NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

martedì 25 aprile 2017

Più azzurri che rossi i fazzoletti delle resistenza

Pubblichiamo questo articolo dell'11 aprile 1948 senza condividerne ogni passo. E' un articolo che risente del clima di una periodo di fuoco, quello immediatamente precedente alle elezioni del 18 aprile 1948 in cui fu sconfitto il fronte socialcomunista.
Ciononostante è importante rimarcare la testimonianza di un valoroso militare, di rango, che ebbe un ruolo di primo piano durante i mesi dell'occupazione tedesca del nord Italia.
Testimonianza che andrebbe diffusa nuovamente visto l'atteggiamento dei nipotini di quelli dell'Anpi, che credono di parlare a nome di tutti quando non hanno titoli, né numerici né di altro tipo, per dare lezione alcuna.

Raffaele Cadorna


La resistenza non è un monopolio comunista,
 dice Cadorna

Il generale Raffaele Cadorna è stato nominato recentemente presidente della federazione del Corpo Volontari della Libertà, che si contrappone all’A.N.P.I., ormai praticamente in mano al partito comunista. L’iniziativa, che sta ottenendo un successo insperato, si propone di organizzare i partigiani autonomi in un’unica forza, dimostrando agli italiani che la resistenza non è stata un monopolio dell’estrema sinistra, e che "partigiano” non significa comunista. Il 25 aprile del '45, solo il 30 per cento delle forze era iscritta al P.C.. Il generale Raffaele Cadorna è stato comandante generale del C.V.L., durante il periodo clandestino, e successivamente capo di stato maggiore delle forze armate, dopo la liberazione, fino alla fine del ’47. Dimessosi per contrasti coi ministri in carica, da lui ritenuti "incompetenti", si è ritirato nella casa di Pallanza, che fu già di suo nonno Raffaele e di suo padre Luigi Cadorna, nomi illustri della nostra storia militare. Da poco tempo, seguendo una tradizione di famiglia, il generale si è dedicato alla vita politica, accettando la candidatura al senato per il collegio di Novara. Nel tempo che gli rimane libero, si dedica alla cura del giardino che circonda la villa. Qui il generale Cadorna a bordo di una jeep durante una manifestazione di partigiani a Vigevano.


