Luglio-Ottobre 1943
di Aldo A. Mola
Vittorio Emanuele III, Re costituzionale...
Vittorio Emanuele III (Napoli, 11 novembre
1869-Alessandria d'Egitto,28 dicembre 1947), Re d'Italia dal 29 luglio 1900 al
9 maggio 1946, svolse ruolo eminente nell'estate del 1943. Sostituì Benito
Mussolini con il maresciallo Pietro Badoglio, avviò le trattative per ottenere
l'armistizio dalle Nazioni Unite e si trasferì con il governo da Roma a
Brindisi per guidare la riscossa. In migliaia di opere su quelle vicende,
fondamentali non solo per la storia d'Italia, è ricordato quale spettatore o al
traino di decisioni altrui. A ottant'anni dagli eventi giova ripercorrere
sinteticamente quanto avvenne per dare a ciascuno il suo.
In premessa va ricordato il sistema dei poteri
fondato sullo Statuto promulgato il 4 marzo 1848 da Carlo Alberto Re di
Sardegna e adottato dal regno d'Italia alla sua proclamazione il 14 marzo 1861.
Capo dello Stato, il sovrano aveva il comando delle forze armate, con facoltà
di conferirne l'esercizio in caso di guerra. Nominava i ministri, responsabili
dell'esecutivo, mentre il legislativo era “collettivamente esercitato dal Re e
da due Camere”: il senato, di nomina regia e vitalizia, e quella dei deputati,
elettiva.
Il 30 ottobre 1922 Vittorio Emanuele III
incaricò Mussolini di formare il governo di coalizione costituzionale. Il 31 i
ministri giurarono e presero ordinatamente le consegne dai predecessori;
l'indomani s’insediarono. Il 17 e il 29 novembre le Camere votarono la fiducia
a straripante maggioranza. Per assicurare la stabilità del governo dopo anni di
crisi causate dalla “maledetta proporzionale” (definizione di Giolitti), il 18
novembre 1923 il Parlamento approvò la legge che tributò due terzi dei seggi al
partito che ottenesse il 25% dei voti. Alle elezioni del 6 aprile 1924 la Lista
incardinata sul Partito nazionale fascista (PNF) ottenne il 66% dei voti e i
due terzi dei seggi che le sarebbero spettati anche senza quella riforma. Però
i deputati iscritti al PNF (molti solo di recente) risultarono appena 227 su
535. Una minoranza. Gli altri erano “fiancheggiatori”, spesso tiepidi. Tuttavia
nel 1925-1927 quella camera, col senato al seguito, varò le leggi cosiddette
“fascistissime”: scioglimento delle associazioni e dei partiti di opposizione,
soppressione dei loro giornali, decadenza dei deputati “assenteisti”,
introduzione della pena di morte per attentati contro i Reali, il capo del
governo e lo Stato, sostituzione dei consigli comunali e provinciali con podestà
e presidi di nomina governativa. A coronamento del regime di partito unico, il
17 maggio 1928 il Parlamento approvò la legge elettorale proposta da Alfredo
Rocco. La compilazione della lista di 400 deputati, da votare o respingere in
blocco, spettò al Gran consiglio del fascismo, regolamentato il 9 dicembre 1928
da una legge che, contrariamente a quanto solitamente si afferma, non ebbe
alcun potere sulla successione al trono.
L'11 febbraio 1929 Mussolini e il cardinale
Pietro Gasparri sottoscrissero i Patti Lateranensi tra il regno d'Italia e lo
Stato della Città del Vaticano, che si riconobbero a vicenda, mettendo fine
alla “questione romana” aperta nel 1870 con l'annessione di Roma e del Lazio.
Alle elezioni del 24 marzo 1929 il PNF ottenne quasi il 99% dei voti, un
successo replicato nel 1934 (99,8%). A conclusione della conquista
dell'Etiopia, il 9 maggio 1936 fu proclamato l'Impero. Con l'annessione
dell'Austria da parte di Adolf Hitler l'Italia confinò con la Germania.
Suggestionati dal nazionalsocialismo molti fascisti ritenevano sempre più
ingombrante la monarchia. Lo diceva anche il duce, sia pure in privato.
...assediato dai fascisti repubblicani.
Nell'aprile 1938 Vittorio Emanuele III subì
l'affronto della nomina a primo maresciallo dell'Impero, titolo dal Parlamento
conferito a Mussolini. Come Re non ne aveva alcun bisogno. Avverso a ogni forma
di “razzismo”, nel dicembre 1938 emanò le leggi razziali perché approvate dalle
Camere. A differenza della Costituzione della Repubblica, lo statuto non
prevedeva il rinvio delle leggi con parere motivato, né pubbliche riserve. Se,
per non firmarle, egli avesse abdicato avrebbe messo suo figlio Umberto di
fronte allo stesso bivio. Se anche questi avesse abdicato e nessun principe
sabaudo avesse accettato la Corona per non firmare quelle leggi, a norma dello
statuto le Camere in seduta congiunta avrebbero nominato un Reggente
(verosimilmente Mussolini), incarica sino al 1955, quando Vittorio Emanuele
principe di Napoli avrebbe raggiunto l'età per regnare. Più nessuno avrebbe
arginato chi puntava a liquidare la monarchia.
