di Aldo A. Mola
La lunga genesi e il prezzo del Risorgimento
Chi oscura la memoria non ne
merita. Che cosa dire dell'Italia oggi?
Nel 150° di Porta Pia e dell'annessione di Roma
l'Istituto per la storia del Risorgimento italiano (Isri) è in un cono d'ombra.
Tre anni orsono venne improvvisamente commissariato e affidato a un prefetto,
cultore di Giuseppe Garibaldi. Che cosa è stato fatto per risolverne i
problemi? Dal 23 luglio è cessata la prorogatio del commissario.
E ora? Arroccati sulla sommità dell'Altare della Patria il 24 novembre gli
impiegati dell'Isri lamentano che da cinque mesi sono senza stipendio.
L'Archivio dell'Isri, il più importante per lo studio della storia patria, è da
tempo impraticabile, con grave nocumento per gli studi storici. Il Museo
Centrale del Risorgimento, gioiello di inestimabile valore, è chiuso da un anno
e mezzo, a danno non solo dei “quattro gatti che si occupano di storia” ma
dell'immagine dello Stato. Non è un problema di repubblica o di monarchia, ma
di Italia.
Se
fosse vivo, Giosue Carducci si rivolgerebbe al Capo dello Stato, già docente
universitario, ministro della Pubblica Istruzione, solitamente attento alle sorti della Cultura, alla formazione dei cittadini,
alla memoria di una Patria che ha due millenni e mezzo di storia (e quale
storia!), fatta di ascese e di cadute, come insegna la sorte di Vittorio
Emanuele III tre anni orsono restituito all'Italia con la Regina Elena: un
Restauro memoriale necessario. I comitati dell'Isri scrivono al Presidente
della Repubblica. Avranno risposta?
Senza
Risorgimento, l'Italia non esisterebbe. Ci vollero quattro generazioni per
metterla insieme, dall'età franco-napoleonica alla Grande Guerra, dai patiboli
di Ferdinando IV di Borbone che nel 1799 annientarono le più alte menti del
Mezzogiorno alle società segrete (massoneria, carboneria, adelfi...) che
cospirarono malgrado feroci persecuzioni e condanne a morte mutate all'ultimo
momento in carcere durissimo. I patrioti rinchiusi allo Spielberg, Silvio
Pellico e Piero Maroncelli, Antonio Villa e Antonio Fortunato Oroboni, che vi
morirono letteralmente di fame, Federico Confalonieri che vi fu ripetutamente
seviziato, non sono nomi per un dizionario biografico ma persone in carne e
ossa che si sacrificarono per un'Italia migliore, civile, europea. Per capirlo,
si rileggano “Le mie prigioni” e “Dei doveri degli uomini” di Pellico. Dopo la
Restaurazione austro-papista gli italiani dovevano scrollarsi di dosso la cappa
della dominazione straniera diretta e indiretta. Si susseguirono moti, guerre
per l'indipendenza e ancora patiboli e fucilazioni: don Ugo Bassi, don Enrico
Napoleone Tazzoli, impiccato sugli spalti di Belfiore a Mantova, Amatore Sciesa
a Milano e via continuando. Nella Roma di Pio IX Monti e Tognetti, colpevoli di
attentato alle truppe papaline, furono ghigliottinati.
Le
loro vicende non sono “quadretti” per gli esami di quinta elementare. Sono i
pilastri sui quali anno dopo anno è nata l'Italia indipendente, unita e libera.
Migliaia di patrioti hanno irrorato l'humus della Nuova Italia, nata
dall'utopia di Giuseppe Mazzini, dalle visioni di Vincenzo Gioberti, dalle
imprese di Giuseppe Garibaldi e del re di Sardegna, Carlo Alberto di Savoia,
che, come promesso a Massimo d' Azeglio, mise in campo se stesso e tutti i suoi
averi per l'indipendenza nazionale e il 23 marzo 1849 abdicò e partì per
l'esilio: non una “fuga in Portogallo”, a differenza di quanto ha scritto Aldo
Cazzullo nel “Corriere della Sera”, ma la scelta dell'esilio, estremo
sacrificio per sciogliere le mani al successore,Vittorio Emanuele II, che in
soli dieci anni portò l'Italia dalla “brumal Novara” all'unificazione
nazionale.
