di Aldo A. Mola
“Lento pede” verso la verità storiografica
Ogni anno un piccolo passo avanti verso la
verità sul 25 luglio 1943. Quel giorno, a conclusione di un colloquio di venti
minuti iniziato alle 17 a Villa Savoia, Vittorio Emanuele III revocò Benito
Mussolini da capo del governo e lo sostituì con il Maresciallo d'Italia Pietro
Badoglio. Secondo Luigi Salvatorelli e altri studiosi e polemisti fu il terzo
“colpo di Stato” messo a segno dal sovrano in un trentennio, dopo la
dichiarazione di guerra all'impero d'Austria-Ungheria il 24 maggio 1915 e
l'insediamento del governo Mussolini il 31 ottobre 1922. In un saggio del 1953
Elio Lodolini denunciò La illegittimità del governo Badoglio (ed.
Gastaldi). Troppi però trascurano che l'ingresso nella Grande Guerra fu
previamente approvato dal Parlamento e che il 16 novembre 1922 il governo
Mussolini alla Camera ebbe il voto favorevole di tutti i partiti
costituzionali, i cui rappresentanti del resto ne facevano parte, compresi i
popolari di don Sturzo, i demosociali di Colonna di Cesarò e i demoliberali
capitanati da Giolitti, Orlando, Salandra, e ottenne il “si” quasi unanime del
Senato.
Re costituzionale, Vittorio Emanuele III operò
con l'avallo delle Camere sulla base dei poteri di “capo supremo dello Stato” e
comandante delle forze armate, come stabilito dall'articolo 5 dello Statuto
promulgato da Carlo Alberto il 4 marzo 1848. Il 25 luglio fu un'eccezione e in
quali termini? La revoca di Mussolini da capo del governo può essere imputata
al re quale arbitrio incostituzionale? Il sovrano abusò del regio potere
sostituendo il duce con il duca di Addis Abeba?
In Come muore un regime. Il fascismo verso
il 25 luglio (ed. il Mulino) Paolo Cacace, studioso di istituzioni e
politica estera e autore dell'intrigante saggio Quando Mussolini rischiò di
morire (ed. Fazi), mira a mettere ordine nelle “cordate” che
lavorarono al “cambio” al vertice del governo di un'Italia ormai militarmente
sconfitta, con la Sicilia già invasa dagli anglo-americani e dopo il
bombardamento dell'aviazione americana su Roma il 19 luglio, proprio mentre
Mussolini incontrava per l'ennesima volta Hitler, precisamente nella villa dell'industriale
e finanziere Achille Gaggia, non lontano da Feltre, raggiunta dai due in aereo
sino a Treviso, in treno fino a Feltre e infine in auto.
Pressato dai vertici delle forze armate, il
duce si proponeva di chiedere che, con i buoni uffici del Giappone (in guerra
contro gli USA e i suoi alleati occidentali ma non contro la Russia), la
Germania imboccasse la via di un armistizio con Stalin per rovesciare la sua
potenza di fuoco verso il Mediterraneo. Diversamente l'Italia, ormai
soccombente e con armate disperse all'estero, sarebbe stata costretta a una
pace separata. Hitler, invece, ancora sicuro di sconfiggere i sovietici (che
proprio in quei giorni lanciarono l'offensiva vincente) e famelicamente
bisognoso di sfruttare le risorse delle terre soggiogate, per due ore deplorò
la resa degli italiani in Sicilia, a volte quasi senza combattere, e prospettò
la completa subordinazione delle loro infide a generali tedeschi. L'incontro si
risolse in un monologo di Hitler, che ventilò anche il possesso di armi segrete
invincibili: le future V1 e V2, mentre però gli USA lavoravano all'atomica.
Rientrato pilotando personalmente l’aereo nella
Roma sconvolta dai bombardieri statunitensi (3.000 morti, 10.000 feriti, rovine
immense nel quartiere San Lorenzo), Mussolini dichiarò al generale Vittorio
Ambrosio, capo di stato maggiore generale, di voler a scrivere a Hitler quanto
non gli aveva detto nell’incontro. Troppo tardi...
