di Aldo A. Mola
Resurrecturi nos
salutant...
“Si apron le tombe/si
levano i morti./I martiri nostri/son tutti risorti./ Bastone tedesco/Italia non
doma ...Va fuori d'Italia, va fuori stranier...”. Testo di Luigi Mercantini
(1821-1872) e musica di Alessio Olivieri
è l'inno di Garibaldi, molto meglio di quello neoguelfo, oggi in uso.
In un Paese oppresso da
una cappa di calura, bloccato dal malgoverno pubblico/privato delle carissime e
caotiche autostrade, saturo dei sermoni quotidianamente ammanniti da chi
dovrebbe parlare solo quando davvero necessario e ormai arcistufo del
chiacchiericcio inconcludente di “movimenti” agonizzanti, il Premio Acqui
Storia 2021 saggiamente dà la parola ai Morti. Sono i più titolati a ottenere
ascolto in un'Italia che precipita frastornata verso una crisi istituzionale
dagli esiti imprevedibili: elezioni amministrative ancora senza candidati
probabili (con un paio di sindaci ridotti a ghiaccioli in dissolvenza, quali
Chiara Appendino a Torino e Virginia Raggi a Roma), l'imminente inizio del
“semestre bianco” vietante lo
scioglimento delle Camere, l'elezione del futuro Capo dello Stato e, prima o
poi, quella delle Camere, drasticamente sforbiciate con voto quasi unanime di
parlamentari danzanti come dervisci rotanti e concluso con un taglio
riecheggiante l'urlo di Origene.
L'umanità delle Forze Armate italiane..
E fu così che,
presieduta da Gianni Oliva, la Giuria della sezione scientifica del Premio
Acqui Storia, il più antico e prestigioso in Italia per la storiografia, anche
divulgativa, e per il romanzo storico,
propone finalisti cinque libri accomunati da una macabra cifra: far parlare i
Morti.
Giovanni Cecini narra
il salvataggio italiano degli ebrei nella Francia meridionale e l'opera del
Generale Maurizio Lazzaro de' Castiglioni: un volume pubblicato dall'Ufficio
storico dello Stato Maggiore dell'Esercito, istituzione il cui percorso è
narrato dal generale di CdA Oreste Bovio che lo ha diretto a lungo con
risultati di grande prestigio. Alcuni concorrenti al Premio Acqui riducono la
storia d'Italia a “Messaggi di sangue”, a una sequenza di violenze perpetrate
dal Potere: repressione interna, stati d'assedio, “guerra sporca” (l'impresa di
Libia” del 1911-1912, come dall'altra combattessero crocerossine...),
esecuzioni nella Grande Guerra, squadrismo, Etiopia, ecc. ecc. È il caso del
libro di David Forgacs. Ne esce a pezzi la fortunata formula “Italiani, brava
gente”. Il documentato volume di Cecini mostra che la verità è tutt'altra.
Furono i militari italiani a tutelare gli ebrei nella Francia meridionale per
il superiore senso di umanità che, con tutte le eccezioni di ogni
esercito dall'antichità a oggi (chi ancora non la conosca, legga la Bibbia e
apprenderà qualcosa), ha contraddistinto le nostre Forze Armate in tutte le sue
componenti. Certo costruire lo strumento militare non è stato né immediato né
semplice in un Paese che è arrivato ultimo a darsi forma unitaria.
L'Italia data la sua
“nascita” al 1861, quando le mancavano Roma, Venezia, Mantova, Trento, Trieste,
l'Istria e le città italofone della Dalmazia. Gli Stati pre-unitari avevano
un’ottica meramente locale dello strumento militare, spesso quasi assente o
mercenario e bilanciato con la arcaica “difesa passiva” tipica dei secoli
andati: torri di guardia. Nascita, avvento e tormentose vicende delle forze
armate della neonata Italia sono descritti da un altro finalista dell'Acqui
Storia 2021, Marco Rovinello, nel poderoso volume Fra servitù e
servizio (ed. Viella), che passa in rassegna gli aspetti istituzionali,
ordinamentali, disciplinari, economici e sociali della leva obbligatoria, posta
alla base della costruzione del Regio Esercito nella saldatura fra corpi degli
Stati preunitari (Lombardo-Veneto asburgico, Ducati Padani, Granducato di
Toscana, Legazioni pontificie, Stato pontificio, Regno delle Due Sicilie...) e
della dilatazione di quelli da propriamente sabaudi divenuti nazionali: è il
caso di Guardia di Finanza e
Carabinieri.