Questo e molto altro è il Risorgimento: i Congressi degli scienziati
italiani, la piena coscienza di essere Europa, di poter superare arretratezza e
sottosviluppo, provvedere alla difesa, all'alfabetizzazione di massa,
all'educazione civica, alla sanità e di costruire le infrastrutture inesistenti
prima dell'unità, a cominciare da strade ferrate, porti, acquedotti, scuole,
ospedali. Con buona pace dei laudatores dei regimi preunitari e della Borbonia
felix, nel 1861 metà dei binari di tutt'Italia erano in Piemonte e
Liguria, oggi tra le regioni più neglette dal governo centrale, con una
politica miope e autolesionistica, come si vide l'estate scorsa col blocco
delle autostrade per lavori eternamente in ritardo e con il declino dei
trasporti su binari.
E
dunque, perché mai mettere la mordacchia all'Istituto per la storia del
Risorgimento italiano? L'Altare della Patria, che custodisce il suo Archivio e
il Museo, non può essere solo meta di deposizione di corone una tantum
in solitudine pensosa dinnanzi al Sacello del Milite Ignoto.
Le
sorti dell'Istituto e del Museo sono lo specchio dell'Italia che rinnega e
cancella la propria fama e si vuole infame. Non è questione di maggioranze e
minoranze, di parlamentari più o meno numerosi, di ministri rotanti, di
commissari e di “esperti” sparsi come erbe indigeste su pizze insapori. È
questione politica nel senso alto del termine: la “polis”. E di dignità
nazionale. Quando la si perde è difficile recuperarla. I guai attuali hanno
alle spalle tempi lunghissimi.
Da decenni è invalso il principio: sono buono
non se lo sono davvero ma se lo dice qualcuno. Virtù per certificazione di
terzi, come ai tempi delle dominazioni straniere. Nei secoli andati si
attendeva il placet di Carlo V, dei Napoleone, I e III, o di Francesco
Giuseppe d 'Asburgo. Ultimamente bastano la Thatcher, la Merkel (in duetto con
Sarkozy), Putin, Xi Jinping, Trump, Biden, Erdogan. Mancano solo Maometto II,
l'Isis, Castro, Maduro: ognuno con la sua statuina e le sue figurine da
scambiare al mercatino della memoria. E la storia d'Italia? Finisce tra le cianfrusaglie
a Porta Portese.
Il Comune della Capitale, quello degli autobus
caracollanti in fiamme giù dai clivi e dai colli, ha intimato all’Istituto
storico italiano per il Medio Evo di pagare gli arretrati dell'affitto e di
sgomberare la sede entro novanta giorni, liberandola da libri, riviste,
documenti antichi: tutte scartoffie, care a Ferdinando Gregorovius, non
cattolico e massimo storico della Roma papale nel Medioevo, ma inutili
anticaglie che agli occhi degli amministratori d'oggidì.
Romano Ugolini, storico del Risorgimento
A cospetto dello scempio della memoria
nazionale va ricordata la splendida figura dell'ultimo presidente eletto
dell'Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano: Romano Ugolini, storico
insigne morto settantaquattrenne a Roma il 23 giugno di quest’anno. Fiero di
essere nato e di aver studiato sino alla maturità a Torino, prima capitale del
regno d'Italia, si formò nel decennio dalla celebrazione del centenario
dell'unificazione nazionale a quello dell'annessione di Roma (1961-1970): una
stagione ricca di mostre, convegni, pubblicazioni, dibattiti e della
diffusione, anche nelle scuole, di volumi documentati e spesso bene illustrati,
che orientarono molti giovani a capire radici e fortune del Risorgimento.
