Pubblichiamo questo articolo dell'11 aprile 1948 senza condividerne ogni passo. E' un articolo che risente del clima di una periodo di fuoco, quello immediatamente precedente alle elezioni del 18 aprile 1948 in cui fu sconfitto il fronte socialcomunista.
Ciononostante è importante rimarcare la testimonianza di un valoroso militare, di rango, che ebbe un ruolo di primo piano durante i mesi dell'occupazione tedesca del nord Italia.
Testimonianza che andrebbe diffusa nuovamente visto l'atteggiamento dei nipotini di quelli dell'Anpi, che credono di parlare a nome di tutti quando non hanno titoli, né numerici né di altro tipo, per dare lezione alcuna.
La resistenza non è un monopolio comunista,
dice Cadorna
Il generale Raffaele Cadorna è
stato nominato recentemente presidente della federazione del Corpo Volontari
della Libertà, che si contrappone all’A.N.P.I., ormai praticamente in mano al
partito comunista. L’iniziativa, che sta ottenendo un successo insperato, si
propone di organizzare i partigiani autonomi in un’unica forza, dimostrando
agli italiani che la resistenza non è stata un monopolio dell’estrema sinistra,
e che "partigiano” non significa comunista. Il 25 aprile del '45, solo il
30 per cento delle forze era iscritta al P.C.. Il generale Raffaele Cadorna è
stato comandante generale del C.V.L., durante il periodo clandestino, e
successivamente capo di stato maggiore delle forze armate, dopo la liberazione,
fino alla fine del ’47. Dimessosi per contrasti coi ministri in carica, da lui
ritenuti "incompetenti", si è ritirato nella casa di Pallanza, che fu
già di suo nonno Raffaele e di suo padre Luigi Cadorna, nomi illustri della
nostra storia militare. Da poco tempo, seguendo una tradizione di famiglia, il
generale si è dedicato alla vita politica, accettando la candidatura al senato
per il collegio di Novara. Nel tempo che gli rimane libero, si dedica alla cura
del giardino che circonda la villa. Qui il generale Cadorna a bordo di una jeep
durante una manifestazione di partigiani a Vigevano.
Pallanza, aprile
Raffaele Cadorna ha cinquantott’anni,
ha lasciato da alcuni mesi il servizio attivo e, quando non è occupato dal suo giardino,
veste in modo corretto e quasi elegante; a differenza di suo padre che era e
poteva avere soltanto l’aspetto di un soldato, il figlio ricorda piuttosto
negli atteggiamenti la figura di un diplomatico. È candidato per il senato come
indipendente nella lista della democrazia cristiana, il che lo costringe da
qualche settimana a tenere comizi nei centri maggiori del suo collegio. Si è
presentato nella lista democristiana, non perché il suo pensiero politico
coincida esattamente con i principi di quel partito, ma perché Cadorna è un generale,
e perciò preferisce combattere — dice ridendo — da una altura, piuttosto che da
un fosso.
E oggi la democrazia cristiana e la
posizione strategicamente migliore per difendersi dal comunismo. Da pochi mesi
ha lasciato il posto di capo di stato maggiore generale e non lo rimpiange. E’
venuto via per i dissensi avuti con i vari ministri della guerra. Cadorna
subito dopo la liberazione si era messo a lavorare alla ricostituzione dell’esercito,
ma i tempi non eran favorevoli, e piuttosto di continuare in una inutile
funzione ha preferito lasciare il servizio. In seguito alle sue dimissioni, gli
sono state rivolte delle accuse, tra l’altro di non aver saputo fondere le
forze della resistenza con quelle dell’esercito regolare, e da queste si è
difeso, mediante una lettera mandata al Corriere. Ma, come suo padre, è alieno dalle
polemiche. A Pallanza, quando non si occupa del giardino, tiene la
corrispondenza che è piuttosto numerosa. Scrive a mano, perché non possiede una
macchina da scrivere; in questi giorni ha consegnato all’editore un libro sulla
resistenza. Quando da Pallanza deve andare a Milano, e gli capita di sovente, prenota
un posto sull'auto corriera; aveva un’"Augusta”, ma l'ha venduta due anni
fa. In questi ultimi tempi ha ripreso a fumare, dopo dieci anni d’interruzione.
