di Emilio
Del Bel Belluz
…e me ne andrò. Ma gli
uccelli rimarranno, cantando:
e il mio giardino rimarrà, col suo albero verde,
col suo pozzo d’acqua.
Molti pomeriggi i cieli saranno azzurri e placidi,
e le campane sul campanile rintoccheranno
come rintoccano questo pomeriggio.
Le persone che mi hanno amato moriranno,
e ogni anno la città si rinnoverà.
Ma il mio spirito vagherà sempre nostalgico
nello stesso recondito angolo del mio giardino fiorito.
(Juan Ramon Jimenez, Il Viaggio Definitivo)
Mi è caro ricordare a trenta anni dalla sua scomparsa l’ultimo Re
d’Italia. Vi sono delle date che noi fissiamo nella nostra memoria e che ci
restano nel cuore. Sono quelle della persone che abbiamo amato. Ebbene il Re è
stato un uomo che ho amato e stimato sentendolo un grande uomo. Non posso
dimenticare quello che mi disse una famiglia nella quale venni ospitato
quando andai ad assistere ai funerali del sovrano. Il RE Umberto II, era stato
invitato ad una festa dal curato di un paese ai confini con la Francia. Alla
festa erano stati invitati tanti italiani che vivevano fuori dell’Italia e il
Re vi andò, ma nessuno lo riconobbe al suo arrivo. Il padre di famiglia che mi
aveva ospitato disse che vide il Re piangere per non essere stato
riconosciuto dagli italiani che aveva tanto amato. Quell’uomo che mi raccontò
queste cose era alla festa e neppure lui lo aveva riconosciuto, fu il parroco a
presentarlo. L’uomo che mi raccontava questo, nel marzo di trenta anni
fa, aveva perduto un figlio pochi giorni prima. Dalla morte di S.M.
Umberto II sono passati trenta anni , trentasette li trascorse in esilio senza
poter ritornare nel Paese dove aveva quel pezzetto di cielo che appartiene a
coloro che nascono in Italia come in qualsiasi parte del mondo. Mi sono chiesto
tante volte che Re sarebbe stato, ma credo non inferiore a tutti i presidenti
della Repubblica. Mi viene in mente una citazione di Giuseppe Prezzolini:
“E’ incontestabile che il bene degli uomini proviene dal male di qualcun
altro e tutta la solidarietà umana dalla paura che qualcuno si impadronisca di
ciò che si ha”. E’ altresì innegabile che “ pace e giustizia ” insieme
rappresentano “ un desiderio certamente bellissimo e nobilissimo, ma come
molti desideri del genere, non logico né serio. Se infatti, si vuole
davvero la giustizia (che è una tremenda parola) bisognerebbe essere pronti a
fare la guerra ad ogni minuto e se invece si vuole la pace, è chiaro che si
rinunzia a vedere la giustizia trionfare”.
Pensando al Re mi sono venute in mente queste parole di Prezzolini
apparse in un articolo sul Borghese diretto da quel galantuomo che è
stato Mario Tedeschi. Ho davanti a me una foto di Re Umberto II, con
apposta una dedica che ricevetti da Cascais nel 1978. Allora ero uno studente
universitario che frequentava le lezioni alla facoltà di Legge a Trieste. Ero
un giovane di campagna che non sopportava le ingiustizie e, lo ripeto, non le
ho mai sopportate, sposando le parole di Oswald Spengler che dicevano “ la
lotta è la più antica realtà della vita, è la vita stessa”, forse per
questo mi sono sempre imposto di lottare con l’arma della parola. Proprio
quest’ultima e gli scritti mi hanno aiutato a superare molte storture della
vita. La lealtà la si deve sempre usare non come scudo ma come forza. Cito alcune
frasi che ho seguito lungo il mio percorso di vita ed una di queste è tratta da
una citazione di Che Guevara, “ ai miei figli soprattutto, siate capaci di
sentire nel più profondo qualsiasi ingiustizia commessa contro chiunque,
in qualsiasi parte del mondo”. Cosa ci può essere di più ingiusto che
allontanare un uomo fino alla morte dalla terra che ha amato. Quella foto con
la dedica fatta dal Re Umberto II, la custodisco in una cornice come la spada
che si conserva per l’onore. Un uomo, Umberto II, mite che venne spesso
infangato per colpe non sue, ma che dovette obbedire. Se avessi un figlio gli
consegnerei questa foto affinché non se ne separasse mai fino all’ultimo giorno
della sua vita e poi continuasse a donarla a chi ha cuore . Consegnerei con questo
titolo, un valore che rimanga. Oggi tutto appare così stravolto e cupo, ma le
idee quelle vere devono restare. Uomini come Re Umberto II hanno costruito, la
storia. I ragazzi d’oggi non credo sappiano individuare questa figura di grande
tempra.