… e la grandezza di
Napoleone
In Ei fu (ed. il
Mulino) Vittorio Criscuolo narra morte e resurrezione di Napoleone il Grande.
Studioso di lunga lena di illuministi, giacobini e della Restaurazione, autore
di un'ottima biografia dell'Imperatore pubblicata in epoca non sospetta, nel
bicentenario della morte del “piccolo caporale” Criscuolo esce dal coro con un
saggio sul mito che circondò Napoleone proprio dall'indomani della sua
deportazione a Sant'Elena da parte degli inglesi, ai quali si era arreso
confidando di essere libero di partire per il Nuovo Mondo. Altri suoi nemici
(era il caso dei prussiani) l'avrebbero volentieri ucciso senza scrupolo
alcuno. L'imperatore d'Austria, Francesco d'Asburgo, avrebbe invece faticato ad
autorizzare l’eliminazione fisica di suo genero e padre di suo nipote,
Francesco Carlo Napoleone, l'Aiglon. Il mistico Alessandro I di Russia non
dimenticava l'invasione della Grande Armée ma neppure un il brindisi di Tilsit.
Grigi e vendicativi, i
britannici si limitarono a umiliarlo, relegandolo a Longwood a Sant'Elena,
un'isoletta sperduta e inaccessibile, lontano da ogni contatto diretto con
l'Europa e sotto l'occhiuta e spesso indiscreta vigilanza del governatore
Hudson Lowe, che mai sarebbe passato alla storia se non fosse per quell'
incarico.
A Sant'Elena, come
scrive Criscuolo sulla scorta di amplissima memorialistica e documentazione,
malgrado si facesse sempre solennemente annunziare come “Sa Majesté l'Empereur”
e i lunghi bagni in acqua caldissima vegliati dalla comprensiva Albine Vassal
de Montholon, Napoleone sprofondava nella noia e si avviava alla depressione.
Ma l'Europa era inquieta. Insofferente della mordacchia imposta dalla Santa
Alleanza, essa aveva bisogno di un vessillo. Non lo trovava negli Stati di
terraferma. Nessun sovrano aveva la caratura necessaria per guidare la riscossa
dei diritti dell'uomo e del cittadino. Neppure lo zar Alessandro, cristiano
ortodosso, inviso a Roma e sul quale scommise persino un cospiratore generoso
come Annibale Santorre di Santa Rosa.
L'Idolo deve essere di
questo mondo ma al tempo stesso lontano, perché visto da vicino mostra le rughe
dell'esercizio del Potere, con tutte le sue contraddizioni e protervie.
“Isolato” non poteva più far male. Perciò Napoleone divenne l'Emblema della
libertà. Chi aveva creduto nella svolta liberale dell'Impero tra il suo rientro
in Francia dall'Elba a Waterloo non poteva ammettere di essersi sbagliato.
Erano pensatori politici del calibro di Benjamin Constant e di Gian Pietro
Viesseux. Ma anche molti che lo avevano odiato si convertirono. Napoleone
divenne Sogno, Poesia, un Mito.
A parte il celebre
ritratto alla sua morte scritto da Manzoni, “vergin di servo encomio e di
codardo oltraggio” (una distanza siderale da Federico Confalonieri che sognava
un regno italico per sé), anche il mite Silvio Pellico confessò: “io non
l'amava, ed or plorando il canto”. Napoleone divenne il punto di riferimento
della miriade di imprese sognate e mai attuate per liberarlo dalle grinfie
degli inglesi e poi di società segrete, non dimentiche di averlo venerato come
Osiride e che lo rimpiangevano perché
aveva debellato il potere temporale di papa Pio VII, deportato in Francia, e
aveva spezzato i ceppi per secoli imposti dai cristiani agli ebrei.
L'Europa che contava,
quella dei colti, sia reazionari sia rivoluzionari, moderati e riformatori,
lesse avidamente il “Manuscrit venu de St. Hélène d'une manière inconnue”
(1817) e poi il celebre “Memoriale” di
Emmanuel de Las Cases, che codificò la grandezza del Napoleone di cui la Nuova
Europa aveva bisogno: l'avvento degli Stati nazionali, la liberazione dei
“popoli oppressi” e, ciò che più contava e conta, la libertà di pensiero, che
tale non è se non si traduce in libertà di stampa e nell'elettività delle
cariche pubbliche. Il profluvio di opere e saggi pubblicati nel bicentenario
della morte di Napoleone (anche il gesuita Giovanni Sala ora ne indaga la
“religiosità” in “Civiltà Cattolica”) conferma la vastità della sua eredità
morale e la conseguente “sindrome di Sant'Elena”, il bisogno profondo di
riprendere squadra e compasso, a mezza via tra la Terra e il Cielo, come si
conviene all'umanità, fondendo poetica e
prassi.
