NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

martedì 1 dicembre 2020

Chi ha paura del Risorgimento? Ieri, oggi, per il domani d’italia


di Aldo A. Mola

 

La lunga genesi e il prezzo del Risorgimento

Chi oscura la memoria  non  ne merita. Che cosa dire dell'Italia oggi?

Nel 150° di Porta Pia e dell'annessione di Roma l'Istituto per la storia del Risorgimento italiano (Isri) è in un cono d'ombra. Tre anni orsono venne improvvisamente commissariato e affidato a un prefetto, cultore di Giuseppe Garibaldi. Che cosa è stato fatto per risolverne i problemi? Dal 23 luglio è cessata la prorogatio del commissario. E ora? Arroccati sulla sommità dell'Altare della Patria il 24 novembre gli impiegati dell'Isri lamentano che da cinque mesi sono senza stipendio. L'Archivio dell'Isri, il più importante per lo studio della storia patria, è da tempo impraticabile, con grave nocumento per gli studi storici. Il Museo Centrale del Risorgimento, gioiello di inestimabile valore, è chiuso da un anno e mezzo, a danno non solo dei “quattro gatti che si occupano di storia” ma dell'immagine dello Stato. Non è un problema di repubblica o di monarchia, ma di Italia.

  Se fosse vivo, Giosue Carducci si rivolgerebbe al Capo dello Stato, già docente universitario, ministro della Pubblica Istruzione, solitamente  attento alle sorti  della Cultura, alla formazione dei cittadini, alla memoria di una Patria che ha due millenni e mezzo di storia (e quale storia!), fatta di ascese e di cadute, come insegna la sorte di Vittorio Emanuele III tre anni orsono restituito all'Italia con la Regina Elena: un Restauro memoriale necessario. I comitati dell'Isri scrivono al Presidente della Repubblica. Avranno risposta?

   Senza Risorgimento, l'Italia non esisterebbe. Ci vollero quattro generazioni per metterla insieme, dall'età franco-napoleonica alla Grande Guerra, dai patiboli di Ferdinando IV di Borbone che nel 1799 annientarono le più alte menti del Mezzogiorno alle società segrete (massoneria, carboneria, adelfi...) che cospirarono malgrado feroci persecuzioni e condanne a morte mutate all'ultimo momento in carcere durissimo. I patrioti rinchiusi allo Spielberg, Silvio Pellico e Piero Maroncelli, Antonio Villa e Antonio Fortunato Oroboni, che vi morirono letteralmente di fame, Federico Confalonieri che vi fu ripetutamente seviziato, non sono nomi per un dizionario biografico ma persone in carne e ossa che si sacrificarono per un'Italia migliore, civile, europea. Per capirlo, si rileggano “Le mie prigioni” e “Dei doveri degli uomini” di Pellico. Dopo la Restaurazione austro-papista gli italiani dovevano scrollarsi di dosso la cappa della dominazione straniera diretta e indiretta. Si susseguirono moti, guerre per l'indipendenza e ancora patiboli e fucilazioni: don Ugo Bassi, don Enrico Napoleone Tazzoli, impiccato sugli spalti di Belfiore a Mantova, Amatore Sciesa a Milano e via continuando. Nella Roma di Pio IX Monti e Tognetti, colpevoli di attentato alle truppe papaline, furono ghigliottinati.

   Le loro vicende non sono “quadretti” per gli esami di quinta elementare. Sono i pilastri sui quali anno dopo anno è nata l'Italia indipendente, unita e libera. Migliaia di patrioti hanno irrorato l'humus della Nuova Italia, nata dall'utopia di Giuseppe Mazzini, dalle visioni di Vincenzo Gioberti, dalle imprese di Giuseppe Garibaldi e del re di Sardegna, Carlo Alberto di Savoia, che, come promesso a Massimo d' Azeglio, mise in campo se stesso e tutti i suoi averi per l'indipendenza nazionale e il 23 marzo 1849 abdicò e partì per l'esilio: non una “fuga in Portogallo”, a differenza di quanto ha scritto Aldo Cazzullo nel “Corriere della Sera”, ma la scelta dell'esilio, estremo sacrificio per sciogliere le mani al successore,Vittorio Emanuele II, che in soli dieci anni portò l'Italia dalla “brumal Novara” all'unificazione nazionale.

