo, a Parigi, ne ebbe notizia dai francesi”. “Il Governo evidentemente –
scrive Avallone – non si rendeva conto del tempo necessario a una
mobilitazione, a una radunata, all’apprestamento delle Forze armate; il Governo
credeva bastasse premere un bottone perché l’esercito e la marina si potessero
scagliare oltre le frontiere o fuori dai porti”. Una mentalità formatasi
sull’esperienza delle guerre dell’800.
Il testo ricorda vari aspetti della
conduzione della guerra, ben noti ma ricostruiti con molta precisione sicché il
lettore viene guidato lungo gli eventi, con particolare riferimento a quelli
drammatici, delle battaglie sull’Isonzo, od a Caporetto quando emerse l’intollerabile
insufficienza organizzativa e di comando del nostro esercito, con le
conseguenze anche psicologiche che avrebbero creato un grave sbandamento
militare, politico e psicologico in un Paese costretto dagli immani sacrifici
dell’economia di guerra. Una crisi politico militare riscattata a Peschiera
quando il Sovrano, alla prospettiva del nuovo schieramento arretrato proposto dagli
Stati maggiori alleati, li convinse sulla base di una appassionata
rivendicazione del valore del soldato italiano del cui impegno di faceva
garante, certo che l’Esercito avrebbe saputo fermare il nemico, riconquistare
le posizioni perdute e riprendere l’avanzata verso Trento e Trieste. Poi
l’impegno del nuovo Capo di Stato maggiore, generale Armando Diaz, e
l’offensiva trionfale di Vittorio Veneto dopo la battaglia difensiva del giugno
in pianura.
Si legge tutto d’un fiato questo capitolo
nel quale sono descritte le operazioni militari, l’impegno dei Corpi d’armata,
delle divisioni, dei reggimenti, e dell’Aeronautica, che pure vantava una
storia recente, avendo esordito soltanto nella campagna di Libia nel 1911. C’è,
poi, la pagina degli eroi della Grande Guerra, da Cesare Battisti a Fabio
Filzi, da Damiano Chiesa a Enrico Toti. In concomitanza alle operazioni
militari ed in ragione di esse Avallone ricorda come la “Famiglia Reale, con tutti i suoi componenti,
sia stata in primissimo piano nel lavoro, nel sacrificio, nell’esempio. La
Regina trasformò il Quirinale in ospedale per feriti e mutilati (1915-1919) e
se stessa in materna infermiera; con lei la Duchessa d’Aosta. Il Re, lasciata
la direzione dello Stato, per quanto atteneva alle attività interne, a Tommaso
duca di Genova nominato luogotenente generale del Regno, partì fin dal primo
giorno per il fronte rientrò solo a guerra finita; né al fronte, si limitò al
controllo diretto della situazione e a visitare quotidianamente le truppe di
linea e i comandi (una volta, rovesciatosi il berretto e imbracciato
all’improvviso il fucile d’un soldato, volle sparare anche lui contro un
aeroplano nemico che sorvolava le prime linee) contribuendo con la sua
onnipresenza a mantenere elevato il morale; ma, quando necessario, seppe
intervenire con energia assumendosi anche responsabilità che andavano al di là
dei Suoi doveri costituzionali”, come a Peschiera, lo abbiamo già ricordato,
nel corso della riunione degli Stati maggiori degli eserciti dell’alleanza che
lui stesso aveva convocato.
Il capitolo si chiude con il bollettino
della vittoria.
“La Marina italiana nella guerra 1915
1918”si deve alla penna di Vittorio Tur, ammiraglio, che descrive innanzitutto i
compiti della Forza Armata, in particolare quello di bloccare efficacemente
l’Adriatico, di proteggere l’avanzata dell’esercito verso Trieste e di impedire
qualsiasi sbarco alle sue spalle. Inoltre la Marina doveva proteggere i nostri
convogli militari il vettovagliamento e i rifornimenti alla Nazione provenienti
da Gibilterra e da Suez.
Tra le forze armate la Marina certamente
aveva per tempo provveduto a un rafforzamento e ad un ammodernamento delle
unità sotto la direzione dell’ammiraglio Paolo Thaon di Revel che “aveva anche
provveduto ad assicurare efficienza e protezione alle basi navali, agli
approvvigionamenti di combustibili, alle armi e, avendo sempre sostenuto la
grande importanza in guerra di siluranti, sommergibili e aviazione, disdisse -
per poter provvedere alla loro costruzione - quella delle grandi corazzate da
30.000 tonnellate in progetto, contro il parere dei sostenitori di esse, tanto
più che i piani non garantivano loro la incolumità dalle offese subacquee”. In
particolare, ricorda Tur, Thaon di Revel era stato sempre un sostenitore dell’aviazione
e “grazie a lui, la Marina poté avere, al principio della guerra degli
idrovolanti, seppure in numero minimo rispetto ai 150 iniziali da lui richiesti
e che riteneva rispondenti alle necessità, numero che poté però, sempre grazie
a lui, essere accresciuto in seguito. Infatti durante la guerra arrivammo al 1.645
idrovolanti e aeroplani e a 49 dirigibili di vario tipo”.