Dal 1939, tramite Pietro d'Acquarone, ministro
della Real Casa, il sovrano tastò la disponibilità di gerarchi (a cominciare da
Galeazzo Ciano, insignito dell'Ordine della SS. Annunziata dopo l'annessione
dell'Albania) a un “cambio di rotta” per evitare che l'Italia finisse succuba
della Germania. Tutti si defilarono. In assenza di interlocutori, non gli
rimase che avallare il governo Mussolini all'apogeo del consenso, dal “patto di
Acciaio” alla neutralità (settembre 1939) e all'intervento in guerra del 10
giugno 1940, deliberato anche per propiziare la resa della Francia e
scongiurare l'irruzione dei tedeschi irrompessero nel “Midi”, come avvenne nel novembre 1942.
L'iniziativa del Re: revocare Mussolini...
Dall'inizio del 1943, fallita l'aggressione
alla Grecia nell'ottobre 1940, perduta l'intera Africa Orientale nel 1941, dopo
la ritirata dalla Libia e dal fronte del Don nell'Unione sovietica (1942), la
sconfitta dell'Italia era ormai ineluttabile. Il cosiddetto patto
Roma-Berlino-Tokyo non funzionava affatto per la perdurante pace tra il
Giappone e l'Unione sovietica. In assenza di iniziative di Mussolini per un
armistizio separato, Vittorio Emanuele III mirò a salvare l'Italia dalla debellatio
e dalla sua spartizione tra i vincitori, ventilata dalla Gran Bretagna. Si
valse dell'unica leva sicura: alcuni generali e i carabinieri, capaci di
operare secondo i due canoni necessari: segretezza ed efficienza. L'urgenza
dell'azione fu dettata dallo sbarco degli anglo-americani in Marocco e Algeria
(novembre 1942), dal loro ormai indiscutibile dominio sul Mediterraneo, dalla
forzata resa dell'ultimo bastione dell'esercito in Tunisia, agli ordini del
maresciallo Giovanni Messe (maggio 1943), dalla “fronda” insorgente all'interno
dei gerarchi dopo il vasto rimpasto di ministri attuato da Mussolini in marzo,
fonte di diffusi malumori ai vertici del regime e senza speciale vantaggio per
il “fascismo”, e, infine, dall'assalto anglo-americano alla Sicilia (10
luglio), completo di atti criminosi contro la popolazione civile.
A Dino Grandi, decorato del Collare della SS.
Annunziata, il Re confidò di aver bisogno di un voto del Gran consiglio del
fascismo, come fosse una “terza Camera”. Il bombardamento di Roma in
coincidenza con il fallimento dell'ennesimo incontro Mussolini-Hitler (19
luglio) impose l'accelerazione. Quando lesse l'ordine del giorno Dino
Grandi-Luigi Federzoni-Giuseppe Bottai, pervenutogli tramite Cesare Maria De
Vecchi (mentre il massone Domenico Maiocco lo fece avere a Ivanoe Bonomi,
capofila degli antifascisti), il Re constatò che i gerarchi si limitavano a
chiedere al duce di deporre il comando della guerra senza però rimuoverlo da
capo del governo né intaccare il regime.
Mentre
i partiti antifascisti e i più rappresentativi esponenti del pre-fascismo erano
ancora pressoché irrilevanti nel Paese e agli occhi dei nemici, Vittorio
Emanuele III passò all'azione. In un colloquio di venti minuti a Villa Savoia,
poco dopo le 17 del 25 luglio 1943, comunicò al duce la revoca da capo del
governo. “Fermato” (non “arrestato”) e sorvegliato in una caserma di
carabinieri, Mussolini si dichiarò disponibile a collaborare. La somma dei
decreti in pochi giorni emanati da Badoglio e i Verbali del governo (pubblicati
a cura di Aldo G. Ricci) indicano la lunga preparazione sottesa al “cambio” e
sfatano la leggendaria incertezza del sovrano tra Badoglio e il maresciallo
Enrico Caviglia, lontano dalle leve del potere e privo dei necessari riservatissimi
contatti internazionali. Lo stesso vale per le misure adottate dal capo di
stato maggiore dell'Esercito, Mario Roatta, per reprimere manifestazioni che
dall’esultanza potevano volgere in insorgenza sia di sovversivi sia di fautori
del “duce”, come narrò anche il partigiano monarchico Beppe Fenoglio in Primavera
di bellezza (1960). Gli anglo-americani (e non solo essi) constatarono che
il governo controllava l'ordine pubblico e smantellava il regime. Aveva dunque
i requisiti per eseguire le condizioni che da sin dal Memorandum di Quebec (18
agosto 1943) gli anglo-americani avevano prospettato per concedere all'Italia
di uscire dalla guerra. Non tutte le decisioni di Badoglio risultarono
lungimiranti. In particolare, lo scioglimento completo della Camera dei fasci e
delle corporazioni, dalla quale sarebbe bastato escludere i soli fascisti,
inceppò il regime bicamerale e sovraespose il re.