    Questo e molto altro è il Risorgimento: i Congressi degli scienziati italiani, la piena coscienza di essere Europa, di poter superare arretratezza e sottosviluppo, provvedere alla difesa, all'alfabetizzazione di massa, all'educazione civica, alla sanità e di costruire le infrastrutture inesistenti prima dell'unità, a cominciare da strade ferrate, porti, acquedotti, scuole, ospedali. Con buona pace dei laudatores dei regimi preunitari e della Borbonia felix, nel 1861 metà dei binari di tutt'Italia erano in Piemonte e Liguria, oggi tra le regioni più neglette dal governo centrale, con una politica miope e autolesionistica, come si vide l'estate scorsa col blocco delle autostrade per lavori eternamente in ritardo e con il declino dei trasporti su binari.

  E dunque, perché mai mettere la mordacchia all'Istituto per la storia del Risorgimento italiano? L'Altare della Patria, che custodisce il suo Archivio e il Museo, non può essere solo meta di deposizione di corone una tantum in solitudine pensosa dinnanzi al Sacello del Milite Ignoto.

 

   Le sorti dell'Istituto e del Museo sono lo specchio dell'Italia che rinnega e cancella la propria fama e si vuole infame. Non è questione di maggioranze e minoranze, di parlamentari più o meno numerosi, di ministri rotanti, di commissari e di “esperti” sparsi come erbe indigeste su pizze insapori. È questione politica nel senso alto del termine: la “polis”. E di dignità nazionale. Quando la si perde è difficile recuperarla. I guai attuali hanno alle spalle tempi lunghissimi.

Da decenni è invalso il principio: sono buono non se lo sono davvero ma se lo dice qualcuno. Virtù per certificazione di terzi, come ai tempi delle dominazioni straniere. Nei secoli andati si attendeva il placet di Carlo V, dei Napoleone, I e III, o di Francesco Giuseppe d 'Asburgo. Ultimamente bastano la Thatcher, la Merkel (in duetto con Sarkozy), Putin, Xi Jinping, Trump, Biden, Erdogan. Mancano solo Maometto II, l'Isis, Castro, Maduro: ognuno con la sua statuina e le sue figurine da scambiare al mercatino della memoria. E la storia d'Italia? Finisce tra le cianfrusaglie a Porta Portese.

Il Comune della Capitale, quello degli autobus caracollanti in fiamme giù dai clivi e dai colli, ha intimato all’Istituto storico italiano per il Medio Evo di pagare gli arretrati dell'affitto e di sgomberare la sede entro novanta giorni, liberandola da libri, riviste, documenti antichi: tutte scartoffie, care a Ferdinando Gregorovius, non cattolico e massimo storico della Roma papale nel Medioevo, ma inutili anticaglie che agli occhi degli amministratori d'oggidì.

 

Romano Ugolini, storico del Risorgimento

A cospetto dello scempio della memoria nazionale va ricordata la splendida figura dell'ultimo presidente eletto dell'Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano: Romano Ugolini, storico insigne morto settantaquattrenne a Roma il 23 giugno di quest’anno. Fiero di essere nato e di aver studiato sino alla maturità a Torino, prima capitale del regno d'Italia, si formò nel decennio dalla celebrazione del centenario dell'unificazione nazionale a quello dell'annessione di Roma (1961-1970): una stagione ricca di mostre, convegni, pubblicazioni, dibattiti e della diffusione, anche nelle scuole, di volumi documentati e spesso bene illustrati, che orientarono molti giovani a capire radici e fortune del Risorgimento. Assistente della cattedra di storia del Risorgimento alla “Sapienza” di Roma a soli 24 anni e docente ordinario a 34 anni, nel 1980-81 a Palermo e dal 1982 a Perugia (ove fu anche preside della Facoltà di Scienze della formazione), Ugolini unì all'insegnamento l'impegno di segretario dell'Istituto per la Storia del Risorgimento italiano a fianco di Presidenti che gli furono Maestri: Alberto Maria Ghisalberti ed Emilia Morelli.