La Sinistra neogiacobina allo sbando...
La Cinquina dell'Acqui
Storia 2021 dà voce a un altro illustre defunto: la Sinistra in Italia, vittima
di sé stessa - scrive lo storico e politologo Paolo Pombeni in Le sinistre:
un secolo di divisioni (il Mulino) - e della sua incapacità fisiologica di
unire pensiero e azione: esattamente l'opposto di quanto perseguito dalla
“sinistra hegeliana” e del suo maggior profeta, Karl Marx. Nel brillante
“volumetto” (definizione del suo autore, p. 177), nei cent'anni dalla nascita
del Partito comunista d'Italia, sorto per scissione al congresso del Partito
socialista italiano a Livorno nel gennaio 1921, sino a oggi la sinistra è una
tragica sequenza di lacerazioni, duelli, scomuniche e, aggiungiamo, di
eliminazione talvolta feroce degli avversari interni e di frange scomode, tipo
“Bandiera rossa” annientata alle Fosse Ardeatine.
A tutto considerare
però quel tarlo è più antico. Cominciò a rodere proprio dall'indomani del
crollo di Napoleone I e dell'ascesa dei liberali costituzionali, che si
trovarono piantato nel fianco il pugnale di Filippo Buonarroti, dei Maestri
Sublimi Perfetti, della cosmologia degli estremi seguaci di Caio Gracco Babeuf.
Quando la sinistra garibaldina ed ex mazziniana intransigente in Italia dette
vita ai Radicali, guidati da Agostino Bertani, Alberto Mario e altri, e ritenne
giunta l'ora di assumere responsabilità in Parlamento, un'ala fanatica continuò
a rifiutare ogni dialogo con l'ordine costituito e a bighellonare negli spazi
infiniti dell'Utopia, avocando a sé pulsioni anarchiche e socialisteggianti.
Nulla a che vedere con Garibaldi (il cui motto era e rimase “Italia e Vittorio
Emanuele”), con Adriano Lemmi, gran maestro del Grande Oriente d'Italia e
sodale di Francesco Crispi e di Giosuè Carducci, e di statisti quali Giuseppe
Zanardelli e Sandrino Fortis.
Alle radici del secolo
descritto con puntuale sagacia da Pombeni vi sono figure quali Andrea Costa, il
protosocialista che nel 1882 scelse la Camera dei deputati quale terreno di
confronto con il Potere. Lui, come Prampolini, Badaloni, Agnini, “se personalmente
erano trattati come egregie persone, come meritavano, politicamente erano
considerati un caso eccezionale” osservò Giolitti nelle Memorie. Costa
era il banditore del “socialismo integrale”, cioè aperto a tutte le varianti
dell'incapacità di scegliere e di “saltare il fosso” e assumere responsabilità.
Nell'agosto 1892 a Genova il Partito dei lavoratori italiani (poi Partito
socialista italiano) nacque per separazione
dal socialismo integrale di Costa (infatti assente) ma rimase a sua
volta con un piede nella legalità e un altro nella “rivoluzione” e corrivo a
svigorire la volontà in velleitarismo.
Dal 1903 al 1922
Giolitti rimase in attesa che il partito di Filippo Turati e Claudio Treves e
le sue “varianti” (come i “riformisti” di Bissolati ) si decidessero a
partecipare al governo nazionale, come avevano fatto (anche con risultati
discreti) in amministrazioni locali (incluse città quali Roma e Milano). Tutto
inutile. Fino a quando, anzi, i socialisti si consegnarono mani e piedi legati
al Partito comunista di Palmiro Togliatti, Luigi Longo e Pietro Secchia, prima
nel patto di unità d'azione e poi nel fronte popolare, con esiti catastrofici
per socialisti e laici: perché ne nacque l'inclusione dei Patti Lateranensi
nella Costituzione e la lunga dipendenza dall'Unione Sovietica di Stalin: un
capolavoro di masochismo neogiacobino. Quest'ultimo, osserva acutamente Pombeni
in un saggio che è anche sintesi di vorticose cronache “politiche” (elezioni,
scissioni, “divagazioni”), è la cifra dominante del “sinistrismo”, metastasi
perpetua della Sinistra. La quale, dopotutto, quanto conta oggi in Italia se
non avesse il conforto dei voti di ex democristiani, repubblicani, socialisti e
persino di liberali via via slittati verso l'approdo “à gauche”? Attraverso le
pesanti lenti, le fisse e gelide pupille di Enrico Letta (marxista? socialista?
giacobino?...) vedono bene la realtà: il peso elettorale del Partito
democratico che lo chiamò da Parigi secondo i sondaggi racimola appena il
17-19% dei voti consensi di quel 60-65% di italiani che ancora va a votare.