Pallanza, aprile
Raffaele Cadorna ha cinquantott’anni, ha lasciato da alcuni mesi il servizio attivo e, quando non è occupato dal suo giardino, veste in modo corretto e quasi elegante; a differenza di suo padre che era e poteva avere soltanto l’aspetto di un soldato, il figlio ricorda piuttosto negli atteggiamenti la figura di un diplomatico. È candidato per il senato come indipendente nella lista della democrazia cristiana, il che lo costringe da qualche settimana a tenere comizi nei centri maggiori del suo collegio. Si è presentato nella lista democristiana, non perché il suo pensiero politico coincida esattamente con i principi di quel partito, ma perché Cadorna è un generale, e perciò preferisce combattere — dice ridendo — da una altura, piuttosto che da un fosso.
E oggi la democrazia cristiana e la posizione strategicamente migliore per difendersi dal comunismo. Da pochi mesi ha lasciato il posto di capo di stato maggiore generale e non lo rimpiange. E’ venuto via per i dissensi avuti con i vari ministri della guerra. Cadorna subito dopo la liberazione si era messo a lavorare alla ricostituzione dell’esercito, ma i tempi non eran favorevoli, e piuttosto di continuare in una inutile funzione ha preferito lasciare il servizio. In seguito alle sue dimissioni, gli sono state rivolte delle accuse, tra l’altro di non aver saputo fondere le forze della resistenza con quelle dell’esercito regolare, e da queste si è difeso, mediante una lettera mandata al Corriere. Ma, come suo padre, è alieno dalle polemiche. A Pallanza, quando non si occupa del giardino, tiene la corrispondenza che è piuttosto numerosa. Scrive a mano, perché non possiede una macchina da scrivere; in questi giorni ha consegnato all’editore un libro sulla resistenza. Quando da Pallanza deve andare a Milano, e gli capita di sovente, prenota un posto sull'auto corriera; aveva un’"Augusta”, ma l'ha venduta due anni fa. In questi ultimi tempi ha ripreso a fumare, dopo dieci anni d’interruzione. La colpa è stata di un "Avana", offertogli in un circolo inglese subito dopo la liberazione, e da allora non ha più saputo resistere. Ha cinque figlie e sua moglie passa lunghe ore accanto a lui, mentre scrive, lavorando a maglia. Durante il periodo precedente al "referendum" gli è stata rivolta l’accusa di non essere un fervente monarchico. Era un’accusa ingiusta; del resto Re Vittorio Emanuele era stato assai ingrato verso suo padre, dopo Caporetto, licenziandolo senza una parola di saluto.
Luigi Cadorna rivide il Re solo sette anni dopo, quando, nominato maresciallo d’Italia, fece una visita al Quirinale. In quell’occasione a Vittorio Emanuele che si congratulava con lui di "non essere per nulla invecchiato", Cadorna rispose:
«Sì, Maestà, mi sento come allora, malgrado tutto ciò che è stato fatto contro di me ».
Ma l’attenzione su Raffaele Cadorna in questi tempi si è rivolta in modo particolare per la nomina a presidente della federazione italiana Corpo Volontari della Libertà. Quest’organo, sorto di recente il
29 febbraio scorso, si contrappone all'Associazione Nazionale Partigiani d’Italia e sta ottenendo un successo che nei primi tempi gli stessi fondatori non avevano sperato.
La scissione verificatasi in seno all'Associazione Partigiani ebbe, com’è noto, la sua causa prossima nella decisione presa dai componenti della direzione di fare aderire in blocco, come si usa, tutta l’associazione al Fronte popolare.
Le formazioni autonome erano in gran pane anticomuniste fin dai tempi della resistenza e oggi i suoi aderenti portano sulla divisa cachi del partigiano il fazzoletto azzurro che si contrappone a quello rosso delle formazioni garibaldine. La scissione del mese scorso rappresenta l'ennesima prova dell’impossibilità di ’’coabitazione" con i comunisti, anche dove avrebbe dovuto riuscire più facile. Per questo motivo la frattura, rispetto al piano politico interno, è l’ultima nell’ordine che si sia verificata, e si può dire ormai che neppure il ricordo delle imprese compiute insieme può servire ancora a legare chi è comunista e chi non lo è.
La storia dell’ANPl di questi tre anni non è la cronaca dei suoi convegni, né di quello di Firenze (agosto del ’46), né di quello di Roma (dicembre del ’47); non è neppure contenuta nei vari ordini del giorno di Patrignani, comandante delle autonome dell’Emilia, o del democristiano Enrico Mattei, usciti con le loro forze, prima e dopo l’ultimo congresso. È la storia di uno stato d’animo che è venuto lentamente maturandosi in dramma. Il 26 aprile del 1945 un partigiano, comandante della zona dell’Oltrepò disse alla radio queste parole : « Io non ho molte cose da dirvi, vi parlo tenendo le mani dietro la schiena, ma di una cosa sono certo, noi non faremo i reduci!». Non era il sentimento di uno solo ma quello di tanti, di tutti coloro che avevano giudicato lo scopo della resistenza un fine e non un mezzo da raggiungere, che avevano pensato il giorno dopo l’insurrezione di lasciarsi alle spalle l’eredità di quel periodo miracoloso e di uccidere