Nel
paragrafo “bombe nella villa degli arcani”, Cacace torna a indagare
sull'attentato ordito dal maggiore Cesare Del Vecchio e dal capitano Antonio
Giuriolo (ufficiali degli alpini reduci dalla campagna di Russia) per uccidere
il fuehrer e il duce al loro arrivo a Villa Gaggia; attentato sfumato perché,
con i commilitoni pronti ad agire, essi vennero trasferiti altrove pochi giorni
prima del convegno. In pagine dense di allusioni e di “forse”, l'autore
ripercorre il reticolo di vaghe connivenze tra militari, esponenti del partito
d'azione, socialisti, repubblicani, come Cino Macrelli, accenna a un colloquio
tra l'insigne latinista Concetto Marchesi, comunista, e il generale Raffaele
Cadorna e conclude che secondo l'azionista Ugo La Malfa fu il Vaticano a
imporre l'“alt” all'esecuzione del “colpaccio”. Aggiunge, quasi per inciso, che
l'intrigo era forse noto a Giuseppe Bottai, il gerarca (stranamente antisemita)
che legò il nome alla Carta della Scuola.
Quanti “figli della Vedova” nel Gran
Consiglio...
Generoso dispensatore dell'etichetta di massone
a politici, militari e grandi affaristi (Vittorio Emanuele Orlando, a sua detta
addirittura affiliato alla loggia “Propaganda massonica” del Grande Oriente
d'Italia; Pietro Badoglio, classificato come “massone coperto”; Armando Diaz,
“in odore di loggia”; Giuseppe Volpi e Vittorio Cini, entrambi intrinseci di
Angelo Gaggia, e un lungo elenco di generali la cui iniziazione in realtà non è
affatto documentata), Cacace non scrive che, a differenza dei predetti, proprio
Bottai, “dottore in giurisprudenza, residente a Roma in via Ancona 65”, il 20
aprile 1920 era stato iniziato “apprendista massone” nell'“officina” romana “La
Forgia”, all'obbedienza della Serenissima Gran Loggia d'Italia (GLI) e fu
radiato per morosità il 19 maggio 1923, dopo la dichiarazione di
incompatibilità tra fasci e grembiulini, deliberata dal Gran Consiglio del
Fascismo su impulso dei nazionalisti e con la consulenza di un ex sacerdote che
per validi motivi Mussolini evitava di incrociare e si guardava dal nominare.
Poiché la storiografia si fonda sul vaglio di
documenti anziché su frammenti di memorie spesso più difensive che oggettive,
né si basa su elucubrazioni e fantasiose illazioni, Cacace separa
scrupolosamente il grano dei “fatti accertati” dal loglio di quelli meramente
“supposti”, con l'intento di rispondere alla domanda fondamentale sul 25 luglio
1943: chi davvero preparò e quando decise la sostituzione di Mussolini con
Badoglio?
Al netto di progetti di minor portata e di
propositi che si esaurirono o non ottennero alcun risultato pratico (rientrano
in tale ambito i contatti instaurati tra la Principessa di Piemonte, Maria
José, verosimilmente non all'insaputa del principe ereditario, Umberto, il
sostituto segretario di Stato vaticano monsignor Giovanni Battista Montini e
taluni notabili dell'antifascismo incluso Concetto Marchesi), fermo restando
che i partiti (incluso il comunista) erano ancora del tutto privi di
organizzazione adeguata e di effettiva incidenza sul corso degli eventi, le
“cordate” principali in azione per il riassetto o il “cambio” al vertice del
governo sono tre. Anzitutto i componenti del Gran consiglio del fascismo, la
massoneria e i militari. Benché si possa parlare di “filiere” separate e preso
atto che ciascuna di esse procedette nel massimo riserbo, ognuna ignara delle
altre se non per cenni confidenzialmente scambiati tra taluni loro componenti,
senza però che l'una conoscesse protagonisti e progetti dell'altra (farsi
scoprire comportava finire agli arresti o peggio...), in una visione sintetica
della loro trama si evince che tutte e tre facevano comunque conto
sull'intervento risolutore del Re quale referente ultimo della loro iniziativa.
Procedendo per sommi capi e senza quindi
privare il lettore del piacere di addentrarsi nei meandri esplorati da Cacace,
la “cordata” più visibile e ripetutamente indagata fu quella allestita da Dino
Grandi, conte di Mordano, proto-fascista, a lungo ambasciatore a Londra,
presidente della Camera dei deputati, in convergenza con Giuseppe Bottai e con
Luigi Federzoni, nazionalista, dal 1929 al 1939 presidente del Senato e
massonofobo. Da quella prima intesa nacque la richiesta a Mussolini di
convocazione del Gran Consiglio, dal 1928 elevato a “organo della rivoluzione
fascista”, che non si radunava dal 7 dicembre 1939, cioè da prima dell'ingresso
dell'Italia in una guerra che da “parallela” divenne via via “subalterna”
rispetto a quella della Germania. Anche il filotedesco Roberto Farinacci, “ras
di Cremona”, razzista oltranzista, e il chiassoso segretario del partito
nazionale fascista, Carlo Scorza, si unirono nella richiesta della
convocazione, suggerita da Vittorio Emanuele III a Grandi come “un surrogato
del Parlamento”. Le Camere non venivano convocate neppure dinnanzi alla
catastrofe militare imminente, a differenza di quanto era avvenuto nel novembre
1917, quando istituzioni e “politica” risposero al disastro di Caporetto con un
governo nuovo e l'intervento solenne degli ex presidenti del Consiglio
(Salandra, Boselli e Giolitti) in una seduta durante la quale Filippo Turati
dichiarò che anche per i socialisti la Patria era sul Piave.