La colpa è stata di un "Avana", offertogli in un circolo inglese subito
dopo la liberazione, e da allora non ha più saputo resistere. Ha cinque figlie
e sua moglie passa lunghe ore accanto a lui, mentre scrive, lavorando a maglia.
Durante il periodo precedente al "referendum" gli è stata rivolta
l’accusa di non essere un fervente monarchico. Era un’accusa ingiusta; del resto
Re Vittorio Emanuele era stato assai ingrato verso suo padre, dopo Caporetto, licenziandolo senza
una parola di saluto.
Luigi Cadorna rivide il Re solo sette
anni dopo, quando, nominato maresciallo d’Italia, fece una visita al Quirinale.
In quell’occasione a Vittorio Emanuele che si congratulava con lui di "non
essere per nulla invecchiato", Cadorna rispose:
«Sì, Maestà, mi sento come allora, malgrado
tutto ciò che è stato fatto contro di me ».
Ma l’attenzione su Raffaele Cadorna
in questi tempi si è rivolta in modo particolare per la nomina a presidente
della federazione italiana Corpo Volontari della Libertà. Quest’organo, sorto
di recente il
29 febbraio scorso, si contrappone all'Associazione
Nazionale Partigiani d’Italia e sta ottenendo un successo che nei primi tempi
gli stessi fondatori non avevano sperato.
La scissione verificatasi in seno all'Associazione
Partigiani ebbe, com’è noto, la sua causa prossima nella decisione presa dai
componenti della direzione di fare aderire in blocco, come si usa, tutta l’associazione
al Fronte popolare.
Le formazioni autonome erano in
gran pane anticomuniste fin dai tempi della resistenza e oggi i suoi aderenti
portano sulla divisa cachi del partigiano il fazzoletto azzurro che si
contrappone a quello rosso delle formazioni garibaldine. La scissione del mese
scorso rappresenta l'ennesima prova dell’impossibilità di ’’coabitazione"
con i comunisti, anche dove avrebbe dovuto riuscire più facile. Per questo motivo
la frattura, rispetto al piano politico interno, è l’ultima nell’ordine che si
sia verificata, e si può dire ormai che neppure il ricordo delle imprese
compiute insieme può servire ancora a legare chi è comunista e chi non lo è.
La storia dell’ANPl di questi tre anni
non è la cronaca dei suoi convegni, né di quello di Firenze (agosto del ’46),
né di quello di Roma (dicembre del ’47); non è neppure contenuta nei vari
ordini del giorno di Patrignani, comandante delle autonome dell’Emilia, o del democristiano
Enrico Mattei, usciti con le loro forze, prima e dopo l’ultimo congresso. È la
storia di uno stato d’animo che è venuto lentamente maturandosi in dramma. Il 26
aprile del 1945 un partigiano, comandante della zona dell’Oltrepò disse alla
radio queste parole : « Io non ho molte cose da dirvi, vi parlo tenendo le mani
dietro la schiena, ma di una cosa sono certo, noi non faremo i reduci!». Non
era il sentimento di uno solo ma quello di tanti, di tutti coloro che avevano
giudicato lo scopo della resistenza un fine e non un mezzo da raggiungere, che
avevano pensato il giorno dopo l’insurrezione di lasciarsi alle spalle
l’eredità di quel periodo miracoloso e di uccidere
con esso il proprio nome di battaglia.
Ma per i comunisti la liberazione era soltanto la prima tappa di una grande
battaglia che era appena agli inizi; fu così quindi che l’Associazione
Nazionale Partigiani d’Italia, in un primo tempo avversata dai comunisti stessi
perché paritetica e cioè rappresentata dalle varie correnti : garibaldini
(comunisti), brigate Matteotti (socialisti), brigate del Popolo (democristiani)
e G. L. (partito d’azione) finì in un secondo tempo, per il disinteresse di
coloro che non erano garibaldini, col diventare uno strumento in mano al
partito comunista. Sul numero complessivo dei partigiani, al momento della liberazione,
gli iscritti al partito comunista sommarono pressappoco al trenta per cento,
mentre le formazioni inquadrate nell’orbita garibaldina, e composte di elementi
di tutte le tendenze, raggiungevano il cinquanta.