Cinque punti meno di quelli del 1919-1921, metà di quelli ottenuti da PCI e PSI
alla Costituente e nel 1948, quindici in meno rispetto alle europee del 1984...
Letta non è Enrico Berlinguer. Puntare sui Grilloidi, come fece sino a ieri,
vuol dire mettere in soffitta non solo la barbosa “questione morale” ma anche
quella “culturale”. Vuol dire credere in Azzolina, Dadone e nelle loro varianti
anziché nel Risorgimento, in Garibaldi e, non bastasse, in Carlo Pisacane.
...il ruolo della libera stampa...
Nella Cinquina dei
finalisti l'Acqui Storia 2021 ha dato voce a un altro illustre estinto:
l'entusiasmo del giornalismo italiano dalla caduta del governo Mussolini alla
Repubblica (1943-1947). Ne scrive Giancarlo Tartaglia nel poderoso volume Ritorna
la libertà di stampa (ed. il Mulino). Segretario della Fondazione “Paolo
Murialdi” e autore di numerosi saggi sulla storia del giornalismo italiano,
Tartaglia passa in rassegna centinaia di testate negli anni dell'“Italia divisa
in due”, di defascistizzazione ed epurazione (che vide molti salvati e alcuni
sommersi, presto riemersi) e l'avvio verso il centrismo. Particolarmente
gustoso è l'ampio capitolo sull'“albo professionale”. L'Italia post-fascista
poteva fare a meno di “epurandi” quali Giovanni Ansaldo, Maio Appelius, Luigi
Barzini, Giulio Benedetti, Gherardo Casini, Curzio Malaparte, Ugo Ojetti,
Ardengo Soffici, Aldo Valori, Giorgio
Vecchietti, Piero Bargellini, Guido Manacorda, Giuseppe Ungaretti... e tanti altri,
come volevano gli “epuratori”? Aveva capito tutto Pietro Nenni quando osservò
sarcasticamente che “a fare a gara a fare i puri, troverai sempre uno più puro
che ti epura”. Ma già un Maestro, molto più autorevole di Nenni (“Premio Stalin
per la pace”), per fermare chi si accingeva a lapidare una prostituta aveva
detto: “Scagli la prima pietra chi è senza peccato!”.
...e dell'editoria in tempi di pandemia.
Malgrado il covid-19 e
la conseguente chiusura di archivi e biblioteche e il divieto di convegni, conferenze
e colloqui (un pesante “vulnus” contro la vita culturale a lungo quasi
clandestina) l'editoria non ha cessato di fare la sua parte. Lo provano i 192
volumi presentati all'Acqui Storia 2021: 50 nella sezione scientifica, 72 in
quella divulgativa e altrettanti per il romanzo storico, con soddisfazione
dell'Assessore alla Cultura Cinzia Montelli.
Certo sono rimaste ai
margini della Cinquina, ma non dell'attenzione, opere di vasto impianto e di
valore, quali Da Vienna a Parigi di Giuseppe Romeo (ed. Morlacchi),
sulla conferenza di pace del 1919-1920 e le conseguenze della sconfitta
dell'Europa (altra voce che si leva dall'abisso), e il “j'accuse” di Fabrizio
Gatti, L'infinito errore, storia di una pandemia che si doveva evitare
(ed. La nave di Teseo): lettura raccomandata al ministro Speranza ed ennesimo
invito a lasciar parlare i morti, dopo il diluvio di chiacchiere di virologi e
affini.
Dunque, “si apran le
tombe/si levino i morti...” e gli italiani tornino a vivere col rispetto dei
diritti sanciti dalla Costituzione arbitrariamente soffocati dai famigerati
Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, la cui legittimità è ora
definitivamente confutata.
Aldo A. Mola
DIDASCALIA: Grandezza e
solitudine del Genio del Mondo: Napoleone sul “Bellorophon”, prigioniero del
Mito molto più che degli inglesi.
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