di Gianluigi Chiaserotti
Erano le 15,35 del 18 marzo
1983, trent’anni or sono, che il Grande Re Umberto II di Savoia ci lasciava.
Ma il
piacere più grande è quello di ricordarlo, in questa occasione, in cui mi
limiterò a tratteggiare, a grandi linee, e con ricordi personali, la Sua vita
di Italiano e di Re.
Nato nel Castello di
Racconigi giovedì 15 settembre 1904, l’allora Principe Ereditario venne al
mondo in silenzio, come in silenzio è stata la sua vita di italiano e di Re; in
silenzio, dicevo, in quanto era in corso uno sciopero generale e proprio per
questo i giornali non furono stampati. Però il lieto evento giunse alle
orecchie del Sindaco di Milano, il quale volle esporre il Tricolore Sabaudo al
balcone del Palazzo Municipale.
Il
Principe di Piemonte, titolo che Gli spettava, ebbe un’infanzia ed
un’adolescenza caratterizzate essenzialmente dalla rigida educazione militare
impartitagli dall’Ammiraglio Attilio Bonaldi. Per cui sveglia all’alba,
esercitazioni varie, equitazione, ginnastica. Molti avversari della Monarchia,
inutili e superficiali, hanno criticato questo; senza però pensare che era
necessario, in quanto il Principe sarebbe dovuto divenire il Sovrano di una
Nazione invidiata e nobile come era la nostra. Terminata la preparazione c. d.
bonaldiana, Umberto andò in Ginnasio e poscia al Collegio Militare di Palazzo
Salviati in Roma, nel quale frequentava le lezioni a carattere scientifico,
mentre gli studi classici li preparava privatamente. Terminato il Liceo si
iscrisse alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Padova,
laureandovisi nel novembre 1925, e divenendo, contemporaneamente, Tenente della
Accademia Militare di Modena.
Dopo gli anni spensierati della
giovinezza, trascorsi soprattutto a Torino, giunse il momento in cui prevalse
la Ragion di Stato poiché Umberto doveva assicurare la continuità della
Dinastia; per cui nel giorno del cinquantasettesimo genetliaco della Regina
Elena, il giorno 8 gennaio 1930, sposò la bellissima Principessa Reale di
Sassonia Coburgo Gotha, Maria Josè del Belgio, figlia del Re Alberto I.
Siamo
così giunti alla parte del ricordo sul Re Umberto II in cui è chiamato a reggere le sorti dello Stato.
Con l’armistizio di Cassibile del 4 settembre 1943, il giorno 8, Re e governo si trasferirono a
Pescara (ho detto “si trasferirono”
e non “fuggirono”, come
qualcuno vorrebbe). Codesto è stato un grande atto di lungimiranza del Re
Vittorio Emanuele III, il quale sapeva che se non fosse giunto a ciò, non
avrebbe assicurato la continuità dello Stato. Dopo un periodo di governo al
sud, Vittorio Emanuele, alla liberazione di Roma — cioè il 5 giugno 1944 —,
nominò Umberto, Luogotenente Generale del Regno. Con questa veste Egli attuò
bene la Sua ottima preparazione a divenire Re, che giunse il 9 maggio 1946, a
circa un mese dalla data in cui si era stabilito di svolgere il “referendum” istituzionale, cioè il 2
giugno; “referendum” che il Re e,
ribadiamo, solo il Re indisse con Decreto Legislativo Luogotenziale 16 marzo 1946, N. 98; ed ecco cosa, tra
l’altro, disse Umberto, a Genova, nel Suo proclama del 31 maggio 1946, e,
soprattutto, scevro da ogni interesse dinastico:
“(…) appena la Costituente avrà assolto il suo compito possa essere
ancora una volta sottoposta agli italiani — nella forma che la rappresentanza
popolare volesse proporre — la domanda cui siete chiamati a rispondere il 2
giugno.”
Dalle urne invece,
purtroppo, uscì l’imbroglio e la truffa. Il 4 giugno aveva vinto la monarchia;
il 5 giugno mattina la repubblica. La notte portò “consiglio”. Uscì, sempre dalle urne, il modo non corretto di calcolare le
maggioranze e così via (fatti tutti documentati anche da libri di testo
scolastici stranieri). Anche la Cassazione non si portò come avrebbe dovuto in
quanto non poteva che omologare risultati, e quindi non proclamò nessuna
nascita della repubblica.
