di Aldo A. Mola
Lo Stato d'Italia compie tra
poco il vero 150° del suo ingresso nella Comunità internazionale. Oggi il Paese
è in affanno, disorientato, quasi sfarinato. Perciò va ricordata quella data.
L'11 maggio 1867 il marchese Emanuele Tapparelli d'Azeglio rappresentò il Regno
alla firma del Trattato di Londra che chiuse il contenzioso sul Lussemburgo:
una vertenza apparentemente minima, in realtà gravida di storia. Il Granducato
era “la Gibilterra del Nord”: un ammasso di fortificazioni erette nei secoli
per sbarrare la strada all'invasione dall'una o dall'altra sua parte. Napoleone
III aveva tentato di comperarlo dal regno dei Paesi Bassi, come nel 1768 la
Francia di Luigi XV aveva fatto con la Corsica, venduta a Parigi dal genovese
Banco di San Giorgio. Ma la Prussia gli tagliò la strada. La frizione sprigionò
scintille. L'Europa era appena uscita dalla guerra del 1866 tra l'impero
d'Austria e la coalizione italo-prussiana che all'Italia fruttò il Veneto. La
diplomazia ebbe la meglio sulle armi, che - aveva insegnato Clausewitz - ne
sono la prosecuzione. Era il “secolo della pace” che, tra l'una e l'altra
“guerra di teatro”, tutte circoscritte per territorio e numero di vittime, durò
dal Congresso di Vienna del 1815 alla conflagrazione europea del 1914.
Giocando d'iniziativa e di
sponda tra il 1859 e il 1860 Vittorio Emanuele II di Savoia coronò il sogno di
tanti patrioti: un regno unitario dalle Alpi alla Sicilia. Non era tutto.
Mancavano il Triveneto e Roma. Ma anche ai più audaci l'elezione di una Camera
nazionale nel febbraio 1861 parve un miracolo, come in opere magistrali ricorda
Domenico Fisichella, storico e politologo insigne, designato Premio alla
Carriera dal 50° Premio Acqui Storia. Il 14 marzo 1861 il Parlamento proclamò
Vittorio Emanuele II re d'Italia. Dunque era fatta? No, perché sia per le
persone sia per gli Stati non basta “dirsi” qualcosa, bisogna “esserlo”,
occorre ottenere il riconoscimento: battesimo, iniziazione, consacrazione...
La demolizione del Sacro
Romano Impero da parte di Napoleone I abbatté nell'Europa centro-occidentale il
principio in forza del quale il potere regio discende da quello imperiale: ora
erano le Nazioni a dare corpo agli Stati. La Russia continuò a fare storia a
sé, perché, come Terza Roma, non riconosceva alcuna autorità al vescovo di Roma
che per un millennio aveva benedetto Pipino e consacrato Carlo Magno e i suoi
successori. Il 17 aprile 1861 il Parlamento deliberò che il sovrano avrebbe
firmato leggi e decreti come “re d'Italia per grazia di Dio e volontà della
Nazione”: la Tradizione venne fusa con la “rivoluzione”, del resto già alla
base dello Statuto promulgato nel regno di Sardegna il 4 marzo 1848 da Carlo
Alberto di Savoia, che proclamò i cittadini uguali dinnanzi alle leggi e la
libertà dei culti, caso unico nell'Italia dell'epoca, mentre nel regno delle
Due Sicilie (rimpianto da Pino Aprile, da Fabio Andriola inopinatamente elevato
a paladino della “verità”, quasi sia lo scopritore della plurisecolare
“questione meridionale”) vietava ogni religione diversa dalla cattolica
apostolica romana, là praticata in forme superstiziose: e non per caso l'abate
di Montecassino, Luigi Tosti, si schierò per l'unità d'Italia, come Carlo
Passaglia e tanti insigni teologi ed ecclesiastici.