Quando già s'intravvedeva il crepuscolo della Risorgimentistica (le cui cattedre vennero inabissate in quelle di “storia contemporanea”) e l'Istituto da tempo faticava a tenere aperta la sede al Vittoriano (era leggendario il funzionamento a singhiozzo dell'indispensabile ascensore), Ugolini, nominato presidente, lo rianimò, proprio in coincidenza con il 150° della proclamazione del regno d'Italia (2011), quando il Museo Centrale del Risorgimento ebbe un numero straordinariamente elevato di visitatori da ogni parte d'Italia e dall'estero, con speciale beneficio per studenti e scolari.

Ugolini accompagnò gli oneri della docenza a ricerche archivistiche e pubblicazioni sui temi che più lo appassionarono. Anzitutto Giuseppe Garibaldi, la cui formazione indagò per decenni, liberandola da incrostazioni mitologiche, e approfondì anche quale presidente della Commissione per l'edizione nazionale dell'Epistolario (vi attendeva alla vigilia della morte); inoltre la Roma postunitaria, con speciale attenzione per gli anni del Blocco popolare guidato da Ernesto Nathan, gran maestro del Grande Oriente d'Italia e indimenticabile sindaco nell'età giolittiana; e la diffusa dirigenza politico-culturale italiana dagli albori del Risorgimento alla Grande Guerra.

Particolare cura Ugolini dedicò all'approntamento degli strumenti per la ricerca: il poderoso aggiornamento della ricca Bibliografia dell'età del Risorgimento italiano, la direzione della “Rassegna storica del Risorgimento”, con le rubriche dedicate a recensioni,  segnalazione di saggi e articoli e alla “vita dell'Istituto”, che sentiva come grande famiglia, grazie alla Consulta, che fungeva da tramite fra il consiglio di presidenza e le migliaia di abbonati in Italia e all'estero. Animatore dei Congressi biennali dell'Istituto, consegnati a corposi volumi, e direttore della sua Biblioteca scientifica, divisa in più sezioni e forte di epistolari e di saggi di ampio respiro,  Ugolini non ne trascurò nemmeno gli aspetti minuti.

   A quel modo, con appassionata dedizione, senso profondo dell'amicizia leale e del servizio disinteressato a beneficio degli studiosi venturi, come ricorda la motivazione del Premio Acqui Storia alla Carriera conferitogli nel 2019, tenne “alti e vivi gli studi del Risorgimento e dello Stato unitario, sia con sue opere innovative, frutto sempre di accurate esplorazioni archivistiche, sia con la promozione di Comitati dell'Istituto in Francia, Belgio, Germania, Spagna, nelle Americhe e in Giappone, concorrendo alla miglior conoscenza della storia d'Italia nella comunità scientifica internazionale.” Nel convegno di Vicoforte su Vittorio Emanuele III (10 ottobre 2020) Cristina Vernizzi, che lo affiancò anche alla guida del Centro internazionale di studi risorgimentali e garibaldini con sede a Marsala, ne ha tracciato un profilo esauriente, di imminente pubblicazione.

 

Il Risorgimento unisce

   In Chi ha paura del Risorgimento? Cento anni di “Libero Studio” e ”fedeltà al culto del vero”, un “editoriale” che è anche testamento culturale, nel numero speciale per il centenario della “Rassegna storica del Risorgimento”, Ugolini rivendicò orgogliosamente quanto fatto e indicò la via. Parafrasando Garibaldi ammonì: “il Risorgimento è un principio e non un partito, e come tutti i principi unisce e non divide, non invecchia e non muore”. Come non morirà il suo magistero storiografico.