Nel suo ultimo
proclama Umberto dice:
“(…) confido che la
Magistratura, le cui tradizioni di indipendenza e di libertà sono una delle
glorie d’Italia, potrà dire la sua libera parola;”.
Purtroppo nella
notte tra il 12 e il 13 giugno, compiuto, da parte del governo, un vero e
proprio “colpo di stato” (tacitamente
ammesso anche dalla Gazzetta Ufficiale del 1° luglio 1946, N. 144), alle ore 16
del 13 giugno il Re Umberto di Savoia lasciava la Sua Patria, ed alla radio fu
letto il proclama di protesta, che, tra l’altro, dice:
“(…)
Improvvisamente questa notte, in spregio alle leggi ed
al potere
indipendente e sovrano della Magistratura, il Governo ha compiuto un gesto rivoluzionario
assumendo, con atto unilaterale ed arbitrario poteri che non gli spettano e mi
ha posto nell’alternativa di provocare spargimento di sangue o di subire
violenza.”.
Il Re, non
abdicatario (se lo avesse fatto avrebbe dovuto riconoscere il sopruso di cui
era stato fatto bersaglio), lasciando la Patria si sacrificò per il bene della
medesima. Ma, pur protestando, sciolse dal giuramento di fedeltà quanti lo
avevano prestato ma “non da quello verso la Patria”.
Ed eccoci all’esilio, allora (ed ora
non più, come vedremo tra poco) sancito dalla XIII Disposizione Transitoria e
Finale della Costituzione della repubblica italiana, la quale condannava lui ed
i nascituri a questa inumana e mediovale pena. In questo doloroso periodo della
sua vita il Re, dalla villa portoghese, ha voluto essere sempre presente nelle
vicissitudini, liete e tristi, dell’amata e lontana Patria, rimanendo fedele,
naturalmente, alle scelte di principio. Presente nei suoi tradizionali messaggi
di fine d’anno, nei quali ha sempre messo in risalto l’importanza della pace,
della giustizia sociale e dell’unità.
E’ bello
e doveroso qui ricordare che, nell’occasione del Centenario dell’Unità
d’Italia - il 17 marzo 1961 - Re Umberto
sia stato più presente di chiunque altro. Infatti alla solenne assise della
Consulta dei Senatori del Regno convocata, per l’occasione, in Torino fu letto
il suo messaggio, che tra l’altro recita:
“(…) L’epica impresa poté grado a grado
raggiungere l’altissimo fine,
perché il re Vittorio Emanuele II, con a
fianco Camillo di Cavour,
aveva assunto con mano ferma la direzione
e la responsabilità del moto nazionale,
coraggiosamente
superando difficoltà di ogni genere.
Attorno ad essi sorsero da
ogni parte d’Italia
– magnifico prodigio –
falangi di patrioti, sempre tutti presenti nei
nostri grati cuori.
L’apostolato di Mazzini e
l’eroismo di Garibaldi integrarono l’opera meravigliosa, risultato di forze
confluenti e contrastanti, fuse nella sintesi della Monarchia nazionale.
Discordie e rancori di partiti furono arsi dal sentimento religioso della
Patria: così sorse il Regno d’Italia. (…)”.
Il Re
concesse poi onorificenze sabaude ad illustri personalità e si fece
rappresentare dal Duca di Bergamo, Adalberto di Savoia-Genova (1898-1982) in
Teano, per lo storico incontro tra il Re Vittorio Emanuele II ed il generale
Giuseppe Garibaldi.
Ma oltre a queste presenze storiche,
Egli fu presente, e con aiuti cospicui, in occasione di tutte le tragiche
calamità naturali che hanno colpito la nostra Terra: la sciagura del Van Yont
del 1963; i numerosi terremoti (Valle del Belice del 1968; Friuli del 1976;
Irpinia del 1981; frana di Ancona del 1982). Fu presente anche con le famiglie
di attentati terroristici, mafiosi e con le vittime di rapimenti. La Sua
costante presenza fu anche graditissima fra i campioni dello sport italiani,
succedutisi ed affermatisi nei lunghi anni di esilio. Ma riteniamo che la
presenza più bella, più significativa era quella per gli italiani che si
recavano a trovarLo in Cascais, e che
riceveva con nessuna formalità od etichetta.