A differenza di quanto spesso ripetuto,
l'ordine del giorno illustrato da Grandi alle 17 del 24 luglio dinnanzi al Gran
Consiglio radunato nella sala del Pappagallo a Palazzo Venezia, in una Roma
angosciata e deserta, non prospettò affatto la fine del fascismo, né (a
differenza di quanto asserito da Emilio Gentile) l'“eutanasia del regime”, ma
semplicemente l’assunzione del comando delle forze armate da parte del sovrano,
la nomina di titolari dei ministeri militari (fagocitati da Mussolini, capo del
governo e ministro dell'Interno e degli Esteri), l'appello alla resistenza
militare in costanza delle istituzioni del regime, a cominciare dal Gran
Consiglio stesso, e la configurazione del ruolo politico del duce, la cui
sostituzione né Grandi né quanti approvarono il suo ordine del giorno (compreso
Galeazzo Ciano, genero di Mussolini) esplicitamente proposero. Non per caso,
dopo poche ore di sonno a Villa Torlonia, la mattina del 25 il duce tornò a
Palazzo Venezia nella convinzione di avere ancora in pugno il governo del
Paese. In quella convinzione sollecitò e ottenne udienza dal Re alle 17 a Villa
Savoia, anticipando di poche ore quella ordinaria, prevista per l'indomani.
Per motivi di cui poco oltre diciamo, non è il
caso di insistere sull'antica affiliazione massonica di parecchi componenti del
Gran Consiglio e meno ancora di insinuare il massonismo di chi sino a prova
contraria non fu mai iniziato. È il caso dei due quadrumviri superstiti, Cesare
Maria De Vecchi di Val Cismon ed Emilio De Bono.
Che Giacomo Acerbo, Giuseppe Bottai, Alfredo De
Marsico (dal 1911), Roberto Farinacci, Giovanni Marinelli ed Edmondo Rossoni,
in tempi remoti e per diversa durata, fossero stati in logge del Grande Oriente
d'Italia (GOI) o della Gran Loggia d'Italia (GLI) non consente di dedurne che
fossero in combutta in quanto massoni. Solo nel corso della seduta alcuni
“fratelli” aggiunsero la loro alla firma dei proponenti originari. Indurre la
consonanza di vedute tra gerarchi solo perché “figli della Vedova” (ovvero
massoni) comporterebbe induzioni e deduzioni su fatti mai acclarati: anzitutto
erano a conoscenza gli uni degli altri dell'antica militanza in Comunità
contrapposte in contese poco fraterne e duramente competitive come quelle
guidate da Domizio Torrigiani e da Raoul Palermi? Avevano, e quale, un abbozzò
di progetto unitario che li accomunasse al quartetto
Grandi-Federzoni-Bottai-Ciano, massonofagi o massoni pentiti? A profittare del
loro pronunciamento, come Grandi stesso apprese con amarezza, sarebbe stato il
successore in pectore di Mussolini, il maresciallo Badoglio che
taluni, riecheggiati da Cacace, classificano “massone coperto” o “non
dichiarato”, ma senza produrre alcun documento probante.
… e con le Stellette
Del pari, mentre è assodata l'iniziazione del
maresciallo Ugo Cavallero (sia al GOI, sia alla GLI), notoriamente antagonista
di Badoglio, il quale lasciò sulla scrivania in bella evidenza il “memoriale”
che gli costò la vita (venne “suicidato” da Kesselring perché rifiutò di
assumere il comando di un esercito italiano succubo dei tedeschi), del generale
Giacomo Carboni e di altri minori protagonisti del “colpo di Stato”, come il
generale Soleti e (molto importante) il Maresciallo Messe, caduto prigioniero
degli inglesi e futuro capo di stato maggiore generale, manca qualunque prova
di appartenenza massonica dei capi della “cordata” militare. Questa risultò la
principale e vincente, in convergenza con il duca Pietro d'Acquarone, ministro
della Real Casa di Vittorio Emanuele III. Essa fu incardinata sul capo di stato
maggiore generale Vittorio Ambrosio e i suoi fidatissimi collaboratori, quale
il giovane e fattivo Giuseppe Castellano, nessuno dei quali risulta massone,
come non lo era il Maresciallo Enrico Caviglia benché pare che il Re non l'abbia
preferito a Badoglio proprio perché non voleva si dicesse che la sostituzione
di Mussolini riportava al potere la massoneria.
