NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

lunedì 10 aprile 2023

L'estate di Vittorio Emanuele III

Luglio-Ottobre 1943



 

di Aldo A. Mola 

Vittorio Emanuele III, Re costituzionale...

Vittorio Emanuele III (Napoli, 11 novembre 1869-Alessandria d'Egitto,28 dicembre 1947), Re d'Italia dal 29 luglio 1900 al 9 maggio 1946, svolse ruolo eminente nell'estate del 1943. Sostituì Benito Mussolini con il maresciallo Pietro Badoglio, avviò le trattative per ottenere l'armistizio dalle Nazioni Unite e si trasferì con il governo da Roma a Brindisi per guidare la riscossa. In migliaia di opere su quelle vicende, fondamentali non solo per la storia d'Italia, è ricordato quale spettatore o al traino di decisioni altrui. A ottant'anni dagli eventi giova ripercorrere sinteticamente quanto avvenne per dare a ciascuno il suo.

   In premessa va ricordato il sistema dei poteri fondato sullo Statuto promulgato il 4 marzo 1848 da Carlo Alberto Re di Sardegna e adottato dal regno d'Italia alla sua proclamazione il 14 marzo 1861. Capo dello Stato, il sovrano aveva il comando delle forze armate, con facoltà di conferirne l'esercizio in caso di guerra. Nominava i ministri, responsabili dell'esecutivo, mentre il legislativo era “collettivamente esercitato dal Re e da due Camere”: il senato, di nomina regia e vitalizia, e quella dei deputati, elettiva.

   Il 30 ottobre 1922 Vittorio Emanuele III incaricò Mussolini di formare il governo di coalizione costituzionale. Il 31 i ministri giurarono e presero ordinatamente le consegne dai predecessori; l'indomani s’insediarono. Il 17 e il 29 novembre le Camere votarono la fiducia a straripante maggioranza. Per assicurare la stabilità del governo dopo anni di crisi causate dalla “maledetta proporzionale” (definizione di Giolitti), il 18 novembre 1923 il Parlamento approvò la legge che tributò due terzi dei seggi al partito che ottenesse il 25% dei voti. Alle elezioni del 6 aprile 1924 la Lista incardinata sul Partito nazionale fascista (PNF) ottenne il 66% dei voti e i due terzi dei seggi che le sarebbero spettati anche senza quella riforma. Però i deputati iscritti al PNF (molti solo di recente) risultarono appena 227 su 535. Una minoranza. Gli altri erano “fiancheggiatori”, spesso tiepidi. Tuttavia nel 1925-1927 quella camera, col senato al seguito, varò le leggi cosiddette “fascistissime”: scioglimento delle associazioni e dei partiti di opposizione, soppressione dei loro giornali, decadenza dei deputati “assenteisti”, introduzione della pena di morte per attentati contro i Reali, il capo del governo e lo Stato, sostituzione dei consigli comunali e provinciali con podestà e presidi di nomina governativa. A coronamento del regime di partito unico, il 17 maggio 1928 il Parlamento approvò la legge elettorale proposta da Alfredo Rocco. La compilazione della lista di 400 deputati, da votare o respingere in blocco, spettò al Gran consiglio del fascismo, regolamentato il 9 dicembre 1928 da una legge che, contrariamente a quanto solitamente si afferma, non ebbe alcun potere sulla successione al trono.

   L'11 febbraio 1929 Mussolini e il cardinale Pietro Gasparri sottoscrissero i Patti Lateranensi tra il regno d'Italia e lo Stato della Città del Vaticano, che si riconobbero a vicenda, mettendo fine alla “questione romana” aperta nel 1870 con l'annessione di Roma e del Lazio. Alle elezioni del 24 marzo 1929 il PNF ottenne quasi il 99% dei voti, un successo replicato nel 1934 (99,8%). A conclusione della conquista dell'Etiopia, il 9 maggio 1936 fu proclamato l'Impero. Con l'annessione dell'Austria da parte di Adolf Hitler l'Italia confinò con la Germania. Suggestionati dal nazionalsocialismo molti fascisti ritenevano sempre più ingombrante la monarchia. Lo diceva anche il duce, sia pure in privato.

 

...assediato dai fascisti repubblicani.