Vi è una frase che spesso ripenso dentro di me tratta da una
poesia. Il poeta che l’ ha raccolta e scolpita è Umberto Saba “ No alla
rivoluzione meglio conservare” /non sono/per nascita/un
rivoluzionario/Sono un/ conservatore/ della specie/ più rara/. Capisco/ da
sempre/ che a molto/deve rinunciare/ chi voglia/conservare/l’essenziale/.d” Gli
esempi positivi. Quando si superano i cinquanta anni, e ci si trova nel momento
nel quale bisogna fare dei bilanci molto importanti. Si
guarda il corso della vita e lo si fa con molta attenzione, la base dei
cinquanta anni è un segnale che ci si porta dentro. Nell'epoca dei
bilanci ho ringraziato Iddio che mi ha fatto diventare di Fede
Monarchica. La simpatia per il Re degli italiani di quelli che gli sono stati
vicini. L’esilio, quel maledetto esilio lo portò sul cuore per trentasette
anni, fino alla morte. Un grande papa come Giovanni Paolo II in un
viaggio che fece in America Latina condannò l’esilio considerandolo un
delitto contro l’umanità. Allora il Re era morto da quattro anni, conservavo un
ritaglio dove si diceva questo dal settimanale il Borghese. Era un lettore che
poneva a mezzo lettera una contrarietà all’Esilio. Le parole però che metterei
in ogni momento a ricordo della sofferenza di Umberto II sono quelle che
scrisse con molta convinzione il Mazzini “ L’esilio:colui che per primo
inventò questa pena non aveva né padre né madre, né amico, né sposa. Egli
volle vendicarsi sulle altrui teste — e disse agli altri uomini suoi fratelli :
siate maledetti dall'esilio, come io sono dalla fortuna ; siate
orfani, abbaiate la morte nell'animo io vi terrò la madre, il padre,
l’amante, la Patria, tutto fuorché un soffio di vita perché voi possiate ramingare, come
Caino nell’universo col chiodo della disperazione nel petto”. L’esilio,
luogo dove una persona è costretta a vivere una condanna che per Umberto fu
peggio della morte. Eppure Umberto, nel suo viaggio che fece dall’Italia
dietro quel sorriso così nobile aveva stampato la croce della morte nel cuore.
Dopo la partenza per l’esilio l’aereo fu investito da una tempesta ed il Re si
augurò che cadesse tale era la tristezza che gli sormontava il cuore. Tale era
anche la tristezza di quei milioni di italiani che lo avevano votato. Tante
volte mi sono commosso al suo ricordo di quella tempesta nel cuore che lo
prese, raccolto come un fiume in piena. Il mio maestro d’un tempo, il professor
Fulvio Crosara, si domandava dove erano finiti quegli italiani che avevano
amato il Re. Si discute che non sia facile amare un’ idea e non sia facile
comprendere cosa sia l’esilio se non lo si è provato. Un lungo viaggio
nel caso del Re Umberto II senza ritorno. Dal Portogallo dove arrivò, in un
paese che porta il nome di Cascais. In tante foto lo ho visto, assieme alla povera
gente, ai pescatori . Durante quegli anni in quel paese il Re divenne buon
amico dei pescatori che lo amavano e lo rispettavano . Lo chiamavano il Re, o
Rei. Li osservava mentre sistemavano le reti, stando tra di loro. Il Re amico
di quella povera gente di mare. ho pensato per un attimo agli apostoli. Gesù
stava assieme a questi umili personaggi e sentiva il buono che vi era in loro.