   Nel 1948 Togliatti e Nenni presero Garibaldi per insegna del Fronte Popolare, nel quale confluirono i voti di tanti ex militanti del Partito d'Azione. Dai Quaderni del Carcere di Antonio Gramsci, messi in salvo anche grazie all'economista  Piero Sraffa, figlio di illustre massone, con operazione filologicamente opinabile ma politicamente accorta Togliatti trasse il volume “Il Risorgimento”, sul quale per decenni si formarono storici “di sinistra” sempre più vicini alle posizioni del pensiero laico e unitario, alla sinistra hegeliana risorgimentale, guariti dalla malattie infantile dell'estremismo antiunitario poi divampante come febbre terzana quando neppure più i clericali se ne valevano. Lo si vide quando il cardinale Angelo Bagnasco concelebrò il 150° dell'Unità con Giorgio Napolitano a Genova, non lontano dallo Scoglio dei Mille. L'unificazione e la proclamazione del regno d'Italia con Vittorio Emanuele II sovrano costituzionale erano ormai terreno di conciliazione e di impegno civile accomunante. Lo attestano le opere di Giorgio Candeloro, Alberto Caracciolo e Franco Della Peruta, membro del Consiglio di presidenza dell'Isri con Gabriella Ciampi, Cosimo Ceccuti, Carlo Ghisalberti, Bianca Montale... 

 

Facit indignatio versum

Dinnanzi all'ennesima protesta del personale dell'Istituto sta scattando la mobilitazione dei comitati, pronti all’autoconvocazione per salvare il salvabile dell'Istituto e della Risorgimentistica, che è tutt'uno con la memoria e la dignità nazionale, al di là di qualsivoglia distinzione ideologica o politico-partitica. L'appello registra adesioni da tutte le regioni. Il presidente del comitato di Piacenza, Corrado Sforza Fogliani (autore del recente “Libera Chiesa in libero Stato”, pubblicato nella collana “Libro Aperto”, diretta da Antonio Patuelli) esorta a portare la questione nella sede appropriata: il Parlamento. Si aggiungono i comitati esteri a conferma che il Risorgimento unisce, come avvenne in passato. Accadde persino a Luigi Federzoni, carducciano per tradizione domestica, massonofago per incomprensibile  strabismo ma poi presidente del Comitato ordinatore dell'Edizione Nazionale delle opere di Giosue Carducci, fondatore della loggia “Felsinea” di Bologna nel 1866 e vent'anni dopo richiamato in servizio da Lemmi nella “Propaganda Massonica ” con Aurelio Saffi, Agostino Bertani, Giuseppe Ceneri e Giuseppe Zanardelli, futuro presidente del Consiglio. Quel passato, l'ancoramento obbligatorio dell'Italia al Risorgimento, va ricordato alla massonofoba ex presidente della commissione parlamentare  antimafia Rosy Bindi e magari anche al suo successore.

   Il Risorgimento non è la salma di Patroclo da contendere a strattonate tra scugnizzi. E' l'Italia.    Perciò la sede dell'Isri e il Museo Centrale del Risorgimento non  possono rimanere sbarrati, come oggi accade. Sono patrimonio nazionale. Il Risorgimento va riscoperto e attualizzato a duecento anni dalla morte di Napoleone (al quale tanto deve l'unificazione nazionale) e nel settimo centenario della morte di Dante, che ne fu alimento dall'età di Vittorio Alfieri e di Ugo Foscolo a quando l'Esercito Italiano nel 1921 rese omaggio al Divino Poeta nel Sacello di Ravenna. Da lì arriva l'Italia odierna e ventura. E da lì deve ripartire se vuol rimanere universale quale la vollero i suoi Padri fondatori nella lunga sofferta età del Risorgimento.  

 

Aldo A. Mola

 

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