con esso il proprio nome di battaglia. Ma per i comunisti la liberazione era soltanto la prima tappa di una grande battaglia che era appena agli inizi; fu così quindi che l’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia, in un primo tempo avversata dai comunisti stessi perché paritetica e cioè rappresentata dalle varie correnti : garibaldini (comunisti), brigate Matteotti (socialisti), brigate del Popolo (democristiani) e G. L. (partito d’azione) finì in un secondo tempo, per il disinteresse di coloro che non erano garibaldini, col diventare uno strumento in mano al partito comunista. Sul numero complessivo dei partigiani, al momento della liberazione, gli iscritti al partito comunista sommarono pressappoco al trenta per cento, mentre le formazioni inquadrate nell’orbita garibaldina, e composte di elementi di tutte le tendenze, raggiungevano il cinquanta.
Sono ormai lontani i tempi in cui
Longo andava d’accordo con Cadorna, quando, nel ’44, il vice comandante del C. V. L. si faceva aprire la porta del convento della casa di Nazareth di corso Magenta con queste parole: «Sono qui per la conferenza di San Vincenzo». E la madre superiora, l’unica a sapere che significato avessero quei convegni tra i rappresentanti del C.L.N., domandò una volta: «C’è anche il comunista? », e quando gli venne additato Luigi Longo la suora esclamò: « Peccato, sembrava così per bene! ».
Sono episodi che il generale Cadorna racconta con una punta d’amarezza senza più sorridere, ricordi di tempi ormai lontani che facevano sperare in un prossimo futuro di comprensione e di serenità.
Cadorna impersona in un certo senso il dramma della resistenza.
Nel 1943 verso il mese di maggio, trovandosi a Ferrara per la costituzione della divisione ’’Ariete”, aveva avuto i primi contatti con il comunista Concetto Marchesi. Il professore era stato da lui e gliaveva chiesto se in caso di un improvviso colpo di stato egli avrebbe potuto contare su di lui e sui suoi uomini. Ma Cadorna era un soldato e rispose a Marchesi che si sarebbe potuto fare assegnamento su di lui soltanto nel caso che dalla sua parte ci fosse stato il Re. Marchesi rimase male, poi all’8 settembre Cadorna si trovò al comando della divisione ’’Ariete” nei pressi di Roma, sparò sui tedeschi con la soddisfazione che poteva avere il figlio di un uomo che aveva condotto una guerra contro di loro.
Fece parte del gruppo Montezemolo a Roma, finché venne richiesto, nell’agosto del '44, dal C.L.N. Alta Italia come consigliere militare del Corpo Volontari della Libertà.
L’11 dello stesso mese il generale venne paracadutato fortunosamente insieme a tre ufficiali italiani e a un inglese sul territorio della Val Camonica. Le prime lotte coi comunisti, la necessità di soffocarle in vista di un fine comune, il peso della tradizione paterna, la sua fedeltà di soldato al Re erano tuttielementi contraddittori tra i quali il comandante generale dei partigiani venne a dibattersi, (tadorna rappresentò il tentativo di conciliare l’Italia di Vittorio Veneto con quel la della liberazione, o meglio il tentativo di conciliare un mondo con un altro che gli è opposto, e nella sua posizione si trovano tutti coloro che tentano di salvare il sacrificio fatto durante la guerra partigiana.
La delegazione del Corpo Volontari della Libertà attende il suo imminente riconoscimento da parte del governo a ente morale, il che significherebbe la virtuale liquidazione dell’A.N.P.I. cui verrebbe a mancare della qualifica ’’nazionale” e sarebbe assorbita dal partito comunista.
Intanto in parallelo con le manifestazioni elettorali i partigiani autonomi organizzano raduni un po’ dappertutto, nelle zone dove più acuta è stata la lotta partigiana.
Domenica scorsa il comandante Mauri ha parlato a Casale Monferrato e Cadorna a Vigevano, l’11 aprile gli autonomi sfileranno una seconda volta a Milano come già
hanno fatto il giorno di San Giuseppe in occasione della parata militare per la consegna della medaglia d’oro al gonfalone di Milano.
Lo scopo immediato di queste manifestazioni è quello di dimostrare agli italiani che ai partigiani rossi corrispondono i partigiani azzurri, e infatti lo slogan su cui si fonda la propaganda del movimento è: «Non tutti i partigiani erano comunisti».
La simpatia con cui vengono generalmente seguite le manifestazioni tenute in queste settimane stanno a dimostrare come in una larga parte della nazione il movimento partigiano potrà riprendere la popolarità e il prestigio che sembrava aver perduto.

Enrico Roda

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