Il Re pensava alle loro vite e forse avrebbe voluto essere uno di loro, la
tristezza quando si insedia in un cuore è uguale dappertutto. Penso che, tante
volte, avrebbe voluto andare nelle loro case a mangiare un pezzetto di pesce
pescato al mattino davanti ad un lume acceso. Una piccola lampada che è capace
di far una luce fioca che nasconde la voce che dentro hanno gli uomini. Il Re
avrebbe voluto sedere con loro, sentire l’odore del pesce e della vita, magari
sentiva che loro erano più felici di lui. Essere nati in quel posto e respirare
quell’aria che sa di vita vissuta e mescolata dalla nostalgia. Sedersi con
qualcuno a tavola è meglio che sedersi da soli, con un maggiordomo che ti
aiuta, ma non ti fa sentire l’affetto. La moglie e i suoi figli se ne arano
andati con la regina in Svizzera e l’eco della passioni diventava un urlo di
solitudine. I pescatori gli davano quel calore che molte volte gli mancava,
l’affetto e l’amore non si comparano al mercato, nessuno può immaginare
il dolore che sprigiona la solitudine. Ho tolto dalla mia biblioteca un libro
che mi è caro, scritto da Mosca. Il libro porta i segni del tempo, l’odore della
carta è pieno di ricordi e non riesco ad allontanarmi da questi ricordi del mio
Re. Il libro ha un titolo che dice tutto, il Re in un angolo, chi lo
possedeva prima di me lo aveva ricevuto in dono nel luglio del 1950. Nel
libro ho trovato una foto del Re assieme al giornalista, i capelli stempiati,
il volto sorridente, lo stesso sorriso che ebbe nel lasciare l’Italia, sorriso
nel volto, morte nel cuore. Un libro che si legge molto rapidamente, sono
articoli pubblicati nella Gazzetta del Popolo di Torino. Questo sarebbe stato
un libro da stampare per l’anniversario. Uno di quei libri che avrebbero
portato a dire delle belle verità. “ La sacrestia della chiesa parrocchiale di
Cascais è una piccola stanza nuda con un grande orologio tarlato fermo ad un ora
di chi sa quale anno..” Anche l’orologio del Re è fermo al momento della sua
partenza dall’Italia, l’orologio che si porta nel cuore e che si è fermato con
quel sorriso davanti al cielo di Roma. Nel libro si racconta della
domenica di Umberto. La Santa messa a cui non può mancare, ma soprattutto la
povera gente, i pescatori anime umili che si rispecchiano nel Re. Leggendo nel
suo cuore una tristezza che solo gli umili hanno e sanno portare con
orgoglio. “ Mi avvicino al solito gruppo che in tutte le chiese del
mondo, tutte le domeniche, s’attarda sulla porta. “ non è forse questa la messa
delle undici ?” “Si, “senhor” è questa”. “ Non viene forse qui, ogni
domenica, a quest’ora…? “ O Rey d’Italia?”. Si dicendo, il cortese
pescatore vestito di nero, un vecchio tutto rughe, s’inchina e si toglie il
cappello. I pescatori di Cascais, i contadini di Cintr, i cittadini di
Lisbona lo chiamano tutti così, “ o Rey d’Italia”, come se Umberto fosse ancora
Re, come fosse qui non in esilio ma a godersi un po’ di riposo nella
solitudine della villa col giardino di sabbia e, intorno, fra sassi, i
magri pini curvati da vento”. Leggendo le pagine del libro mi sembra
d’avere vicino il sovrano che ho amato e amo, come tutte quelle sensazioni che
non si allontanano da noi. Il Re raccolto nel villaggio di pescatori che
sentono l’orgoglio di poterlo vedere e stringergli la mano. Nel cuore di questa