...e ottenere di arrendersi per salvare lo
Stato
Il 12
agosto il generale Giuseppe Castellano
partì da Roma alla volta di Lisbona per contattare l'Alto comando
anglo-americano e avviare e trattative armistiziali. Vi giunse il 16 previo
incontro a Madrid con l'ambasciatore britannico Samuel Hoare, che dal 1917 era
stato alcuni anni tenente colonnello nel servizio segreto militare inglese a
Roma.
Contro i calcoli del governo italiano, d'intesa
con l'Unione sovietica gli anglo-americani avevano approntato da tempo lo
strumento immodificabile di resa dell'Italia “senza condizioni”. Esso fu
consegnato in forma sintetica al generale Castellano e nel testo “lungo” al
generale Giacomo Zanussi che, ignaro della missione del collega, a sua volta
raggiunse Lisbona il 25. Al rientro di Castellano a Roma, dopo rapida
valutazione l'“armistizio breve” obtorto collo fu accettato. Al termine
di febbrili consultazioni Castellano lo sottoscrisse il 3 settembre a Cassibile
(Siracusa). Preludio alle ulteriori durissime condizioni (sottoscritte da
Badoglio il 29 settembre sulla nave inglese “Nelson”, ancorata a Malta), lo
strumento di resa riconosceva il “governo del re” e quindi lo Stato incardinato
sulla Corona. Il generale Eisenhower, comandante in capo degli Alleati, si
riservò la data della pubblicazione. A Roma perdurò la convinzione che sarebbe
stato proclamato il 12 (in una lettera privata Badoglio accennò addirittura al
16). Esso invece fu imposto da Algeri l'8 settembre, quando il governo era
ancora impreparato ad affrontare la prevedibile reazione della Germania. Dopo
vivace discussione, presenti le cariche militari supreme e il maggiore Luigi
Marchesi, il Re concluse: “Adesso sappiamo” (Angelo Squarti Perla, Le
menzogne di chi scrive la storia, ed. Gambini, 2023). In poche ore, di
concerto con Vittorio Emanuele III, il Re Badoglio provvide al necessario per
mettere al sicuro la famiglia reale, il governo, il comandante supremo Vittorio
Ambrosio e i capi di stato maggiore delle tre Armi.
Il Re rifiutò
la proposta di riparare su una nave degli Alleati (“territorio” dei vincitori).
In assenza di alternative praticabili (raggiungere la Sardegna via nave in
partenza da Civitavecchia), fu allestito il trasferimento in auto da Roma verso
Pescara, via per Tivoli-Avezzano. Sulle 5 di mattino del 9 settembre la vettura
del Re partì per prima con lo stendardo del Capo dello Stato. Le altre (con
Badoglio, il principe ereditario Umberto, la Regina e il loro seguito) si
accodarono alla spicciolata. Tutto fu tranne una “fuga”. Un fuggiasco non
percorre strade ordinarie né innalza le sue insegne. Il governo conferì il
comando di Roma (“città libera” dall'agosto, essa comprendeva lo Stato della
Città del Vaticano) al generale Giorgio Calvi di Bergolo, genero del sovrano,
poi autorizzato a stipulare la resa ai tedeschi soverchianti. Nel pomeriggio
del 9 il Re presenziò all'aeroporto di Pescara al consulto tra Badoglio e i
vertici militari per concertare la meta, fissata nella Puglia, non ancora
raggiunta dagli anglo-americani ed ove erano in corso duri combattimenti di
reparti italiani contro i germanici, costretti dall'eroico generale Nicola Bellomo
a ritirarsi da Bari. Verso le 23 dal molo di Pescara la famiglia reale si
imbarcò sulla corvetta “Baionetta”, giunta da Ortona con Badoglio già a bordo.
Scortata dall'incrociatore “Scipione Africano”, essa proseguì verso un porto
sicuro, durante la navigazione individuato in Brindisi.
All'arrivo Vittorio Emanuele III lanciò un appello
agli italiani. Il governo si insediò, sia pure in condizioni molto precarie.
Gli Alti Comandi trasmisero direttive non sempre recepite né rilanciate dai
destinatari, in via di dissolvimento.
