NON VI E' DUBBIO CHE UNA NAZIONE PASSATA DA UN REGIME MONARCHICO AD UN REGIME REPUBBLICANO SIA UNA NAZIONE «DECLASSATA», E CIÒ NON PUÒ NON ESSERE AVVERTITO DA CHIUNQUE ABBIA UNA SENSIBILITÀ PER VALORI I QUALI, PER ESSERE SOTTILI E IMMATERIALI, NON PER QUESTO SONO MENO REALI.

domenica 16 aprile 2023

Capitolo XXXVII: Il fiume amico.

 



 di Emilio del Bel Belluz

La malattia di Ludovico finalmente ebbe termine, dopo una settimana di riposo forzato riprendemmo la via del fiume. Eravamo arrivati a primavera inoltrata e le giornate erano sempre più calde e più ricche di ore di luce. Una delle mie passioni era quella di osservare gli alberi e la vegetazione che nascevano spontanei lungo le rive: un vero miracolo della natura. Gli alberi erano delle nuvole di vari colori. Il freddo dell’inverno era un ricordo lontano. Una cosa era certa, dopo tanti anni che lavoravo immerso nella natura, rimanevo sorpreso nel vedere sempre dei nuovi scorci. Il colore del fiume non era mai eguale, dopo piogge abbondanti, le sue acque da limpide diventavano limacciose. Non sarebbe stato facile riproporre su una tela i suoi mille colori. Mi soffermavo tuttora ad ammirarlo a lungo, come lo vedessi per la prima volta e ciò mi rasserenava l’animo. Da bambino il fiume era il mio migliore amico, sempre fedele e presente. Quando avevo un dispiacere, correvo al fiume per confidargli le mie pene; ero convinto che mi potesse ascoltare e che mi desse la forza per superarle. Una volta non lontano da casa mia c’era una casa colonica che era stata abbandonata dai suoi abitanti perché il fiume ogni tanto l’invadeva. Solo una signora anziana non aveva voluto abbandonare la casa, anche se i figli, dopo la morte del padre, s’erano trasferiti in un paese vicino, lasciandola sola. L’anziana donna si chiamava Rosa e da tempo aveva superato gli ottant’ anni. In molti si erano recati da lei per convincerla ad andarsene, ci aveva provato anche il vecchio prete, ma non c’era stato nulla da fare. Quando il curato era andato a casa sua aveva detto che non se ne sarebbe andata che dopo morta. Al vecchio parroco aveva detto che in un giornale aveva letto di una donna che alla morte del marito era rimasta nella sua casa lungo il fiume Mississipi a tener vivo i ricordi della sua famiglia. Il marito era sepolto poco lontano da casa, in una tomba al limitare del bosco. Rosa non aveva mai avuto paura la solitudine perché, a suo dire, quelli che hanno fede non temono niente. La donna aveva mostrato al parroco un posto dove il marito aveva issato una croce in legno, dove ogni giorno, appena sveglia, andava a pregare. Quel luogo era per lei sacro, e mai avrebbe potuto abbandonarlo. Quella croce l’aveva confortata nelle tante avversità. Il parroco l’aveva lasciata alle sue convinzioni, aveva compreso che niente e nessuno le avrebbe fatto cambiare idea. La donna nell’accompagnarlo gli chiese il favore di venire a recitare il S. Rosario davanti alla croce, almeno una volta all’anno. Il vecchio curato acconsentì a questa richiesta che fu esaudita fino alla fine della vita di Rosa. Quando la donna morì, il parroco disse che quella croce doveva rimanere dove si trovava, a testimonianza di una grande fede. Ogni anno, in quel luogo, la gente del paese si recava a pregare, e veniva ricordata la donna che aveva resistito al fiume e agli uomini. La casa con il tempo crollò e diventò preda della natura, ma quella croce svettava ancora, a testimonianza che quando si lascia qualcosa di sacro, esso resiste al tempo. In quel luogo molte persone vi avevano portato dei rosari, segno che chiedevano a Dio una grazia. Ripresi la via del fiume, e andai con il mio amico nei pressi della croce che si poteva ammirarla dalla riva. Talvolta vi calavo le reti in quel posto tranquillo e riuscivo a catturare dei pesci piuttosto grandi. Questo lo facevo nei periodi dell’anno in cui avevo più bisogno di guadagnare. Ad ogni pescata dicevo che era merito di quella croce a cui rivolgevo le mie preghiere. Ludovico condivideva quello che dicevo di quel posto, piaceva anche a lui, perché aveva la mia stessa fede. I giorni che seguirono furono lieti, la pesca era stata abbondante e la vita in famiglia era serena. Ludovico appariva il più fortunato di tutti. Stava vivendo il periodo più magico della vita: l’innamoramento. Una mattina mi disse che voleva andare a Treviso a vedere il Duce che veniva a parlare alla popolazione. Avrebbe voluto salutarlo romanamente e sperava di potergli raccontare che la sua gamba l’aveva perduta in guerra e che si sentiva onorato di aver combattuto tra le fila dei carlisti. Quando accennava a queste cose si commuoveva, sui suoi occhi si poteva vedere la sincerità dei suoi ideali. La guerra gli era rimasta dentro, sentiva il cuore battere più forte quando recitava la preghiera del Requeté Carlista. “ La morte del giusto è il principio della vita. La morte sul campo di battaglia è la morte ideale delle grandi anime. Se l’ora della morte si avvicina, resta tranquillo, affidati alla misericordia divina. Non temere nulla, riposa nella Pace di Cristo, come colui che dorme, poiché chi muore in Dio riposa in pace”. Ludovico era felice di recitarmi questa preghiera, l’aveva imparata a memoria nei momenti in cui si trovava sul letto di dolore in Spagna. Gliela aveva fatta conoscere una suora che lo aveva assistito, e gliela aveva scritta su un libro che teneva sempre vicino. In quei momenti, in cui il male lo perseguitava, la fede gli fu di enorme aiuto. Quando uscivamo per andare a pescare, salendo in barca, si faceva il segno della croce, chiedendo l’aiuto del buon Dio.

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