Memorabile fu l’incontro con il
Sovrano a Beaulieu sur Mer del 4 giugno 1978, occasione nella quale chi scrive,
neanche diciottenne, ebbe l’onore di
conoscere e salutare il Re d’Italia, Umberto II di Savoia.
La
proposta di legge costituzionale per l’abrogazione dell’esilio portava la data
del 10 marzo 1981. Proposta che si è iniziata a discutere in aula – dopo che
era stata ferma 140 giorni in commissione, solo il giorno 8 marzo 1983, e ciò
quando il Re era grave nell’Ospedale Cantonale di Ginevra, e, purtroppo, si
aspettava il peggio. Durante questa, oseremmo dire, “presa in giro”, ci fu la gara tra i nostri politici, tranne isolati
casi, riguardo alla faziosità ed al riportare notizie false e tendenziose sulla
vita del Re e su Casa Savoia.
Chi lo avrebbe detto che avremmo
dovuto attendere ancora diciannove anni, e ciò fino al 10 novembre 2002, per
assistere – finalmente – all’”esaurimento”,
come recita letteralmente la legge costituzionale 23 ottobre 2002, N. 1, degli
effetti dei commi primo e secondo della XIII Disposizione Transitoria e Finale
della Costituzione.
Quindi,
il 18 marzo 1983, il Re Umberto ci ha lasciati, e ci ha lasciati lucido, con –
sulle labbra - la parola che più amava, che più sentiva, che è stata la ragione
di tutta una vita: “Italia”.
I
solenni funerali si celebrarono, alla impressionante presenza di tantissimi
italiani, nell’Abbazia di Hautecombe, ove il Re, secondo le Sue ultime
volontà, volle esservi sepolto
provvisoriamente, se fosse deceduto lontano da Cascais, in attesa,
naturalmente, della sepoltura nel Pantheon di Roma.
Nell’epilogo
desidero riportare tre significativi pensieri del Re:
“Chi affronta
la responsabilità, le preoccupazioni, gli oneri, i disagi e talora i rischi
della democratica lotta per il ritorno della Monarchia, da’ esempio della dote
più bella e più alta dell’Uomo: la fede che vuol dire certezza”;
“La
repubblica è un regime estraneo alle tradizioni nazionali, imposto”
badate bene dice “imposto”
in un momento di generale turbamento”.
Il
terzo, scoperto solo il 22 marzo 1983 – a quattro giorni dalla scomparsa – nel
Suo scrittoio di Cascais:
“(…) poco importa a
me d’esser giudicato da un tribunale di uomini… ne’ mi giudico da me
stesso poiché non ho coscienza di aver commesso alcunché; ma non per questo
sono giustificato: mio Giudice è il Signore”.
“Io mi avanzo pieno di speranza alle Tue soglie del Tuo
divino Santuario la cui fulgida luce ravvisai sul sentiero misurato dai miei
passi mortali.
Alla Tua chiamata, o Signore, io vengo tranquillo”.
Ecco quella fede, quella speranza,
nonché quella religiosità che hanno caratterizzato tutta la Sua vita e che Gli hanno dato la forza di sperare nel
futuro.
Quindi quei politici che negarono al
Re (nel 1983), dopo 37 anni di esilio - anche con un permesso straordinario -
il sacrosanto rientro ed il Suo desiderio di morire in Italia, credevano di
aver vinto.
Umberto di Savoia, riposando nella quiete
e nella religiosità della Abbazia di Hautecombe, in quella Savoia, ove mille
anni fa Umberto Biancamano fu il Capostipite della Dinastia - in attesa della
giusta sepoltura nel Pantheon di Roma – è, e di gran lunga il vincitore in
Signorilità, in Fede ed in Amor di Patria.
Così è,
così Lo ricordiamo e così Lo benediremo.
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