Ma, appunto, nella storia non
basta dirsi, bisogna farsi accettare. Dopo la proclamazione, il Regno d'Italia
venne riconosciuto dalla Gran Bretagna (che così lo sottrasse all'abbraccio di
chi lo confondeva con una qualunque contessa di Castiglione), dalla Svizzera,
dalla Grecia (che fu sul punto di avere re il secondogenito di “Monsù Savoia”,
Amedeo, duca d'Aosta) e dagli Stati Uniti d'America. Gli altri Paesi,
spocchiosi, rimasero a guardare. Quasi nessuno credeva che l'Italia sarebbe
divenuta uno Stato vero. A tarparne il volo erano mazziniani, federalisti
(pochi e irrilevanti), papisti e nostalgici dei regimi abbattuti e sconfessati
dai plebisciti che nel 1860 unirono col voto l'adesione alla corona sabauda di
Ducati padani, Granducato di Toscana, Emilia e Romagna, Umbria, Marche, Sicilia
e Province napoletane. In alcune di queste divampò il “grande brigantaggio”,
alimentato da carenza di senso dello Stato, sorretto dall'estero e direttamente
dallo Stato pontificio che gli parò le spalle. Fu una partita tanto difficile e
dura quanto necessaria. Checché ne capiscano i nostalgici del trapassato
remoto, appunto alla Pino Aprile, l'Italia era il ponte tra la Gran Bretagna,
l'India e l'Estremo Oriente. Potate per linee ferrate dal Mare del Nord al
Mediterraneo settentrionale, dai suoi porti (Genova, anzitutto) le merci
avrebbero puntato, via nave, verso il Canale di Suez ormai in costruzione. Il
mondo cambiava celermente nell'età dei cavi telegrafici sottomarini, del gioco
di borsa, dei grandi traffici e della seconda età coloniale che in pochi
decenni portò l'Europa a dominare l'80% dell'Africa e, con metodi sbrigativi,
la Cina (anche tramite la guerra dell'oppio), l'India, l'Afghanistan, per
trarne risorse e senza la pretesa infantile di esportarvi la democrazia. Era
l'età studiata da Karl Marx, secondo il quale senza ammodernamento
(industrializzazione e accumulazione del capitale) non sarebbe mai giunta la liberazione
del lavoro dalla mercificazione. Rispetto ai Paesi da più tempo uniti,
organizzati e dotati di una dirigenza capace di pensare “in grande”, l'Italia
era arretrata, malgrado i Congressi degli scienziati (1839-1847), la prima
statistica del regno (1861) e le ancora balbettanti Esposizioni nazionali. Ben
vennero quindi i riconoscimenti del neonato Regno da parte del Portogallo (il
cui re aveva sposato Maria Pia, figlia di Vittorio Emanuele II), dell'impero
ottomano e dell'Olanda (1861). L'impero di Russia e il regno di Prussia lo
riconobbero solo nel luglio del 1862, proprio quando Garibaldi organizzò la
spedizione contro il papa (“Roma o morte”), rischiando di far annientare la
credibilità di uno Stato sorto non per suscitare disordini ma per concorrere
alla pace europea. Il 25 giugno 1863 la Danimarca accreditò il suo
rappresentante presso il re d'Italia. La Spagna si decise solo il 12 luglio
1865, quando capì che era del tutto vana la speranza di restaurare
l'evanescente Francesco II di Borbone. Vittorio Emanuele II, di gran lunga
superiore al ritratto che ne fa Adriano Viarengo nella biografia ora edita da
Salerno, per unire l'Italia aveva generosamente sacrificato non solo la Savoia
e l'italiana Nizza ma anche Torino quale capitale: meritava credito. Lo stesso
anno il regno fu riconosciuto da Brasile, Messico e dal cattolico Belgio.
Mancava il tassello finale. Con la pace di Vienna (3 ottobre 1866) l'Austria
aveva sì ceduto il Veneto, ma a Napoleone III, che a sua volta lo “trasferì”
alla Corona d'
Il corpo diplomatico
italiano, guidato da patrioti di alto talento quali Alfonso La Marmora e Pompeo
di Campello e da ambasciatori di prim'ordine come Costantino Nigra e Isacco
Artom, cresciuti alla scuola di Cavour, raggiunsero la meta: l'Italia fu
accolta alla Conferenza di Londra del maggio 1867. Fu la sua prima volta:
“ultima fra le grandi potenze” si disse con sorriso ironico. Ma le sue
potenzialità erano chiare agli osservatori stranieri. Volente o nolente il
Mondo Nuovo doveva passare per l'Italia. Perciò non le erano più consentiti
colpi di testa, come la spedizione garibaldina dell'ottobre-novembre 1867
contro il papa-re. Del resto, pochi giorni dopo la Conferenza di Londra lo sfortunato
Massimiliano d'Asburgo, aspirante imperatore del Messico, mandato allo
sbaraglio da Napoleone III, fu arrestato a Querétaro dagli sgherri di Benito
Juárez, che lo fece fucilare, su procura degli USA.
I veri frutti dell'ingresso
del Regno d'Italia nella Comunità internazionale si colsero tre anni dopo,
quando il governo Lanza-Visconti Venosta-Sella-Castagnola frenò ogni tentazione
di scendere in guerra contro la Prussia a fianco di Napoleone III e, nella
“finestra” aperta con la sconfitta dell'imperatore a Sedan, corse a Roma per
chiudere la “questione” che teneva inquieto il Paese e l'Europa intera. Nei
giorni fatali del 19-20 settembre 1870 Pio IX venne “vegliato” dagli
ambasciatori di Paesi luterani ancor più che da quelli cattolici, perché era in
gioco il coronamento del Risorgimento sognato da Cavour quando, il 17 marzo
1861, aveva fatto proclamare Roma capitale d'Italia: una data da mettere in
calendario sin d'ora, in vista del suo 150°. Lasceremo dove sono i nostalgici
degli antichi regimi e i visionari d'ogni genere e ricorderemo Vittorio
Emanuele II padre della Patria: egli, sì, “uomo della provvidenza” come nel
2011 convenne il presidente della Conferenza episcopale italiana, cardinale
Angelo Bagnasco, e come scrive “La Civiltà Cattolica” che nel suo n. 4000
plaude all' “ideale unitario” che la animava “prima ancora che si concepisse
l'Italia una e indivisa sul piano politico”. In realtà quello stesso ideale,
molto prima che dai gesuiti, anzi contro la loro Compagnia, era stato coltivato
da Giuseppe Mazzini, Giuseppe Garibaldi, Camillo Cavour, Vincenzo Gioberti, dal
carbonaro Silvio Pellico a da una schiera di patrioti, in gran parte massoni,
che ebbero per vessillo il tricolore con lo scudo sabaudo: l'11 maggio 1867
accolto a Londra tra le bandiere del Mondo Nuovo, mentre gli zuavi di Napoleone
III facevano quadrato attorno a Pio IX, nemico acerrimo dell'unità d'Italia.
Aldo A. Mola
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