gente anche la pietà che si riversa in lui, il Re è solo. L’immagine che fa
risplendere il Re è il suo coraggio, non tutti lo possiedono e non tutti
se lo possono dare, come l’onore e la dignità, in un mondo come questo dove
tutti sono diventati giudici a senso unico. Capaci solo ad infangare gli altri
e ad assolvere se stessi con formula piena. Questa che io chiamo pochezza di
vivere. Il Re uomo sopra le parti, che, sono certo, verrebbe fatto molto per il
paese. Ma il destino di un uomo non è sempre nelle stesse mani, ma Iddio scrive
una strada che noi dobbiamo percorrere e che ci può portare alla salvezza. Nel
libro trovo una bella frase di Umberto di Savoia legata alla patria, “l’amo
tanto la mia patria, che mi dà gioia anche da lontano”, e subito,
scherzosamente : “seppure si possa chiamar lontana una patria, guardi, così
vicina”, e mi mostrò appese alle pareti dello studio, in cornici tutte uguali,
le fotografie dei più diversi luoghi d’Italia, e ciascuna era piena di firme.”.
Il Re raccontava di sentirsi vivo ricordando quelli che gli scrivevano, sarebbe
stata una giornata triste quella in cui nessuno si sarebbe ricordato di lui.
Leggo le parole più belle di questo libro in una domenica del mese di marzo, in
un ospedale A S.Vito al Tagliamento. Sto accanto al fratello di mio padre il
quale soffre come si soffre quando il tempo scorre e ci apre delle ferite
facendoci sembrare ed essere fragili. Ha servito il Signore come un soldato
fedele alla sua causa, uno di quei soldati di Cristo che si affidano a lui con
al collo la croce. Dal letto lo vedo spesso osservare il Cristo appeso la
muro, non parla perché la sofferenza lo frena. Il dialogo dei suoi occhi con il
Cristo mi fa pensare a Don Camillo che non sui staccava mai da quel Crocefisso
e gli parlava come si parla ad un amico. Le stanze dell’ospedale sono tutte ben
sistemate, anche la sofferenza è accompagnata dalla dignità dei
luoghi. In tutto l’ospedale la presenza della fede esiste. Una piccola Madonna
fa compagnia agli ammalati. Nel volto di mio zio, ho visto una lacrima
arrivare e fermarsi lungo il viso. Le lacrime hanno tutte un significato, hanno
parole e sentimenti. Tra i fogli che ho davanti ve ne è uno che ha dentro
una poesia di Aldo Fabrizi, grande attore italiano. Uno dei volti più belli
della storia del cinema, aveva il potere di far sorridere la gente con le sue
battute, un modo per alleggerire il peso della vita. Era grande e grosso come
una montagna, ma con un cuore grande come la terra. Scrisse una bella poesia
nel 1979 e la dedicò a Re Umberto, una poesia che mi piacque.
A Umberto di Savoia Autore Aldo Fabrizi. /
A Umberto
A Te lo devo scrive:
nun te posso invita’
e nun te posso di’
mettete a sede qua
e nun te posso manco domanda’
perché sei stato condannato a vive
lontano da la terra indo’ sei nato
senza speranza de pote’ torna’.
Quant’anni so’? Me pare trentatre’,
e un sacco d’esiliati
so’ rientrati in Italia, meno Te.
Così diciamo sta rimpatriata
anche si nun cià gnente de reale
né un motivo de data
né un compleanno, né un anniversario,
famola talequale!
Sarà sortanto un pranzo immaginario
tra un popolano, sempre popolano,
e un Re che poveraccio è ancora Re.
Ieri Sua Santità,
tra un coro di campane e sbattimani
ha parlato de fede, de bontà, de libertà, de pace.