Sono ormai lontani i tempi in cui
Longo andava d’accordo con Cadorna,
quando, nel ’44, il vice comandante del C. V. L. si faceva aprire la porta del
convento della casa di Nazareth di corso Magenta con queste parole: «Sono qui
per la conferenza di San Vincenzo». E la madre superiora, l’unica a sapere che
significato avessero quei convegni tra i rappresentanti del C.L.N., domandò una
volta: «C’è anche il comunista? », e quando gli venne additato Luigi Longo la
suora esclamò: « Peccato, sembrava così per bene! ».
Sono episodi che il generale Cadorna
racconta con una punta d’amarezza senza più sorridere, ricordi di tempi ormai
lontani che facevano sperare in un prossimo futuro di comprensione e di
serenità.
Cadorna impersona in un certo senso
il dramma della resistenza.
Nel 1943 verso il mese di maggio,
trovandosi a Ferrara per la costituzione della divisione ’’Ariete”, aveva avuto
i primi contatti con il comunista Concetto Marchesi. Il professore era stato da
lui e gliaveva chiesto se in caso di un improvviso colpo di stato egli avrebbe
potuto contare su di lui e sui suoi uomini. Ma Cadorna era un soldato e rispose
a Marchesi che si sarebbe potuto fare assegnamento su di lui soltanto nel caso
che dalla sua parte ci fosse stato il Re. Marchesi rimase male, poi all’8
settembre Cadorna si trovò al comando della divisione ’’Ariete” nei pressi di
Roma, sparò sui tedeschi con la soddisfazione che poteva avere il figlio di un
uomo che aveva condotto una guerra contro di loro.
Fece parte del gruppo Montezemolo a
Roma, finché venne richiesto, nell’agosto del '44, dal C.L.N. Alta Italia come
consigliere militare del Corpo Volontari della Libertà.
L’11 dello stesso mese il generale
venne paracadutato fortunosamente insieme a tre ufficiali italiani e a un
inglese sul territorio della Val Camonica. Le prime lotte coi comunisti, la
necessità di soffocarle in vista di un fine comune, il peso della tradizione
paterna, la sua fedeltà di soldato al Re erano tuttielementi contraddittori tra
i quali il comandante generale dei partigiani venne a dibattersi, (tadorna rappresentò
il tentativo di conciliare l’Italia di Vittorio Veneto con quel la della
liberazione, o meglio il tentativo di conciliare un mondo con un altro che gli
è opposto, e nella sua posizione si trovano tutti coloro che tentano di salvare
il sacrificio fatto durante la guerra partigiana.
La delegazione del Corpo Volontari della
Libertà attende il suo imminente riconoscimento da parte del governo a ente
morale, il che significherebbe la virtuale liquidazione dell’A.N.P.I. cui
verrebbe a mancare della qualifica ’’nazionale” e sarebbe assorbita dal partito
comunista.
Intanto in parallelo con le manifestazioni
elettorali i partigiani autonomi organizzano raduni un po’ dappertutto, nelle
zone dove più acuta è stata la lotta partigiana.
Domenica scorsa il comandante Mauri
ha parlato a Casale Monferrato e Cadorna a Vigevano, l’11 aprile gli autonomi
sfileranno una seconda volta a Milano come già
hanno fatto il giorno di San Giuseppe
in occasione della parata militare per la consegna della medaglia d’oro al
gonfalone di Milano.
Lo scopo immediato di queste manifestazioni
è quello di dimostrare agli italiani che ai partigiani rossi corrispondono i
partigiani azzurri, e infatti lo slogan su cui si fonda la propaganda del
movimento è: «Non tutti i partigiani erano comunisti».
La simpatia con cui vengono generalmente
seguite le manifestazioni tenute in queste settimane stanno a dimostrare come
in una larga parte della nazione il movimento partigiano potrà riprendere la popolarità
e il prestigio che sembrava aver perduto.
Enrico Roda
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