Nell'aprile 1938 Vittorio Emanuele III subì l'affronto della nomina a primo maresciallo dell'Impero, titolo dal Parlamento conferito a Mussolini. Come Re non ne aveva alcun bisogno. Avverso a ogni forma di “razzismo”, nel dicembre 1938 emanò le leggi razziali perché approvate dalle Camere. A differenza della Costituzione della Repubblica, lo statuto non prevedeva il rinvio delle leggi con parere motivato, né pubbliche riserve. Se, per non firmarle, egli avesse abdicato avrebbe messo suo figlio Umberto di fronte allo stesso bivio. Se anche questi avesse abdicato e nessun principe sabaudo avesse accettato la Corona per non firmare quelle leggi, a norma dello statuto le Camere in seduta congiunta avrebbero nominato un Reggente (verosimilmente Mussolini), incarica sino al 1955, quando Vittorio Emanuele principe di Napoli avrebbe raggiunto l'età per regnare. Più nessuno avrebbe arginato chi puntava a liquidare la monarchia.

   Dal 1939, tramite Pietro d'Acquarone, ministro della Real Casa, il sovrano tastò la disponibilità di gerarchi (a cominciare da Galeazzo Ciano, insignito dell'Ordine della SS. Annunziata dopo l'annessione dell'Albania) a un “cambio di rotta” per evitare che l'Italia finisse succuba della Germania. Tutti si defilarono. In assenza di interlocutori, non gli rimase che avallare il governo Mussolini all'apogeo del consenso, dal “patto di Acciaio” alla neutralità (settembre 1939) e all'intervento in guerra del 10 giugno 1940, deliberato anche per propiziare la resa della Francia e scongiurare l'irruzione dei tedeschi irrompessero nel  “Midi”, come avvenne nel novembre 1942.

 

L'iniziativa del Re: revocare Mussolini...

Dall'inizio del 1943, fallita l'aggressione alla Grecia nell'ottobre 1940, perduta l'intera Africa Orientale nel 1941, dopo la ritirata dalla Libia e dal fronte del Don nell'Unione sovietica (1942), la sconfitta dell'Italia era ormai ineluttabile. Il cosiddetto patto Roma-Berlino-Tokyo non funzionava affatto per la perdurante pace tra il Giappone e l'Unione sovietica. In assenza di iniziative di Mussolini per un armistizio separato, Vittorio Emanuele III mirò a salvare l'Italia dalla debellatio e dalla sua spartizione tra i vincitori, ventilata dalla Gran Bretagna. Si valse dell'unica leva sicura: alcuni generali e i carabinieri, capaci di operare secondo i due canoni necessari: segretezza ed efficienza. L'urgenza dell'azione fu dettata dallo sbarco degli anglo-americani in Marocco e Algeria (novembre 1942), dal loro ormai indiscutibile dominio sul Mediterraneo, dalla forzata resa dell'ultimo bastione dell'esercito in Tunisia, agli ordini del maresciallo Giovanni Messe (maggio 1943), dalla “fronda” insorgente all'interno dei gerarchi dopo il vasto rimpasto di ministri attuato da Mussolini in marzo, fonte di diffusi malumori ai vertici del regime e senza speciale vantaggio per il “fascismo”, e, infine, dall'assalto anglo-americano alla Sicilia (10 luglio), completo di atti criminosi contro la popolazione civile.

   A Dino Grandi, decorato del Collare della SS. Annunziata, il Re confidò di aver bisogno di un voto del Gran consiglio del fascismo, come fosse una “terza Camera”. Il bombardamento di Roma in coincidenza con il fallimento dell'ennesimo incontro Mussolini-Hitler (19 luglio) impose l'accelerazione. Quando lesse l'ordine del giorno Dino Grandi-Luigi Federzoni-Giuseppe Bottai, pervenutogli tramite Cesare Maria De Vecchi (mentre il massone Domenico Maiocco lo fece avere a Ivanoe Bonomi, capofila degli antifascisti), il Re constatò che i gerarchi si limitavano a chiedere al duce di deporre il comando della guerra senza però rimuoverlo da capo del governo né intaccare il regime.

   Mentre i partiti antifascisti e i più rappresentativi esponenti del pre-fascismo erano ancora pressoché irrilevanti nel Paese e agli occhi dei nemici, Vittorio Emanuele III passò all'azione. In un colloquio di venti minuti a Villa Savoia, poco dopo le 17 del 25 luglio 1943, comunicò al duce la revoca da capo del governo. “Fermato” (non “arrestato”) e sorvegliato in una caserma di carabinieri, Mussolini si dichiarò disponibile a collaborare. La somma dei decreti in pochi giorni emanati da Badoglio e i Verbali del governo (pubblicati a cura di Aldo G. Ricci) indicano la lunga preparazione sottesa al “cambio” e sfatano la leggendaria incertezza del sovrano tra Badoglio e il maresciallo Enrico Caviglia, lontano dalle leve del potere e privo dei necessari riservatissimi contatti internazionali. Lo stesso vale per le misure adottate dal capo di stato maggiore dell'Esercito, Mario Roatta, per reprimere manifestazioni che dall’esultanza potevano volgere in insorgenza sia di sovversivi sia di fautori del “duce”, come narrò anche il partigiano monarchico Beppe Fenoglio in Primavera di bellezza (1960). Gli anglo-americani (e non solo essi) constatarono che il governo controllava l'ordine pubblico e smantellava il regime. Aveva dunque i requisiti per eseguire le condizioni che da sin dal Memorandum di Quebec (18 agosto 1943) gli anglo-americani avevano prospettato per concedere all'Italia di uscire dalla guerra. Non tutte le decisioni di Badoglio risultarono lungimiranti. In particolare, lo scioglimento completo della Camera dei fasci e delle corporazioni, dalla quale sarebbe bastato escludere i soli fascisti, inceppò il regime bicamerale e sovraespose il re.