Ma si un cristiano nun se po’ magna’
un pezzetto de pane
dove je pare e piace
mejo che a parlà de Libertà
se sonino più piano le campane.
da “Nonna minestra”
Osservo mio zio, il
suo volto, la stanza è ben illuminata, mi cade un piccolo segnalibro dove
avevo scritto una citazione senza il nome dell’autore che rinvenni in un libro
“ una testa nobile/lascia la scia/di un pensiero alato/ che libero vola/sui
cuori/cha ha amato/. Penso a queste parole, alla poesia di Aldo Fabrizi, e mi
domando cosa sia la vita. In un tempo come questo dominato dall’assalto del
nulla. Ci battiamo per un qualcosa che finisce, invece di cercare l’assoluto
che si annida nel sentimento e mi si perdoni in un ideale che non scompare.
Cosa importa soffrire, se abbiamo raggiunto momenti di altezza con piccole
cose. Ho immaginato molte volte il mio sovrano chiuso nella sua biblioteca a leggere
dei libri . L’ ho pensato da solo, seduto sulla poltrona che da’ la visuale
sulla sua casa di Cascais , la meravigliosa Villa Italia. Da una
rivista tante volte ho memorizzato una foto, il Re con il libro in mano,
il volto segnato dal tempo e dai dolori che la vita non gli ha mai
risparmiato. Credo che, ad un certo punto, si sia chiesto il perché ma la
domanda torna sempre alla solita riposta: vi è un disegno che Dio ha scritto
per noi, solo per noi. Nella sua stanza piena di libri, molti dei quali gli
venivano spediti dagli scrittori che lo ammiravano e portavano una dedica.
quale onore per uno scrittore poter mandare al sovrano un libro e alleviarlo di
quella malinconia che si sprigiona dentro, portare un poco di luce. Grande lo
scrittore se non dimentica. Re Umberto amava leggere Riccardo Bacchelli, autore
della monumentale opera –“ il mulino del Po”. Mosca nel suo libro scrisse
raccogliendo una dichiarazione del RE” Due libri di autori italiani gli è caro
rileggere, “ i sette messaggeri “ di Dino Buzzati e “ il mulino del Po” di
Riccardo Bacchelli. Ho visto in uno scaffale “ la corona di Cristallo “, di
Marco Ramperti. Mia meraviglia. “ Si”, dice il re, “è un mio crudele avversario
. Ma non per questo ha ingegno e scrive bene”. Non serba rancore. Parla
dei pregi dei suoi avversari e dei suoi nemici, mai dei loro difetti. “ Non
tanto, forse”, mi spiega,” per generosità, quanto per orgoglio. Mia madre e mio
padre, le poche volte che parlavamo degli altri, non era se non per dirne bene.
Avrebbero considerato un mancarsi di rispetto – sì elevati erano i loro
rapporti – l’abbassarsi a dir male di qualcuno”. Il Re seduto nel suo
studio con il cuore rivolto all'Italia Penso a quanti lo hanno amato
e se ne sono dimenticati, ma ci fu uno scrittore che amò il suo sovrano
fino all'ultimo giorno della sua vita. L’uomo che scrisse di lui,
quel galantuomo che fu Giovannino Guareschi, che nei suoi racconti spesso
citava il sovrano, Nella bellissima immagine fatta a cuore della maestra che
vuole essere sepolta con la bandiera della Monarchia. Quella maestra che dice
al compagno sindaco, una frase che riassume tutto: i Re non si mandano mai via,
non si allontanano con i figli. Giovannino non fu mai contrario al Re, lo amava
profondamente e genuinamente. Rimase devoto al Re fino all’ultimo suo respiro.