Assistente della cattedra di storia del Risorgimento alla “Sapienza” di Roma a
soli 24 anni e docente ordinario a 34 anni, nel 1980-81 a Palermo e dal 1982 a
Perugia (ove fu anche preside della Facoltà di Scienze della formazione),
Ugolini unì all'insegnamento l'impegno di segretario dell'Istituto per la
Storia del Risorgimento italiano a fianco di Presidenti che gli furono Maestri:
Alberto Maria Ghisalberti ed Emilia Morelli.
Quando già s'intravvedeva il crepuscolo della
Risorgimentistica (le cui cattedre vennero inabissate in quelle di “storia
contemporanea”) e l'Istituto da tempo faticava a tenere aperta la sede al
Vittoriano (era leggendario il funzionamento a singhiozzo dell'indispensabile
ascensore), Ugolini, nominato presidente, lo rianimò, proprio in coincidenza
con il 150° della proclamazione del regno d'Italia (2011), quando il Museo
Centrale del Risorgimento ebbe un numero straordinariamente elevato di
visitatori da ogni parte d'Italia e dall'estero, con speciale beneficio per
studenti e scolari.
Ugolini accompagnò gli oneri della docenza a
ricerche archivistiche e pubblicazioni sui temi che più lo appassionarono.
Anzitutto Giuseppe Garibaldi, la cui formazione indagò per decenni, liberandola
da incrostazioni mitologiche, e approfondì anche quale presidente della Commissione
per l'edizione nazionale dell'Epistolario (vi attendeva alla vigilia della
morte); inoltre la Roma postunitaria, con speciale attenzione per gli anni del
Blocco popolare guidato da Ernesto Nathan, gran maestro del Grande Oriente
d'Italia e indimenticabile sindaco nell'età giolittiana; e la diffusa dirigenza
politico-culturale italiana dagli albori del Risorgimento alla Grande Guerra.
Particolare cura Ugolini dedicò
all'approntamento degli strumenti per la ricerca: il poderoso aggiornamento
della ricca Bibliografia dell'età del Risorgimento italiano,
la direzione della “Rassegna storica del Risorgimento”, con le rubriche
dedicate a recensioni, segnalazione di
saggi e articoli e alla “vita dell'Istituto”, che sentiva come grande famiglia,
grazie alla Consulta, che fungeva da tramite fra il consiglio di presidenza e
le migliaia di abbonati in Italia e all'estero. Animatore dei Congressi
biennali dell'Istituto, consegnati a corposi volumi, e direttore della sua
Biblioteca scientifica, divisa in più sezioni e forte di epistolari e di saggi
di ampio respiro, Ugolini non ne
trascurò nemmeno gli aspetti minuti.
A quel
modo, con appassionata dedizione, senso profondo dell'amicizia leale e del
servizio disinteressato a beneficio degli studiosi venturi, come ricorda la
motivazione del Premio Acqui Storia alla Carriera conferitogli nel 2019, tenne
“alti e vivi gli studi del Risorgimento e dello Stato unitario, sia con sue
opere innovative, frutto sempre di accurate esplorazioni archivistiche, sia con
la promozione di Comitati dell'Istituto in Francia, Belgio, Germania, Spagna,
nelle Americhe e in Giappone, concorrendo alla miglior conoscenza della storia
d'Italia nella comunità scientifica internazionale.” Nel convegno di Vicoforte
su Vittorio Emanuele III (10 ottobre 2020) Cristina Vernizzi, che lo affiancò
anche alla guida del Centro internazionale di studi risorgimentali e
garibaldini con sede a Marsala, ne ha tracciato un profilo esauriente, di
imminente pubblicazione.
Il Risorgimento unisce
In Chi
ha paura del Risorgimento? Cento anni di “Libero Studio” e ”fedeltà al culto
del vero”, un “editoriale” che è anche testamento culturale, nel numero
speciale per il centenario della “Rassegna storica del Risorgimento”, Ugolini
rivendicò orgogliosamente quanto fatto e indicò la via. Parafrasando Garibaldi
ammonì: “il Risorgimento è un principio e non un partito, e come tutti i
principi unisce e non divide, non invecchia e non muore”. Come non morirà il
suo magistero storiografico.