 

...e ottenere di arrendersi per salvare lo Stato

  Il 12 agosto il generale Giuseppe Castellano  partì da Roma alla volta di Lisbona per contattare l'Alto comando anglo-americano e avviare e trattative armistiziali. Vi giunse il 16 previo incontro a Madrid con l'ambasciatore britannico Samuel Hoare, che dal 1917 era stato alcuni anni tenente colonnello nel servizio segreto militare inglese a Roma.

   Contro i calcoli del governo italiano, d'intesa con l'Unione sovietica gli anglo-americani avevano approntato da tempo lo strumento immodificabile di resa dell'Italia “senza condizioni”. Esso fu consegnato in forma sintetica al generale Castellano e nel testo “lungo” al generale Giacomo Zanussi che, ignaro della missione del collega, a sua volta raggiunse Lisbona il 25. Al rientro di Castellano a Roma, dopo rapida valutazione l'“armistizio breve” obtorto collo fu accettato. Al termine di febbrili consultazioni Castellano lo sottoscrisse il 3 settembre a Cassibile (Siracusa). Preludio alle ulteriori durissime condizioni (sottoscritte da Badoglio il 29 settembre sulla nave inglese “Nelson”, ancorata a Malta), lo strumento di resa riconosceva il “governo del re” e quindi lo Stato incardinato sulla Corona. Il generale Eisenhower, comandante in capo degli Alleati, si riservò la data della pubblicazione. A Roma perdurò la convinzione che sarebbe stato proclamato il 12 (in una lettera privata Badoglio accennò addirittura al 16). Esso invece fu imposto da Algeri l'8 settembre, quando il governo era ancora impreparato ad affrontare la prevedibile reazione della Germania. Dopo vivace discussione, presenti le cariche militari supreme e il maggiore Luigi Marchesi, il Re concluse: “Adesso sappiamo” (Angelo Squarti Perla, Le menzogne di chi scrive la storia, ed. Gambini, 2023). In poche ore, di concerto con Vittorio Emanuele III, il Re Badoglio provvide al necessario per mettere al sicuro la famiglia reale, il governo, il comandante supremo Vittorio Ambrosio e i capi di stato maggiore delle tre Armi.

    Il Re rifiutò la proposta di riparare su una nave degli Alleati (“territorio” dei vincitori). In assenza di alternative praticabili (raggiungere la Sardegna via nave in partenza da Civitavecchia), fu allestito il trasferimento in auto da Roma verso Pescara, via per Tivoli-Avezzano. Sulle 5 di mattino del 9 settembre la vettura del Re partì per prima con lo stendardo del Capo dello Stato. Le altre (con Badoglio, il principe ereditario Umberto, la Regina e il loro seguito) si accodarono alla spicciolata. Tutto fu tranne una “fuga”. Un fuggiasco non percorre strade ordinarie né innalza le sue insegne. Il governo conferì il comando di Roma (“città libera” dall'agosto, essa comprendeva lo Stato della Città del Vaticano) al generale Giorgio Calvi di Bergolo, genero del sovrano, poi autorizzato a stipulare la resa ai tedeschi soverchianti. Nel pomeriggio del 9 il Re presenziò all'aeroporto di Pescara al consulto tra Badoglio e i vertici militari per concertare la meta, fissata nella Puglia, non ancora raggiunta dagli anglo-americani ed ove erano in corso duri combattimenti di reparti italiani contro i germanici, costretti dall'eroico generale Nicola Bellomo a ritirarsi da Bari. Verso le 23 dal molo di Pescara la famiglia reale si imbarcò sulla corvetta “Baionetta”, giunta da Ortona con Badoglio già a bordo. Scortata dall'incrociatore “Scipione Africano”, essa proseguì verso un porto sicuro, durante la navigazione individuato in Brindisi.

   All'arrivo Vittorio Emanuele III lanciò un appello agli italiani. Il governo si insediò, sia pure in condizioni molto precarie. Gli Alti Comandi trasmisero direttive non sempre recepite né rilanciate dai destinatari, in via di dissolvimento.

