Le Sue squadriglie erano ragione di orgoglio per l’ala
Italiana, per precisione di volo, per disciplina e coraggio ed allenamento di
piloti.
Ma intanto si era svolta la conquista dell’Etiopia. In uno
slancio concorde di volontà l’Italia aveva conquistato un Impero; ed Egli,
andati via i due primi Vice-Re manifestò, per la prima volta nella vita, il
desiderio di un comando.
Era un poco rischioso, specie dopo un ultimo e grave
attentato al Governatore del tempo, ed il Re era titubante, ma Egli insistette,
ed eccolo infine partire il 21 Dicembre 1937 da Napoli, Vice-Re dell’Etiopia.
Queste sono vicende recenti, ogni Italiano le conosce, ed io
non ho che da riassumere solo qualche dato, qualche fatto saliente che aiuti a
mettere in rilievo la figura del nostro Principe.
Egli sbarcò a Massaua, e la prima sosta fu al cimitero di
Dogali, a salutare i cinquecento, i morti di De Cristoforis, ancora allineati
in ordine di battaglia, sotto la terra arsa.
Arrivato ad Addis Abeba si accorse subito che tra i veri
pionieri si era mescolato un piccolo mondo di profittatori, e non esitò a buttarsi
a corpo perduto per eliminare le inframettenze, per punire le iniquità, per
mettere ovunque ordine e pulizia; non esitò a dire ai Suoi funzionari: se non
mi chiamassi Savoia vorrei fare a cazzotti con certa gente!
Memore degli insegnamenti dello Zio indimenticabile Egli
cominciò subito a realizzare un vasto piano di sfruttamento agricolo e
minerario del vastissimo Impero.
Spesso Egli diceva: gli Italiani non sanno quale immensa ricchezza
essi hanno conquistato. Nell’Amara vi erano i giacimenti immensi di lignite e
di torba, cave di marmo e di argilla, e c’era da sviluppare la industria del
baco da seta. Nel Calla Sidama vi erano miniere di ematite e di limmite ed i
grandi fiumi auriferi e le immense foreste ove già erano state catalogate 84
specie di legno pregiato. La foresta di Belleltà, non tutta ancora esplorata
dall’uomo, poteva rivelare incredibili sorprese, sgominante quale era per la
sua vastità, intersecata da fiumi torrenti e ruscelli, sbarrata da alberi
secolari, intrecciata da liane, fauna favolosa di scimmie, di leopardi neri, di
pitoni e bufali ed elefanti e rinoceronti. Nell’Harrarino le foreste degli
Arussi, piene di podacarpi ed eucalipti
gonfi di cellulosa, e le piantagioni di caffè e le miniere di mica.
Nella Eritrea e nella Somalia il cotone, i semi oleosi, nella
Migiurtinia l’incenso, la mirra, lo stagno.
Né aveva trascurato con sotterfugi ingegnosissimi che dalle
Indie Olandesi Gli fossero inviati i semi del caucciù per svincolare la Patria
da questo gravoso tributo allo straniero. Era un mondo favoloso che si apriva
al lavoro degli Italiani, già da secoli dispersi per tutto l’orbe terraqueo in
cerca di pane: colà milioni e milioni di lavoratori avrebbero trovato sfogo e
ricchezza!
Questa era la Sua opera dunque, grandiosa opera, alla quale
si accinse con tutto il fervore dell’anima.
Ogni domenica, libero dai fardelli burocratici, dagli
incartamenti e dai ricevimenti, Egli la dedicava alle visite nei punti più
lontani dell’Impero. Ed eccolo un giorno scendere col Suo apparecchio ad Elolo,
su una pista di fortuna tra il Kenia Italiano e quello Inglese, ove c’era un
presidio con un solo Tenente bianco ed una banda di Dubat.
Quel povero tenente non vedeva un bianco da sette mesi,
rimase confuso e quasi singhiozzava quando riconobbe il Vice-Re che scendeva
dall’aeroplano su quel campo di fortuna. In quell'angolo sperduto di mondo il
Duca, sotto una tenda, divise con quell’ufficiale un piatto di pasta preparato
dai Dubat.
In qualunque parte della terra, se è scampato al naufragio,
si trovi oggi quell’ufficiale, noi sappiamo di certo che egli non ha potuto
tradire la sua vecchia bandiera.
Amedeo, nel viaggio di ritorno, ricordando gli occhi umidi,
la voce trepida di quel tenente, diceva ai Suoi compagni di volo: ci vuole
tanto poco a fare contenti gli uomini!
Un’altra domenica, a Ricchiè, un vecchio centenario, saputo
dell’arrivo del Vice-Re in quella sperduta località, si fece portare alla Sua
presenza in barella da due servi. Si prosternò nella polvere, disse: io ho
perduto un figlio in battaglia per l’Italia, io sono fiero di avere perduto mio
figlio per te.
Ed Amedeo concludeva, nel viaggio di ritorno: la poesia è la
sola regola della vita.