Anche questo capitolo sulle operazioni in
mare è una lettura appassionante delle imprese dei nostri marinari che,
abilmente guidati resero praticamente inerte, incapace di operare la marina
austriaca che anzi perse per l’aggressione dei nostri mas prestigiose unità come la corazzata Santo Stefano e la Viribus
Unitis. Il testo dà conto delle nostre unità, della loro dislocazione,
delle operazioni nelle quali sono state impegnate. Il lettore troverà anche i
nomi di valorosi ufficiali e marinari e delle loro straordinarie imprese, dalla
“beffa di Buccari” alla vittoria di Premuda, l’affondamento delle corazzate
Wien nella rada di Trieste ad opera di Luigi Rizzo, Tegetthoff e Szent Istvàn
(Santo Stefano). In tutti questi avvenimenti emerge il nome di Luigi Rizzo il
quale sarà decorato di medaglia d’oro e insignito dell’Ordine Militare di
Savoia e Conte di Grado. Altro insigne marinaio, l’Ammiraglio Umberto Cagni di
Bu Meliana, Comandante delle forze navali destinate a Pola.
Il volume si chiude con una conversazione di
Roberto Lucifero intitolato “La vittoria e il Re soldato”, pagine che
sottolineano il ruolo e l’impegno del Sovrano nella fase precedente l’entrata
in guerra e nella sua presenza al fronte nel corso dell’intero conflitto.
Ricorda, in particolare, quanto gli aveva riferito il padre a proposito di una
serie di colloqui con Vittorio Emanuele III, già nell’estate del 1914. Il Re
aveva chiara l’idea che per motivi storici era inevitabile che fosse giunto il
momento della completamento dell’unità d’Italia che non si era potuta
raggiungere prima. Inoltre era consapevole dello sviluppo del conflitto e dell’inevitabile
impegno degli Stati Uniti d’America che sarebbe avvenuto soltanto nel 1917, ma
che lui ben tre anni prima riteneva certo.
“Il Re, dunque, volle la guerra. E, io
credo, possiamo dire che in certo senso la impose perché, a un determinato
punto, se il governo non avesse avuto lo stimolo e l’appoggio del Re di fronte
alle resistenze del Parlamento e di gran parte del Paese, con le minacce del socialismo
sempre pronto a crear disordini ogni volta che il Paese avesse particolare
bisogno d’ordine, probabilmente a quella decisione non si sarebbe venuti”.
In conseguenza di ciò scrive Lucifero: “il
24 maggio si chiama Vittorio Emanuele III. Ma anche la guerra si chiama
Vittorio Emanuele III sotto tutti gli aspetti multiformi del Re: del Re il
quale sapeva di esser Lui mallevadore di quella battaglia condotta dal suo
popolo; dell’uomo, che si accompagnava ai soldati nei luoghi più rischiosi giorno
per giorno, ora per ora, che in mezzo agli scoppi delle granate mangiava il suo
fagottino seduto sopra un sasso; del capo di una Famiglia, il quale ha voluto
che tutti i Principi di Casa Savoia partecipassero alla guerra (e uno c’è
morto, il Conte di Salemi); ha voluto che tutte le donne della Sua famiglia
partecipassero alla guerra. E le avete viste nella uniforme gloriosa della
Croce Rossa, con alla testa quella Regina di cui, nel Suo ultimo viaggio,
ebbero tanta paura da non consentirLe di passare alcune ore in cabina nel porto
di Napoli, quando dall’Egitto doveva trasferirsi a Montpellier”. Una sosta per
incontrare un medico che si sperava potesse alleviare le sue sofferenze, una
sosta che le fu impedita dalle autorità della repubblica.
La figura del Sovrano e della Regina Elena
riempiono con il ricordo di episodi significativi della loro vita questo
capitolo conclusivo, come in un modo diverso non sarebbe stato possibile, per sottolineare,
nel centenario della Grande Guerra, che per il Regno d’Italia, fu la Quarta
guerra d’indipendenza, come fu portata a completamento l’unità nazionale. Un
impegno del Circolo di cultura ed educazione
politica Rex, istituzione culturale che risale al 1948, indipendente, sostenuta esclusivamente dai
soci, e che ha visto alla presidenza e nel Consiglio direttivo personalità
della cultura, della politica delle Forze Armate e dell’Amministrazione dello
Stato, per ricordare eventi ed approfondire momenti salienti della storia
italiana, sempre con la serenità di chi crede nei valori e nella identità
nazionale.
12 marzo 2017
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