Meriterebbe un'ampia evocazione il ruolo svolto
a ridosso del 24-25 luglio da Domenico Maiocco, capofila della Massoneria Italiana
Unificata (biografato dal colonnello Antonino Zarcone), solerte tramite fra
massoni, gerarchi di sicura sponda monarchica (come De Vecchi e Alfieri) e
Ivanoe Bonomi, che guidava le forze antifasciste “aventiniane” con Marcelo
Soleri (mai aventiniano né massone, a differenza di quanto afferma Cacace). Del
pari va ricordato che il padre di Federico Comandini, nella cui abitazione
venne fondato il Partito d'azione, era Ubaldo, repubblicano intransigente e
massone nella loggia di Cesena. Insomma, a lungo costretta al sonno e con
labili legami con le Comunità d'Oltrape, d'oltre Manica e oltre Atlantico, la
massoneria in Italia, appena affiorante, non aveva affatto un progetto univoco.
Importa invece arrivare alla conclusione, cui
conduce il materiale innovativo proposto da Paolo Cacace. Il vero regista del
“cambio” fu l'impenetrabile Vittorio Emanuele III, unico vero interlocutore
degli Alleati, in specie degli inglesi, consci che il sovrano era il garante
della continuità dello Stato d'Italia, la cui legalità internazionale e interna
poggiava su forze armate e corpo diplomatico.
Il disegno del Re era chiaro: ottenere che
l'Italia potesse arrendersi e ottenere un “armistizio” (cioè la “tregua” delle
armi) come il 9 settembre i giornali denominarono la “resa senza condizioni” (surrender),
subita dopo le intricate trattative condotte da Giuseppe Castellano e firmate a
Cassibile. Nello strumento della resa gli anglo-americani ordinarono all'Italia
la “defascistizzazione”, altra cosa dalla “epurazione”, inventata per arruffate
ragioni etiche da chi voleva scaricare sulla sola Corona il passivo della
guerra e far dimenticare di aver votato a favore di Mussolini o di essere longa
manus di Stalin.
Non fu “colpo di Stato”
Il 25 luglio fu dunque un “colpo di Stato”? La
risposta è no. Vittorio Emanuele III esercitò il potere secondo l'articolo 65
dello Statuto: “Il Re nomina e revoca i suoi ministri”. Come a suo tempo
osservò Luigi Einaudi, monarchico e presidente della Repubblica, il Re mostrò
che “la prerogativa sovrana può e deve rimanere dormiente per lunghi decenni e
risvegliarsi nei rarissimi momenti nei quali la voce unanime, anche se tacita,
del popolo gli chiede di farsi innanzi a risolvere una situazione che gli
eletti del popolo da sé non sono capaci di affrontare o per stabilire
l'osservanza della legge fondamentale, violata nella sostanza, anche se
osservata nell'apparenza”. L'Italia non era una “diarchia”, ma una “monarchia
costituzionale”. Il Re fece quel che la Camera dei fasci e delle corporazioni,
prona al duce, non seppe intraprendere. Venne implicitamente sollecitato dai 63
senatori che il 22 luglio chiesero la convocazione della Camera Alta. Il Gran
Consiglio operò solo da “surrogato”. Cinque suoi componenti, condannati per
alto tradimento, pagarono con la vita al Poligono di tiro di Verona per
squallida vendetta di chi cercava tardivi meriti agli occhi di Hitler... Va
loro tributato rispetto per quella iniqua fine, che non è l'ultimo dei motivi
del sanguinoso epilogo della Repubblica sociale italiana. Alle 17 del 25 luglio
1943 Vittorio Emanuele III si era fatto garante della sicurezza personale del
duce, che infatti non venne “arrestato” ma “fermato” e per scritto si dichiarò
pronto a collaborare con Badoglio. Poi la storia ebbe altro corso...
Aldo A. Mola
DIDASCALIA:
Vittorio Emanuele III (Napoli, 11 novembre 1869 - Alessandria d'Egitto, 28
dicembre 1947), Re d'Italia (20 luglio 1900 - 9 maggio 1946). La sua Salma
riposa nel silenzio della Basilica di Vicoforte con quella della Consorte, la
Regina Elena.
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