Ricordo personale di un nostro caro amico
Hautecombe. Dopo ventun anni
Webzine: Come ventun anni fa il tempo è
grigio, ma fortunatamente molto più clemente. La strada per raggiungere la
Reale Abbazia non è piena di pullman. Anzi. E' vuota. Sistemare la macchina
nel piccolo parcheggio non è un problema. Un cortese gendarme avvicinatosi
alla macchina fa capire a gesti dove e come parcheggiare. Posto per 10
autobus, forse per venti macchine.
Scendo. Mi volto indietro a ripercorrere con la memoria un giorno di 21 anni
prima. Quando non avevo un soldo in tasca ma lo stesso avevo voluto partecipare,
indebitandomi moralmente con i miei, all'ultimo saluto a Re Umberto.
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Allora c'era molta più gente: ragazzi, ragazze, anziani. Gente distinta e
gente umile, di quelli venuti dalla campagna con il vestito buono, della
domenica. Molti di questi portavano al bavero della giacca spilline
multicolori. Solo dopo tanto tempo avrei capito che erano decorazioni al
valore e che ogni colore diverso rappresentava una "campagna"
diversa.
In tutti sommessamente il dolore dignitosissimo di aver perso qualcuno.
Questo "qualcuno" era un uomo cui la ventura, la sorte, la
malasorte, la storia avevano affidato il compito di raccogliere per un
breve periodo l'eredità di una guerra persa e di pagarne senza alcuna
responsabilità ottima parte delle colpe.
Un uomo che era stato Re per soli 34 giorni. E che aveva scontato questa
colpa per tutta la restante parte della sua vita. Andato in esilio a
quarantadue anni non ne era più tornato. La repubblica, cui il Suo sacrificio
aveva consentito di nascere senza ulteriori fardelli di sangue, ne negava
praticamente l'esistenza. Lo privava della cittadinanza, lo privava dei suoi
beni presenti nel territorio nazionale, lo privava dei suoi diritti di
italiano. Lo privava dei suoi diritti di uomo. Alla faccia di tutte le
convenzioni internazionali, delle carte di Helsinky sui diritti umani et
cetera ceteraque. Il Re, tirannico personaggio, aveva dato agli italiani modo
di scegliere. La repubblica si proclamava eterna. La repubblica sanciva
l'irreversibilità della scelta fatta in un momento di grave
turbamento.
Il Re sceglieva l'esilio per amore. La repubblica glielo imponeva per odio.
Pochi mesi più tardi dalla sua partenza, allorché Vittorio Emanuele III
stava per morire, la repubblica negò ad Umberto di sorvolare l'Italia per
giungere in tempo a vederlo vivo. E non lo vide. Ma mai si lamentò di questo.
"Ero preparato a questo". Disse che faceva parte del suo
mestiere di Re. Se ad altri era toccato in sorte di essere sovrani in momenti
felici a lui era toccato in sorte di testimoniare la propria regalità in
momenti tristi. E mai aveva abdicato al suo stato di Re. Re esiliato, solo,
ma proprio per questo più grande che mai, nonostante le avverse fortune. A
questo grande uomo, che la storietta della repubblica frettolosamente bolla
come il Re di maggio, non fu concesso nessuno sconto. Nella parte finale della
sua lunga malattia moltissimi si pronunciarono se fosse o meno giusto farlo
rientrare. Lui che non aveva mai chiesto niente ma solo dato. Li ricordo quei
tristi figuri che sentenziavano di repubblica nata dalla resistenza, di
offesa alla costituzione, di assurde condizioni di abiura per consentire il
ritorno. Sciacalli.
Ricordo un articolo di Umberto Eco su "La repubblica".
Sosteneva che a suo giudizio tra Umberto e le Brigate Rosse non vi era
differenza, in quanto nessuno dei due riconosceva lo stato. Ne ho conservato
il ritaglio. Chissà se ha mai fatto ammenda per tale enorme stupidaggine.
[...]
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