Non ebbe mai il coraggio di scrivere delle lettere al re perché non si sentiva
degno. Anche se Umberto lo stimava tanto e gli voleva bene. Ci sono uomini che
non tramontano mai per i loro scritti, per le radici che non gelano per quel
mondo fatto di tante immagini di vita e Giovannino non morirà mai. Torno al mio
viaggio che feci per andare ad assistere ai funerali del Re. Fui tra i primi ad
arrivare, e mi capitò un bellissimo episodio che non posso non ricordare. Il Re
era esposto nella bellissima Abbazia di Hautecombe sul lago Burget. La bara era
ricoperta dalla bandiera Sabauda e due guardie d’onore facevano la guardia. Ero
solo in quel momento, osservavo il Re e pregavo, nel cuore avevo la morte che
mi faceva male. Ero davanti al mio sovrano morto in esilio, anche da morto non
avrebbe potuto rientrare quanta ingiustizia tenevo dentro come un macigno, mi
pesava. Ad un certo punto osservo che le due guardie che pensano d’essere sole
mormorano qualcosa che io recepisco. Una delle due dice che da regolamento non
si potrebbe, ma inchinandosi vicino al corpo di Re Umberto II, gli
accarezza il viso. Una lacrima mi scende, loro pensano d’essere soli, io
attendo che altri arrivino poi esco. Alla sua morte in un letto d’ospedale a
Ginevra, non c’era che una infermiera Svizzera che lo vide morire. Non c’era
nessun italiano in quel momento, ma il Re riuscì ancora a mormorare “ Italia”.
Penso a quella guardia d’onore al Pantheon e vicina alla cassa del Re, e mi
viene nel cuore un soffio di felicità. Quella carezza era la carezza che tutti
gli italiani gli avrebbero voluto fare, pensai a Maria Teresa che teneva la
mano a quelli che salutavano la vita. Se avessi potuto gli avrei offerto la mia
al Re, robusta come quella di un contadino e grande come una pala. Il Re morì
solo, mi sentii nel cuore quel gelo che sento ogni volta che penso alla sua
morte. L’altra sera mentre stavo chiudendo lo studio, è venuto a trovarmi il
parroco di Brische Don Mario che si occupa anche di una parrocchia vicina a
Pasiano, il paese di S.Andrea. Sono lieto d’averlo come padre spirituale e come
amico. Il mio rispetto per chi guida una parrocchia è tanto, i sacerdoti sono
sempre meno e devono occuparsi di troppe cose. Da poco il papa Benedetto XVI ha
lasciato il soglio di San Pietro. Avevo nel cuore di fare un dono per
ricordare, a trenta anni di distanza, il mio sovrano e,d allora ho donato al
sacerdote un quadro della Madonna “ Sacro cuore immacolato di Maria”. Don Mario
ha gradito il dono e ne sono rimasto molto contento e con questo gesto mi
sembra di aver onorato la figura del Re. Quella sera, salutato il parroco di
Brische e S.Andrea mi sono diretto all’ospedale di San Vito a trovare mio zio.
La gioia che ho percepito era tanta, c’è stata la fumata bianca, quella che
avverte i pellegrini che è stato scelto il nuovo papa. Sono corso da lui
a portargli questa notizia, e nei suoi occhi ho visto la felicità. L’elezione
di Papa Francesco credo possa portare beneficio alla chiesa. Davanti a mio zio
il mio pensiero è corso a Don Mario, a quella vista inaspettata e così gradita
e amata. Le campane della chiesa suonavano a festa, tutte le campane delle
chiese è stato nominato il nostro papa. Il vecchio papa, forse nel suo ritiro
avrà gradito quello che è stato nominato, magari in cuor suo la tristezza di
non aver potuto andare avanti, gli sarà pesata. Davanti a tutto il mondo
abbiamo due papi e io ho un Re da ricordare, il tutto incorniciato in questo
mese di marzo. Il Re morendo il 18 marzo non raggiunse la primavera,
l’ulteriore primavera della sua vita, ma nel mio cuore ho sempre questa
stagione che me lo farà sempre associare a lui.
E quelle campane suonate
per annunciare il nuovo papa, sono anche per il mio Re.
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