Il Re trasmise i poteri ma serbò la Corona
Conclusa l'occupazione della Sicilia e
intrapresa quella della Calabria, allo sbarco nella piana di Salerno gli
anglo-americani furono tenacemente fronteggiati dai germanici. Con una spericolata
operazione il 12 settembre il maggiore delle SS Otto Skorzeny prelevò Mussolini
dall'Albergo Imperatore sul Gran Sasso e lo trasferì in Germania, cespite dello
Stato fascista repubblicano d'Italia, poi Repubblica sociale italiana. Dopo il
“suicidio” del Maresciallo Ugo Cavallero, suo ospite a Frascati, il maresciallo
tedesco Kesselring ottenne da Rodolfo Graziani di porsi a capo di un esercito
repubblicano mentre non solo nel Mezzogiorno reparti fedeli al giuramento al Re
si battevano contro gli occupanti.
Gli anglo-americani tennero una condotta
ambigua nei confronti di Vittorio Emanuele III. Da un canto ne avevano bisogno
perché era il perno dello Stato (diplomazia, forze armate...) e garantiva
l'esecuzione delle condizioni di resa. Dall'altro, anche dopo la dichiarazione
di guerra dell'Italia contro la Germania (13 ottobre), ostacolarono la
riorganizzazione del regio esercito, intrapreso tra grandi difficoltà e giunto
nondimeno ad assumere veste di Raggruppamento Motorizzato, fulcro dei futuro Corpo
Italiano di Liberazione e di sei Gruppi di combattimento. Il colonnello
Giuseppe Lanza Cordero di Montezemolo assunse il comando del Fronte militare
clandestino. Arrestato e seviziato nella prigione di via Tasso, fu ucciso alle
Fosse Ardeatine il 24 marzo 1944, come altri militari, antifascisti, ebrei,
massoni e detenuti comuni. Il Re e il principe Umberto passarono ripetutamente
in rassegna reparti dell'Esercito, riorganizzato da Giovanni Messe, rilasciato
dagli inglesi su sollecitazione di Vittorio Emanuele III che lo aveva avuto
aiutante di campo. Al di là di fanti, marinai e avieri, dei
carabinieri e della pubblica sicurezza, circa 400.000 militari italiani
concorsero alla guerra di liberazione.
Ottenuto il riconoscimento dell'Italia quale
“cobelligerante” e consolidate le relazioni internazionali anche con l'Unione
sovietica, il governo Badoglio non ebbe la collaborazione del Comitato centrale
di liberazione nazionale costituito in Roma dall'agosto 1943 e presieduto da
Ivanoe Bonomi. Gli alleati, soprattutto gli statunitensi, ventilarono
l'abdicazione immediata del Re, la rinuncia al trono del principe ereditario,
il passaggio della corona al nipote, di appena sette anni, e la nomina di un
Reggente (nella persona di Badoglio?). Tali proposte furono inizialmente
condivise da Benedetto Croce e da Carlo Sforza, repubblicano veemente benché
collare della SS.Annunziata e senatore del regno come gli rinfacciò Camillo
Canciani in Vittorio Emanuele III fu complice del fascismo? (Roma, 1945).
Esse furono fermamente respinte dal Re. Sgarbatamente pressato dagli Alleati,
il 12 aprile 1944 il sovrano annunciò che avrebbe trasmesso tutti i poteri al
principe ereditario, ma in Roma, quando fosse liberata. Tenne per sé la Corona.
Il 22 aprile fu costituito il secondo governo
Badoglio, con la partecipazione dei partiti del CLN. Alla presenza del Re i
ministri giurarono sul proprio onore di servire l'Italia. Non mantennero la
promessa di osservare la “tregua istituzionale”. Fecero anzi di tutto per
oscurare il sovrano e suo figlio, Luogotenente del regno dal 5 maggio 1944. Il
9 maggio 1946 Vittorio Emanuele III abdicò e si trasferì in Egitto con la
regina Elena, cittadino di pieno diritto dell'Italia che aveva salvato dalla
catastrofe. Si congedò dalla vita quattro giorni prima che la Costituzione
della Repubblica lo condannasse all'esilio.
Il
repentino crepuscolo del sovrano e della monarchia fu tutt'uno con quello
dell'Italia, a vantaggio dei vincitori che conseguirono l'obiettivo col
trattato di pace del 10 febbraio 1947: cancellarla dal novero delle maggiori
potenze, quale si era affermata negli ottanta anni dalla proclamazione del
regno. Vi fu (e vi è) poco da gioirne, come poi disse Croce alla Costituente
contro la ratifica dell'umiliante diktat imposto all'Italia, con la
drammatica mutilazione dei suoi confini, soprattutto sul fronte orientale,
raggiunto con grande sacrificio nel 1918-1924.
Nessun commento:
Posta un commento