 

Il Re trasmise i poteri ma serbò la Corona

Conclusa l'occupazione della Sicilia e intrapresa quella della Calabria, allo sbarco nella piana di Salerno gli anglo-americani furono tenacemente fronteggiati dai germanici. Con una spericolata operazione il 12 settembre il maggiore delle SS Otto Skorzeny prelevò Mussolini dall'Albergo Imperatore sul Gran Sasso e lo trasferì in Germania, cespite dello Stato fascista repubblicano d'Italia, poi Repubblica sociale italiana. Dopo il “suicidio” del Maresciallo Ugo Cavallero, suo ospite a Frascati, il maresciallo tedesco Kesselring ottenne da Rodolfo Graziani di porsi a capo di un esercito repubblicano mentre non solo nel Mezzogiorno reparti fedeli al giuramento al Re si battevano contro gli occupanti.

   Gli anglo-americani tennero una condotta ambigua nei confronti di Vittorio Emanuele III. Da un canto ne avevano bisogno perché era il perno dello Stato (diplomazia, forze armate...) e garantiva l'esecuzione delle condizioni di resa. Dall'altro, anche dopo la dichiarazione di guerra dell'Italia contro la Germania (13 ottobre), ostacolarono la riorganizzazione del regio esercito, intrapreso tra grandi difficoltà e giunto nondimeno ad assumere veste di Raggruppamento Motorizzato, fulcro dei futuro Corpo Italiano di Liberazione e di sei Gruppi di combattimento. Il colonnello Giuseppe Lanza Cordero di Montezemolo assunse il comando del Fronte militare clandestino. Arrestato e seviziato nella prigione di via Tasso, fu ucciso alle Fosse Ardeatine il 24 marzo 1944, come altri militari, antifascisti, ebrei, massoni e detenuti comuni. Il Re e il principe Umberto passarono ripetutamente in rassegna reparti dell'Esercito, riorganizzato da Giovanni Messe, rilasciato dagli inglesi su sollecitazione di Vittorio Emanuele III che lo aveva avuto aiutante di campo. Al di là di fanti, marinai e avieri, dei carabinieri e della pubblica sicurezza, circa 400.000 militari italiani concorsero alla guerra di liberazione.

   Ottenuto il riconoscimento dell'Italia quale “cobelligerante” e consolidate le relazioni internazionali anche con l'Unione sovietica, il governo Badoglio non ebbe la collaborazione del Comitato centrale di liberazione nazionale costituito in Roma dall'agosto 1943 e presieduto da Ivanoe Bonomi. Gli alleati, soprattutto gli statunitensi, ventilarono l'abdicazione immediata del Re, la rinuncia al trono del principe ereditario, il passaggio della corona al nipote, di appena sette anni, e la nomina di un Reggente (nella persona di Badoglio?). Tali proposte furono inizialmente condivise da Benedetto Croce e da Carlo Sforza, repubblicano veemente benché collare della SS.Annunziata e senatore del regno come gli rinfacciò Camillo Canciani in Vittorio Emanuele III fu complice del fascismo? (Roma, 1945). Esse furono fermamente respinte dal Re. Sgarbatamente pressato dagli Alleati, il 12 aprile 1944 il sovrano annunciò che avrebbe trasmesso tutti i poteri al principe ereditario, ma in Roma, quando fosse liberata. Tenne per sé la Corona.

   Il 22 aprile fu costituito il secondo governo Badoglio, con la partecipazione dei partiti del CLN. Alla presenza del Re i ministri giurarono sul proprio onore di servire l'Italia. Non mantennero la promessa di osservare la “tregua istituzionale”. Fecero anzi di tutto per oscurare il sovrano e suo figlio, Luogotenente del regno dal 5 maggio 1944. Il 9 maggio 1946 Vittorio Emanuele III abdicò e si trasferì in Egitto con la regina Elena, cittadino di pieno diritto dell'Italia che aveva salvato dalla catastrofe. Si congedò dalla vita quattro giorni prima che la Costituzione della Repubblica lo condannasse all'esilio. 

   Il repentino crepuscolo del sovrano e della monarchia fu tutt'uno con quello dell'Italia, a vantaggio dei vincitori che conseguirono l'obiettivo col trattato di pace del 10 febbraio 1947: cancellarla dal novero delle maggiori potenze, quale si era affermata negli ottanta anni dalla proclamazione del regno. Vi fu (e vi è) poco da gioirne, come poi disse Croce alla Costituente contro la ratifica dell'umiliante diktat imposto all'Italia, con la drammatica mutilazione dei suoi confini, soprattutto sul fronte orientale, raggiunto con grande sacrificio nel 1918-1924.

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