Nel
1948 Togliatti e Nenni presero Garibaldi per insegna del Fronte Popolare, nel
quale confluirono i voti di tanti ex militanti del Partito d'Azione. Dai
Quaderni del Carcere di Antonio Gramsci, messi in salvo anche grazie
all'economista Piero Sraffa, figlio di
illustre massone, con operazione filologicamente opinabile ma politicamente
accorta Togliatti trasse il volume “Il Risorgimento”, sul quale per decenni si
formarono storici “di sinistra” sempre più vicini alle posizioni del pensiero
laico e unitario, alla sinistra hegeliana risorgimentale, guariti dalla
malattie infantile dell'estremismo antiunitario poi divampante come febbre
terzana quando neppure più i clericali se ne valevano. Lo si vide quando il
cardinale Angelo Bagnasco concelebrò il 150° dell'Unità con Giorgio Napolitano
a Genova, non lontano dallo Scoglio dei Mille. L'unificazione e la
proclamazione del regno d'Italia con Vittorio Emanuele II sovrano
costituzionale erano ormai terreno di conciliazione e di impegno civile
accomunante. Lo attestano le opere di Giorgio Candeloro, Alberto Caracciolo e
Franco Della Peruta, membro del Consiglio di presidenza dell'Isri con Gabriella
Ciampi, Cosimo Ceccuti, Carlo Ghisalberti, Bianca Montale...
Facit indignatio
versum
Dinnanzi all'ennesima protesta del personale
dell'Istituto sta scattando la mobilitazione dei comitati, pronti
all’autoconvocazione per salvare il salvabile dell'Istituto e della
Risorgimentistica, che è tutt'uno con la memoria e la dignità nazionale, al di
là di qualsivoglia distinzione ideologica o politico-partitica. L'appello
registra adesioni da tutte le regioni. Il presidente del comitato di Piacenza,
Corrado Sforza Fogliani (autore del recente “Libera Chiesa in libero Stato”,
pubblicato nella collana “Libro Aperto”, diretta da Antonio Patuelli) esorta a
portare la questione nella sede appropriata: il Parlamento. Si aggiungono i
comitati esteri a conferma che il Risorgimento unisce, come avvenne in passato.
Accadde persino a Luigi Federzoni, carducciano per tradizione domestica,
massonofago per incomprensibile
strabismo ma poi presidente del Comitato ordinatore dell'Edizione
Nazionale delle opere di Giosue Carducci, fondatore della loggia “Felsinea” di
Bologna nel 1866 e vent'anni dopo richiamato in servizio da Lemmi nella
“Propaganda Massonica ” con Aurelio Saffi, Agostino Bertani, Giuseppe Ceneri e
Giuseppe Zanardelli, futuro presidente del Consiglio. Quel passato,
l'ancoramento obbligatorio dell'Italia al Risorgimento, va ricordato alla
massonofoba ex presidente della commissione parlamentare antimafia Rosy Bindi e magari anche al suo
successore.
Il
Risorgimento non è la salma di Patroclo da contendere a strattonate tra
scugnizzi. E' l'Italia. Perciò la sede
dell'Isri e il Museo Centrale del Risorgimento non possono rimanere sbarrati, come oggi accade.
Sono patrimonio nazionale. Il Risorgimento va riscoperto e attualizzato a
duecento anni dalla morte di Napoleone (al quale tanto deve l'unificazione
nazionale) e nel settimo centenario della morte di Dante, che ne fu alimento
dall'età di Vittorio Alfieri e di Ugo Foscolo a quando l'Esercito Italiano nel
1921 rese omaggio al Divino Poeta nel Sacello di Ravenna. Da lì arriva l'Italia
odierna e ventura. E da lì deve ripartire se vuol rimanere universale quale
la vollero i suoi Padri fondatori nella lunga sofferta età del Risorgimento.
Aldo A. Mola
DIDASCALIA:
L'Altare della Patria: non una “coppa
giratoria” ma il Monumento degli Italiani.
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