Un’altra domenica a Debra Sina, davanti ad una banda di 600
uomini ve n’era uno, alto quasi come Lui, Basciai Uoldié, che era stato il più
acre nemico degli Italiani, che aveva tagliato a suo tempo il ponte di Termaber
per ritardare la marcia nostra su Addis Abeba, che era considerato, ed a giusto
titolo, un eroe nazionale Abissino. Basciai Uoldié aveva dichiarato che non avrebbe
fatto atto di sottomissione ad altri clic al Vice-Re in persona, ed il Vice-Re
non aveva atteso che andasse da Lui ; volle Egli stesso andare davanti al Suo
valoroso avversario, e, pur tra la perplessità di molti, stabilì che tutti gli
uomini della banda e non solo il capo avrebbero conservato le armi. Ecco Amedeo
che avanza, alto e diritto, davanti alla banda armata, in attesa, fino a
raggiungere Basciai Uoldié. Questi pose un ginocchio in terra e disse: giuro di
servirti, fino alla morte. E mantenne la parola, perchè tre anni dopo morì da
prode, combattendo per l’Italia.
Alla inaugurazione della strada Dancala tra Dessié ed Assab
lunga 1000 chilometri, un’opera romana costruita sotto il sole ardente dai
nostri operai.
Egli vide ogni tanto lungo la strada stessa dei tumuli con
delle croci, e talvolta dei piccoli, semplici, ingenui monumenti: erano le
tombe degli operai morti sul lavoro e sepolti dai compagni là dove erano
caduti. Egli si fermò davanti a ciascuno di essi, con un senso di raccoglimento
religioso che commosse fino alle lagrime tutti gli operai lungo la grande arteria
nata dal loro sangue e dal loro sudore: «Questi tumuli», disse Amedeo, «che si
snodano lungo questa strada grandiosa sono come gli acini di un rosario, il
rosario del lavoratore Italiano ».
L’ultima o una delle ultime Sue visite, sulla fine del 1939
fu a Bonga, nel Galla Sidamo, tra i pigmei. Tutta la popolazione dei pigmei era
schierata lungo la strada, tutti nudi, uomini e donne, sì e no coperti da poche
foglie verdi, quei pigmei che ancora accendevano il fuoco fregando due pezzi di
legno, e le cui armi erano ancora fatte di pietra, quei popoli che noi avremmo portato
alla civiltà ed ora sono ricaduti nella barbarie.
• • •
Ma oramai oscure nuvole si addensavano sull’orizzonte di
Europa. La Germania aveva invaso la Polonia, la guerra Europea era scoppiata,
ma noi eravamo ancora fuori. Dovevamo rimanere fuori! Il Vice-Re partì per l’Italia,
voleva parlare con Mussolini, ma non riuscì a farlo da solo. Però disse egualmente
il Suo pensiero, e ne troviamo traccia nel diario di Ciano, nelle affermazioni
dei sopravvissuti, nonché nella risposta scritta che Egli inviò alle precise
domande che Gli furono rivolte al principio del 1940 e delle quali non si
tenne, purtroppo, alcun conto: le condizioni militari dell’Impero erano tali
che non solo un’offensiva non sarebbe stata possibile, ma neppure una
difensiva. Avrebbe potuto, sì, esserci una resistenza più o meno lunga, avrebbe
potuto l’esiguo corpo di spedizione, sprovvisto di armi per una guerra moderna,
sacrificarsi, scrivendo pagine ardenti di gloria militare, ma l’Impero sarebbe
stato perduto!
Che vale riepilogare avvenimenti di cui siamo stati testimoni
angosciati ed ansiosi! Il primo anno si chiuse all’attivo con la spedizione del
Somaliland, ma quando cominciarono ad affluire le armi, le munizioni, i viveri
del Commonwealth e le truppe inglesi passarono alla offensiva mentre che le
nostre poche armi si deterioravano e le munizioni diminuivano ogni giorno,
altro non poterono fare le truppe del Vice-Re che sacrificarsi.
In questi tempi amari, pagine che farebbero l’onore e la
gloria di ogni popolo del mondo sono pressoché ignorate dagli Italiani quando
non sono calpestate ed irrise. Le pagine di Cheren, fulgide, non meno di quelle
delle Termopili, le pagine di Culquabert che vide ad ondate sacrificarsi i
Carabinieri del Re, sono oggi come in un libro chiuso. Chiuso sembra il libro
immortale di Amba Alagi, ma ben si riaprirà un giorno se è vero che la Patria è
una verità eterna e che, nel nostro breve cammino mortale, la gloria illumina
il cuore degli uomini.
L’ultimo consiglio di governo al ghebì di Addis Abeba fu
tenuto il 3 aprile del 1941. Con 3800 uomini (e non i 30.000 di cui farneticarono
le gazzette inglesi per rendere più lucente la loro facile vittoria e più
ingloriosa la nostra inevitabile sconfitta) con 3800 uomini e con la Sua
bandiera il Vice Re salì i 3400 metri dell’Amba Alagi.
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